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per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (1/5)

Il 16 luglio scorso, intorno alle 19.30, un aneurisma congenito mi si è rotto nel cervello all’altezza della nuca. Non sapevo che si trattasse di questo, naturalmente. Mi bastava sapere che mi sentivo malissimo. I sintomi si leggono online con una ricerca di pochi secondi. Per me è andata così: mi pareva d’aver ricevuto un colpo di mazza, e che per questo la testa si fosse girata dall’altra parte e al contrario. Poi i classici perdita di coscienza [qualche secondo, il cardiologo l’ha definita “sincope”], nausea e vomito, rigidità del collo. In più, io ho avuto subito problemi di vista, di parola, di movimento del lato sinistro del corpo e di controllo degli sfinteri.

Al mio uomo che aveva appena chiamato il 118 ho detto [in piena emorragia cerebrale]: Vo-gli-o cam-bi-a-re vi-ta.

La storia è cominciata così, dopo una doccia. La giornata era stata molto impegnativa, ma io ero rilassata. Nessun sintomo. Nessuno. Si è rotto così, senza preavviso. Il personale del 118 l’ha catalogato come “dolore cervicale con vomito” e mi ha chiesto:

Che vuole fare? Vuole approfondire?

Il mio uomo era incredulo: Dev’essere certamente qualcosa al cervello. Vede, parla e si muove male. Com’è possibile che sia solo dolore cervicale?

Niente, mi hanno chiesto se volevo approfondire. Mi sentivo malissimo. Completa perdita del mio granitico senso di me.

Ho alzato la testa e annuito: Sì, an-di-a-mo in os-p-e-dale.

Sono finita al pronto soccorso di Galatina. A tutti i medici sembrava qualcosa di molto banale, “dolore cervicale con vomito”. Da qui ricovero precauzionale nel reparto di Medicina, codice verde. Verde. Nel frattempo i miei genitori mi avevano raggiunta, e mia madre aveva voluto rimanere con me. Mi ha raccontato che quella notte, verso le tre, un giovanissimo medico ha finalmente capito. Un medico molto giovane, molto alto, molto sicuro di sé.

Signora, non mi piace questa rigidità del collo, facciamo una Tac urgente.

Teresa, così si chiama mia madre, l’ha sentito insistere al telefono, mobilitare i colleghi con veemenza. Serviva una Tac urgente.

No, non domani mattina, adesso.

E finalmente la diagnosi: rottura di un aneurisma cerebrale. Mia madre non capiva.

  • Che cosa significa? Che cosa succede a mia figlia?
  • Signora, sua figlia ha un’emorragia cerebrale.
  • Cosa? Ma mia figlia ha 36 anni!
  • L’età non conta signora. Senta, il rianimatore ci assicura che la possiamo spostare senza pericolo. Dobbiamo correre a Lecce, qui non siamo attrezzati.

La foto che vedete è stata scattata qualche ora prima del fattaccio. Coincidenze? Ci credete?

apocalissi digitale

Pubblicata su faccialibro, ripresa da un quotidiano telematico, condivisa più di cento volte sia dalla mia che da altre pagine non solo personali, “mi piace” totali arrivati a una cifra incalcolabile. Internet funziona così? Funzionano così i social? Non lo so ma la cosa è divertente. Soprattutto sono divertenti i commenti.

Fortuna o prontezza di riflessi? Culo o… ?
Non lo so, ero lì intorno, in giro a cercare un regalo per i due anni di mio nipote Davide, mi piaceva l’atmosfera e mi sono fermata a fare una foto.

L’hai fatta proprio tu con le tue mani?
Mica sono orecchiette! Diamine! Sì, le mani tenevano il cellulare ben fermo, l’indice destro era pronto a scattare.

Si presume che sia stata scattata con il cell, vista la qualità della foto.
Sì, certo, è sgranata! L’ho scattata con un cellulare con fotocamera a 5 mega. Teorici.

Io non avrei avuto il coraggio, ho paura dei fulmini.
Ah beh, allora sono la solita incosciente.

Non mi piace, sembra l’apocalissi.
Beh ma poi non è successo niente.

Bella foto, ma tu fotografi?
No, io scrivo.

con una risata Gianna di ucciderà

Gianna Greco è stata una delle prime musiciste con cui ho tessuto una relazione significativa. L’ho conosciuta nelle Shotgun Babies, la cui fondatrice – Cristina Cagnazzo – ha lavorato con me alle presentazioni dei miei racconti per due anni.

Gianna ride con tutta la faccia, apre quella bocca dai denti perfetti, ingrossa il petto e, se non hai forza sufficiente, t’uccide con la sua energia piana e strafottente. Se ne frega, Gianna, ha imparato a fregarsene di tutto e di tutti. Ha pianto, l’hanno fatta piangere, se ne frega. Lacca le unghie di rosso o di nero, prende il basso e se ne frega.

Salentina dell’85, formazione classica, laurea in scienze politiche, ha studiato musica da autodidatta e poi canto e basso a livello professionale. Compone, arrangia e suona il basso nelle Shotgun Babies, nei MUFFX e, dal 2012, nel Putan Club nelle sue varie formazioni. Tra queste, con quel mito vivente che è Lydia Lunch. Co-fondatrice dell’etichetta Ill Sun Records, ha suonato anche per Opa Cupa, Mentally Doof e Baye Fall.

«Diciotto anni fa ho cominciato a suonare la chitarra. Credevo di non essere portata per la musica. Il basso è arrivato sette anni dopo. Mi piaceva da tempo, e quando l’ho sfiorato per la prima volta ho sentito qualcosa nello stomaco: lì ho capito che era il mio strumento! Ho sempre avuto un rapporto di odio/amore con la musica in generale e con il basso in particolare. A un certo punto l’ho anche lasciato completamente. Due anni e mezzo senza suonare: mi sentivo incapace e poco portata».

Non ci credo.
«Davvero. Poi, dopo un concerto nato per caso con un musicista che adoravo e tutt’ora adoro – un vero mito per me!, ho ripreso e non mi sono più fermata. Adesso il basso è il mio modo preferito di mettermi in gioco. Con il basso tiro fuori il mio vero carattere».

Parli di François R. Cambuzat, si può dire?
«Ovvio, sì! Certo che si può dire… si DEVE dire!!!».

Ti sento parlare spesso di rabbia. Tu sei incazzata. Con chi? E perché?
«È una rabbia atavica, incrostata da anni di brutte esperienze e di altre bellissime che poi hanno lasciato l’amaro in bocca. Credo che sia più che evidente che attualmente viviamo in un’era… “invivibile”, e che per sopravvivere ci si deve inventare giorno per giorno. Bene. Io invento la mia vita, passo dopo passo, mettendoci tutto quello che posso metterci, a testa alta e senza troppi giri di parole e con tanta rabbia. In particolare con la musica riesco a tirare fuori quello che ho dentro».

Hai un rapporto molto fisico col basso. A me piace da morire. Una volta a un tuo concerto ho riso un sacco perché un amico era sconvolto dalle tue cosce. Diceva: “Le mostra troppo. Perché fa così? Che provocazione è?”. Ho tentato di spiegargli che “provocare” era l’ultima delle tue intenzioni e l’ho invitato a godersi lo spettacolo.
«Ahahah, ti prego presentami il tuo amico! Beh, prima cosa: sul palco sono esattamente come sono nella vita. Non uso pantaloni da nove anni. Gonne, vestiti… solo ed esclusivamente questo. Seconda cosa: no, non è una provocazione. Quando suono so solo di essere me nella versione più felice e soddisfatta, il “guscio” in cui mi trovo è nulla di più che un contenitore. Ogni volta che suono noto con profondo piacere che se durante i primi minuti del concerto molti uomini sono più attenti alle mie cosce che al suono del mio basso, alla fine del concerto hanno dimenticato di avere di fronte una donna».

T’ho coinvolto in iosonobellissima perché penso che tu sia femminista, come me. È vero?
«Dire d’essere femminista per me significa ammettere che c’è un problema, e non mi piace. Invece il problema esiste. Capita di doversi confrontare con gente che senza averti mai sentita suonare crede che tu non sia capace per il solo fatto che sei una donna. Questa è una doppia sfida che, non lo nascondo, mi dà il doppio del gusto. Vivo questo aspetto come un motivo per fare di più ogni volta».

Dovessi dare un consiglio alla Gianna di qualche anno fa, quella degli inizi, quale sarebbe?
«Spacca tutto!!! (ride, ndr)».

Parliamo dell’esperienza internazionale con il Putan Club: cosa ti sta insegnando?
«Forse è ancora presto per dirlo, ma posso provarci. Innanzitutto mi sta insegnando ad avere un rapporto più professionale con la musica, che da due anni è diventato il mio unico lavoro. E poi tanta sicurezza in più. Suonare ogni giorno davanti a migliaia di persone mi ha dato grande soddisfazione e tantissima grinta in più. Quello che mi ha fatto ridere è stato rendermi conto che all’estero sono abbastanza conosciuta. La gente sa chi sono, da dove vengo, quanti anni ho, quali sono i gruppi in cui suono. Che dire… nemo propheta in patria? (ride, ndr)».

Lydia? È un’artista incredibile, una storia dolorosissima. Come si lavora con lei?
«Divinamente bene. Una donna magnifica, con cui è solo un piacere e un onore poter condividere il palco… e poi è maledettamente r’n’r! Quindi l’ADORO!».

Non dai nessun segno di “sudditanza” rispetto a questi grandi nomi.
«Preferisco non dipendere da nessuno. Il mio percorso da bassista deve proseguire e spero migliorare grazie al mio sudore e basta».

Hai un sacco di progetti.
«Sì. Quest’inverno uscirà il disco delle Shotgun Babies sul quale abbiamo lavorato intensamente per mesi. Da qui, tour in Italia e in Europa per tutto il 2013 e 2014. Tra settembre e ottobre 2013 sarò in tour con il Putan Club in Spagna e Portogallo. Faremo un nuovo giro in Italia fino al Libano a partire da gennaio 2014, ad aprile 2014 saremo per un mese tra Cina, Giappone e Vietnam, a maggio ripartiremo per l’Europa dell’Est. Nel frattempo sto componendo pezzi per un mio progetto da sola. Avvertivo l’esigenza di farlo ormai da molto tempo e finalmente ci sono riuscita. Entro aprile 2014 conto di concludere la composizione, in modo da poter organizzare un bel tour per l’autunno 2014… on the road again!».

E poi?
«E poi voglio una casa tutta mia. È il momento».

Ilaria Guidantoni tunisina italiana [e anche il contrario]

Un’amica di un’amica cercava una giornalista che presentasse “un libro sulla Tunisia in cui c’è attenzione per le donne”. È così che ho conosciuto Ilaria Guidantoni. L’ho vista due volte e ci siamo scritte alcune decine di e-mail, ho letto tre dei suoi libri e lei uno dei miei. Ho chiesto di lei, sbircio le sue foto. Il fatto che la trovi sempre ben vestita e pettinata, che porti borse e occhiali firmati, che indossi pellicce e che abbia un piglio sempre piuttosto formale normalmente mi farebbe passare ogni desiderio di approfondimento. Invece Ilaria mi incuriosisce terribilmente: trovo irresistibile il suo innamoramento per la Tunisia. La rende trasparente.

Insomma chi è Ilaria? Dimentica il contesto, qualunque contesto. Definisci chi sei.
«Una donna del Mediterraneo, una specie di apolide. Non lo dico per vezzo: raccontando del Mediterraneo trovo, adesso, il mio riconoscimento maggiore. Culturale ma anche di orizzonte, visione dell’esistenza, complesso di valori morali e religiosi. Vi è una confluenza di anime diverse che è anche nella mia formazione. Amo la sponda a sud del Mediterraneo».

Non riesco a definire “reportage” quello che scrivi.
«No, è una scrittura un po’ di confine. So che è un rischio: assieme alla ricchezza delle differenze che si mescolano, c’è la possibilità del limbo. C’è però una traccia chiara, e cioè il tema dell’“incontro con l’Altro”, presente fin dal primo saggio sulla sicurezza stradale. Certo nell’ultimo – “Chiacchiere, datteri e the. Tunisi, viaggio in una società che cambia” – la scrittura si fa più chiara. È un reportage “caldo”, tutto in prima persona e legato anche a pensieri ed emozioni personali».

Racconti della Tunisia e sei – come si dice in gergo – sempre sulla notizia. Eppure io continuo a trovare più rilevante, più evidente, il dato “personale”. È questo che mi pare definisca il tuo attaccamento a questo Paese.
«Me ne sono innamorata attraverso un incontro personale. Ecco, la vita privata a volte ci porta ad aprire delle porte, poi non è detto che si rimanga nella stessa casa o si esca dalla stessa porta. Io nel frattempo mi sono legata a questo mondo: una vicenda personale mi ha aperto le porte su una vicenda collettiva. Frequentavo la casa di una persona che si occupava (e si occupa) di diritti umani sotto la dittatura: questo ha spalancato un mondo insospettabile. È stato viverlo da dentro, con le preoccupazioni di chi vive una vicenda personale, che probabilmente mi ha portato a scriverne col cuore».

È una storia che continua, insomma, anche se in modo diverso.
«Sai cosa mi succede, adesso? Che frequento molti italiani di Tunisi, italiani nati a Tunisi o che vi vivono in parte o che hanno sposato tunisini. E poi studio arabo e tunisino. Da due anni, anche se con scarsi risultati (sorride, ndr). Il problema è che è molto difficile imparare a parlarlo, vorrei intanto imparare a capirlo. È il passo che voglio arrivare a fare entro un anno. Adesso, scherzando, dico che potrei giocare a nomicosecittà. Conosco, insomma, molte parole. Però l’ultima volta a Tunisi sono andata in un quartiere popolare, ho visto un’insegna, ho riconosciuto che era un ristorante e sono riuscita a leggere il menu in arabo. Mi sono sentita dentro il Paese. Adesso in Italia mi fanno i complimenti per il mio italiano, è buffissimo, mentre a Tunisi la gente mi parla in arabo in qualunque modo io sia vestita. Mi emoziona».

Sei innamorata. Raccontamene i sintomi.
«La malinconia che ho provato le volte che ho lasciato quell’aeroporto. E poi, adesso, se penso al “ritorno” non so di cosa parlo: dell’Italia? della Tunisia? Non so più dov’è questo “ritorno”. Mi era già successo in Italia. Evidentemente un luogo solo non mi basta. Sono in egual misura fiorentina, milanese e romana, ma a parte il legame con la famiglia e la lingua… non riesco nemmeno più a dire d’essere italiana. Altra cosa: a Tunisi riesco a prendere tempo per me. Ecco, forse mi sono innamorata di quel posto perché quando sono lì riesco a non finalizzare il tempo in modo così stringente come faccio altrove. Vivo con un senso di pienezza, quando invece normalmente ho tre telefoni sempre accesi e l’orologio sempre sott’occhio. In Tunisia ho scomposto i miei schemi, proprio come accade quando ci si innamora».

A volte è come se tu dicessi “guardatemi, sono io, sono qui!”.
«Ho molta paura che se… non sto sulla notizia… si dimentichino di me. Ho paura che lontana dai loro occhi possa diventare lontana dal loro cuore. È una forma di corteggiamento, anche. Lo so».

Se ho capito qualcosa di te, ti sei portata in casa un po’ della Tunisia. E parlo di sensazioni.
«Una teiera, un tappeto berbero, gioielli, una sciarpa, una zuppiera, delle coppette dipinte a mano che uso spesso. Ci penso per la prima volta: sono tutti regali. Io non ho mai comprato oggetti per me, per me compro cose che consumo. Il profumo che si utilizza là per i cuscini, il the, vino e aceto balsamico di datteri. Sì, compro cose che consumo, non mummifico la Tunisia».

Ho idea che tu stia provando a spostare parte del tuo lavoro in Tunisia.
«Vorrei cercare di rappresentare, in qualche modo, un anello tra i due Paesi. Turismo, agroalimentare, piccola e media impresa, lavoro femminile. Secondo me ci sono tutti i presupposti per costruire assieme».

[Ilaria Guidantoni ha scritto: “Vite sicure” (Edizioni della Sera, 2010); “Prima che sia buio” (Colosseo Grafica Editoriale, 2010); “I giorni del gelsomino” (P&I Edizioni, 2011); “Tunisi, taxi di sola andata” (NoReply editore, 2012), “Chiacchiere, datteri e thé. Tunisi, viaggio in una società che cambia” (Albeggi Edizioni, 2013)].

mình thật tuyệt (diario) / giorno 3, parte terza

Alessandra-la-grande-Tigre è tornata in Vietnam pochi giorni prima del mio arrivo. Ha impacchettato tutto nutrendo il desiderio d’avere, un giorno, una casa come il Castello errante di Howl, ed è sbarcata – da Roma – di nuovo qui, dove una parte importante della sua vita è cominciata. Camminando lungo la riva del lago Hồ Tây, commentiamo teneramente i baci furtivi di giovani coppie sedute su romantiche (a maggior ragione se sgarrupate) sedie a sdraio all’ombra di piccoli ombrelloni cocacola.

La parte importante della sua vita cominciata in Vietnam ha anche due ragioni che si chiamano Roberto-il-lungo-acquatico e Iris-la-piccola-Tigre. Finalmente li rivedo, Roberto altissimo e Iris con quel suo sorriso così… violento! Sorrido salutando il-lungo-acquatico perché anche qui, come mi hanno raccontato succede in Italia, l’altezza di Roberto è argomento di commento, quando non proprio di conversazione. M’è successo con l’ambasciatore (“E insomma quella volta… sono entrati così nella mia stanza, lei e questa bambina e quest’uomo… altissimo! Lo conosce? È così alto, e dire che io sono alto!”); e m’è successo con mister-Tâm (“Are you a journalist? Yes! As Roberto, Alessandra’s husband. He is so tall!”). E via racconti su questa famiglia degna d’un fumetto.

Osservando Iris continuo a sorridere: gioca allegra sul prato mentre con Ale si sovrappongono pensieri sulle ore trascorse e le cose viste, sul popolo vietnamita, la storia e la filosofia, su cosa speriamo per noi, su cosa ci auguriamo accada domani. Domani, quando “mình thật tuyệt” concluderà i suoi primi nove mesi di scritti, immagini ed e-mail.

Ed ecco un’altra piccola grande storia cui ho la fortuna di assistere. Una delle case che Roberto-il-lungo-acquatico si è incaricato di vedere mentre la-grande-Tigre si occupa di me pare sia quella giusta. Con Ale e Iris lo raggiungiamo, tolgo anch’io le scarpe per entrare e cerco di restare in silenzio e in disparte nel corso della trattativa coi proprietari. Non voglio essere di troppo, non voglio turbare anche solo con la mia presenza un momento molto intimo. Roberto sorride ancora e mi spiega che farà tante, tante domande: “C’è sempre qualcosa che viene fuori all’ultimo momento. Ti sembra d’aver chiarito tutto, e invece…”.

Così attendo sull’uscio cercando d’osservare la conversazione con la coppia vietnamita che affitta quest’appartamento molto luminoso su due piani. Un edificio pensato per gli occidentali e a un prezzo per occidentali (in dollari). L’umidità del lago si sente fin dentro le ossa, mentre Iris è davvero una piccola-Tigre saltellando e prendendo possesso di ambienti che sente già suoi.

Io e Iris abbiamo un rapporto che alterna momenti di studio e diffidenza a grandi risate. Alterniamo questi sentimenti anche a cena. Siamo “da Paolo westlake”, dove la “traduzione” del mio progetto è stata concepita e nutrita e dove di concepimenti e nutrimenti ne sanno… a pacchi. Una storia, quest’ultima, che però non mi pare il caso di raccontare. Sul biglietto da visita di questo delizioso ristorante su tre piani c’è scritto “The traditional Italian thin crust pizzas baked on our fired pizza oven”. Sono ad Hanoi soltanto da tre giorni e l’Italia mi pare lontanissima. Perciò me la godo davvero con Paolo, Luca e Giulia e il via vai di vietnamiti alcuni dei quali sono vestiti come per andare in discoteca. Io e Iris facciamo a gara a chi è più piccola e capricciosa contendendoci decine di tappi di sughero. Scorre divinamente un vino bianco italiano che bevo per la prima volta e che infine quasi affoga pane, mozzarella, pomodori e altro di così semplice, buono e ben composto che mi pare d’aver raramente mangiato tanto bene in Italia.

Di ritorno, mi fermo a osservare una decina d’uomini che guardano la tv in una casa diroccata. “No, è in costruzione”, mi spiega Fabio, “qui gli operai lavorano tutto il giorno. Vengono spesso dalle campagne e non hanno dove andare. Per risparmiare, dormono nelle case che stanno costruendo. E si attrezzano come possono”.

Continuando a camminando, con un terribile mal di piedi, mi sorprendo a pensare d’essere sulla strada di casa.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 3, parte seconda

Si chiama Văn Miếu Quốc Tử Giám, “Tempio della Letteratura”, il posto che mi ricorda le ragioni della mia attrazione per le “cose orientali”. Entriamo e ho subito voglia di togliermi le scarpe. Mi guardo intorno, osservo cosa accade e ascolto Alessandra-la-grande-Tigre che con la sua tipica foga mi spiega dove siamo.

Quello che so è che mi sento molto bene, che respiro piuttosto profondamente, che il relativo silenzio dell’ambiente m’aiuta ad ascoltare meglio quello che sento. Attraversando i cortili, guardando i piccoli specchi d’acqua, cercando d’analizzare il “senso” delle geometrie degli ambienti, sento una fortissima emozione nel percepire il “peso” attribuito allo studio, alla conoscenza, al sapere.

Sotto uno dei porticati, decine di grandi stele di pietra sono adagiate su tartarughe giganti: così si ricordano i dottori di ricerca. E tutt’intorno una surreale quiete nonostante le decine e decine di turisti. E poi sassi, riproduzioni d’animali, un’architettura complessa e senza nemmeno un chiodo, teche con abiti di seta ricamata e carta e inchiostri, infine Confucio.

Cammini, passi attraverso portali il cui legno non devi toccare coi piedi, ascolti suonare troppi brevi minuti di antichissime melodie, poi non puoi che tentare di rendere omaggio a tanta bellezza. Chiedo ad Ale una foto sotto una delle grandi gru di legno vicine alla statua di Confucio. Da circa due anni piego quasi ogni giorno piccole gru di carta. Poi saliamo verso il tetto, per ammirare gli incastri del legno e le tegole decorate. Ovunque volano đồng. Anche noi ne abbiamo lasciati, non so dire il mio perché.

Spostandoci in macchina per raggiungere il Phủ Tây Hồ, il “Tempio della Dea Madre”, che Ale-la-grande-Tigre m’aveva spiegato da tempo essere “la più antica e autoctona delle forme di culto vietnamite”, passiamo davanti al Lăng Hồ Chí Minh, il mausoleo di Hồ Chí Minh. Poche battute tra me e Ale.

  • Voleva essere cremato.
  • Ah. E perché l’hanno imbalsamato allora?
  • Bella domanda.
  • Un personaggio così. Se dice “crematemi”, cavolo crematelo.
  • Ogni tanto scompare.
  • In che senso?
  • Penso vadano a… rifargli il trucco.

E tutt’intorno biciclette, grossi cesti con frutta e fiori su decine di biciclette. E motorini, qualunque tipo di trasporto su decine e decine di motorini.

Il Phủ Tây Hồ mi ricorda, all’inizio, certi giochi elettronici in cui velocemente devi preparare cibo orientale: riso e gamberetti da comporre in forme tutte uguali, come in tartine da mangiare in un boccone solo. Le bancarelle, lungo la strada che porta al Tempio, vendono questo genere di cibo, e molto altro. I doni alla Dea Madre sono frutta, dolci, ma anche lattine di birra o di coca. Ale sorride: forse è tutto… molto kitsch, ma non è la prima cosa che si percepisce. La prima è invece una straordinaria energia.

Insomma, dopo Confucio, eccomi al cospetto della Dea Madre. Riproduzioni d’animali anche questa volta su tutti gli altari. Tartarughe e gru, certo. Ma soprattutto noto i draghi attorcigliati. E tutt’intorno decorazioni di lacca dorata e rossa, divinità buddiste, incensi che si consumano piano, preghiere lievi. Voltandoci, il lago Hồ Tây d’un colore grigiastro.

Mi spiega la-grande-Tigre, placida, cosa possa significare affidarsi alla Dea Madre. Niente di “facile” all’orizzonte. Mentre cala il sole, acqua e cielo si confondono in una foschia che rende il nostro parlare uscendo dal Tempio ancora più… epico. Lentamente ci spostiamo lungo la riva del lago. Ci attendono Roberto-il-lungo-acquatico, Iris-la-piccola-Tigre e una cena molto attesa.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 2

17 ottobre

All’arrivo ad Hanoi il cielo è plumbeo e l’umido proprio come me l’avevano preannunciato. Sudo e mi confermo nell’idea di provare una e una sola invidia: quella per le persone che non sudano. Io sudo. È terribile. Sudo, sono le 8 del mattino ed è presto fatto il calcolo. Ho viaggiato per circa 24 ore tutto compreso (cioè comprese pure le sei ore di fuso in avanti). Eccomi in Vietnam. È il 17 ottobre, sudo e tutto va bene. Ho il mio visa-upon-arrival in tasca, compilo la richiesta coi miei dati, consegno la mia fototessera, pago 25 dollari, intasco la mia brava ricevuta e mi presento al gabbiotto per il controllo.

L’età delle donne vietnamite è impossibile da definire. Almeno, io non ci riesco. Consegno passaporto e visto a una ragazza che mi pare quindicenne, riprendo il passaporto con un sorriso e… azz!!!, infilo il corridoio sbagliato. La tipa urla! Oddio, che ho fatto? “Per di qua”, sembra dirmi con sguardo feroce. “I’m sorry”, sussurro. Poi corro a prendere il bagaglio. E aspetto. Sul nastro niente. Aspetto. Niente. Aspetto. Niente. Aspetto. Niente.

Altra quindicenne con un foglio: “DEVITIS”.

  • Miss Devitis?
  • Ehmmm… De Vitis, yes. What’s up?
  • Your baggage is lost in Moscow.
  • What’s???
  • Please, we have to compile a form.

Oh cazzo, ammetto d’aver pensato. Oh cazzo. Al banco dell’Ufficio Lost&found descrivo la valigia e spiego che, al momento, non so fornire né un numero di telefono né un indirizzo vietnamita ai quali rintracciarmi.

  • I’ll call you later. Ok?
  • Ok.

All’uscita dall’aeroporto m’aspetta mister-Tâm. Mi sorride e in un inglese placido e lento mi dice che aveva creduto d’aver sbagliato giorno. No, no, è che m’hanno perduto la valigia e ho dovuto compilare un foglio e poi… ufff, salve Tâm, lieta di conoscerti. Mister-Tâm ha fatto la guerra. Non mi dice granché su questo, ma l’essenziale sì, e immediatamente: Tâm ha fatto la guerra. In 45 minuti in auto tra l’aeroporto e Hanoi abbiamo il tempo di chiarire, appunto, l’essenziale. Io sono una giovane giornalista italiana coi genitori insegnanti, lui fa l’autista e con quei capelli nerissimi, lo sguardo deciso e mani grandi e ferme… ha fatto la guerra. La mia mente s’affolla di pellicole di film e documentari mentre dal finestrino osservo il paesaggio e il traffico. Mister-Tâm ha fatto la guerra e mi chiede della mia famiglia. Mi limito a rispondere alle domande piuttosto asetticamente, mentre nella mente le scene dei film e dei documentari sulla guerra in Vietnam si sovrappongono al paesaggio: l’acqua, la vegetazione, il cielo plumbeo, il traffico e, all’arrivo ad Hanoi, le contraddizioni d’ogni posto del mondo che si muove con questa velocità.

Giunta da Fabio, che m’ospita, ecco il mio angelo custode. Nhung è deliziosa e ha una soluzione per tutto: ho bisogno di rintracciare Alessandra-la-grande-Tigre che è arrivata in Vietnam da poco e ha cambiato numero (cinque telefonate, di cui tre in Ambasciata), ho bisogno di dire dove sono e dove far arrivare la mia valigia (tre telefonate in aeroporto), ho bisogno di un collegamento wifi per far sapere in Italia che sono viva (andiamo in un caffè), ho bisogno di uscire ma sono stanchissima (prendiamo lo scooter), non ho calzini e le altre scarpe sono nella valigia rimasta a Mosca (la soluzione per questa non ve la spiego). Casa di Fabio (e Fabio non c’è) è luminosa ed essenziale. Ci sentiamo, mi dà il benvenuto e m’invita a mangiare quello che mi pare. Ne approfitto e attingo dal frigo qualche nem cuốn. Sono piccoli rotoli di verdure e gamberi crudi che vanno intinti in salsa di soia chiara e piena d’aglio e peperoncino. Ci aggiungo un’insalata di cetrioli pomodoro e formaggio dolce e un dolce con ananas caramellato. Il cuoco, Tuấn, è bravissimo a mescolare sapori vietnamiti e italiani. Sono… cotta. Dopo un paio d’ore di sonno profondissimo, eccomi a scrivere sulle scale, in giardino. Mi pare un momento perfetto: posso restare a scrivere qui, nascosta nel fogliame, per un po’? Uhmmm, non ora. Bisogna muoversi.

In mattinata Nhung m’aveva fatto capire i fondamentali: sei sposata? vivi sola? da quanto tempo vivi sola? com’è casa tua? Poco più di 50 metri per una persona sola sono buoni, m’aveva fatto notare: qui in città tre persone vivono in 25 metri. E infatti la vita si svolge soprattutto per strada.

Nei miei giri pomeridiani con Alessandra-la-grande-Tigre che finalmente riesco a riabbracciare (“Non preoccuparti Lore, qui in Vietnam le cose si complicano con grande semplicità e con altrettanta semplicità si risolvono. Andrà tutto bene, vedrai!”), finalmente torno a esercitare con una certa lucidità l’osservazione del mondo. Ale m’aiuta a decodificare quello che vedo con un fiume di racconti suggestivi, sempre al confine tra realtà e leggenda. Per strada si legge, si studia, si tagliano i capelli, si mangia in “caffè” allestiti con piccoli sgabelli in plastica. M’immagino la bellezza di questi posti quando era il legno il principale materiale utilizzato. Il traffico è regolato dai clacson e dalla capacità di districarsi senza cadere (e non ho visto alcun incidente), l’architettura affianca vecchie case costruite in verticale e tempietti da cartolina a palazzi severamente sovietici e grattacieli di cemento e vetro.

Alessandra-la-grande-Tigre m’aiuta anche a ordinare l’abito che ho deciso d’indossare per la cerimonia conclusiva di mình thật tuyệt. Mi porta da Thao silk co., nella città vecchia, dove tre vietnamite con sguardo fiero e piglio deciso ci accerchiano: decido il tipo di seta e, nel farmi prendere le misure, opto per un modello tagliato “comodo”, un po’ più largo di come s’usa qui comunemente, del tradizionale ao dai.

  • I pantaloni? Chiedono se li vuoi neri o bianchi.
  • Ma no, la seta è blu, è un abbinamento orribile. (traduzione in corso)
  • Loro non ci badano. Aspetta. (traduzione in corso)
  • Chiedono se li vuoi di seta blu, ma ti costerà di più. (Ale sorride)
  • Di più quanto?
  • L’equivalente di due o tre euro. (Ale sorride e sorrido anch’io con un po’ d’imbarazzo)

Ordinato. La seta scelta è blu e lilla cangiante con disegni tipici, l’abito mi costerà 1.680.000 đồng (60 euro circa). Continuo a esercitarmi con la moneta locale acquistando poi una scheda telefonica (80mila đồng in un negozietto gestito da un ometto senza un braccio che ha capito subito che sono “straniera”), e mi gusto un frullato di mango dalla terrazza di un locale così nascosto e “oscuro” che mi pare d’essere in un altro film. Sono rapita dalla vista del lago Hoàn Kiếm, circondato dalle luci del caos contemporaneo e immerso nell’eterno antichissimo immobile presente della tartaruga d’oro che sono certa nuota nelle sue acque.

Stordita seguo Ale che racconta, stordita sorrido a bambine e bambine che mi paiono così socievoli, stordita stringo la mano a Fabio, stordita saluto la-grande-Tigre, stordita ceno con Fabio cui faccio domande sull’organizzazione della vita e della diplomazia, stordita e con molto impegno uso le bacchette per mangiare bún chả. È buonissima questa carne di maiale alla piastra bagnata in brodo di pesce e accompagnata da verdure e spaghetti di riso. Sono le 9, sono sazia di cibo, di parole, di immagini. Sono a pezzi. Fabio mi perdonerà, ma ho proprio bisogno d’andare a dormire. A domani. Buonanotte Hanoi.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 1

16 ottobre 2012, in viaggio

Sul mio volo Alitalia per Roma, partito con 20 minuti di ritardo per un “controllo tecnico” (ah sì? quale?), viaggiano un sacco di maschi adulti vestiti di scuro e coi capelli imbiancati. Le poche donne che vedo sono per la maggior parte con uno dei maschi adulti suddetti e indossano orecchini d’oro e perle e anelli impegnativi. Di donne della mia generazione “non accompagnate” ce n’è invece solo una: io.

A Roma, passata dal terminal 1 al terminal 3 in direzione Mosca, il panorama è decisamente più vario ma la sostanza non cambia. Molte donne di molti paesi, molte velate. Indossano grandi tuniche in tonalità dal bianco ghiaccio all’avorio con ricami e a volte perline, e sono sempre accompagnate da maschi adulti alcuni dei quali hanno copricapo di cotone. Sotto le tuniche, le suddette donne velate indossano soprattutto scarpe da ginnastica (sempre chiare, ma che varietà!), e pantofole d’ogni foggia. Al check-in la domanda fatidica.

  • Ha il visto per entrare in Vietnam?
  • Ce l’ho!
  • Posso vederlo?
  • Certo!
  • Ah, non ha l’originale col timbro rosso?
  • Beh, me l’hanno spedito via e-mail!
  • Ah, certo, allora va bene ma mi raccomando non lo perda altrimenti non la fanno entrare e dovrà tornare indietro.
  • Lo so.
  • Ecco, bene.
  • Ehmmmm… ok, allora me lo ridà per favore?
  • Cosa?
  • Mi ridà il visto per favore?
  • Cosa?
  • Il mio visto!
  • Ah certo, scusi. Ce l’ho qui. Certo, giustamente. Scusi.

Pochi metri più in là, mentre pago al volo “Norwegian Wood” prima di correre verso il gate stabilito, trovo la commessa con un’aria molto annoiata. Probabilmente io sono troppo seria, troppo formale, troppo cortese, e soprattutto mi macchio di un grave delitto: non voglio la busta.

Bevuto caffè e mangiate due merendine, comprata dell’acqua e osservato una varietà umana molto rassicurante, eccomi al suddetto gate. Accanto a me una coppia molto carina credo russa. Lei ha unghie impressionanti: curve e appuntite, lunghe un centimetro buono oltre i polpastrelli, sono percorse da un disegno geometrico rosa e rosso con piccole decorazioni dorate. Immagino che siano un’ottima scusa per non fare cose noiose (Non posso, non vedi che unghie?). Questa me la segno. Lui ha occhi chiarissimi e una cicatrice che dal lato sinistro della bocca segna la guancia per circa tre centimetri.

Ok, ho appena visto un piccione. Dev’essere lo stesso che ha visto Alessandra-la-grande-Tigre l’altro giorno e che ha pubblicato su faccialibro. A questo proposito, non vedo l’ora di rivedere lei, Iris-la-piccola-Tigre e anche Roberto-il-lungo-acquatico.

Il volo per Mosca parte con 40 minuti di ritardo o più, e da un nuovo gate. Questa serie di contrattempi ha comportato un’interessante coincidenza che però non ho nessuna voglia di raccontarvi. Andiamo oltre.

A bordo, un terribile sonno mi fa crollare con la testa sul finestrino e un rivolo di saliva di cui mi accorgo appena in tempo. Pranzo saltato. Amen. A parte la sfortuna dell’ultimo posto a metà cabina, cosa che mi impedisce di abbassare il sedile, sono comoda. Accanto a me nessuno e il signore passata la quarantina brizzolato con fede d’oro giallo lato corridoio è molto, molto educato. Legge Ken Follet dopo aver dato una rapida occhiata a la Repubblica. The niente male e due altre merendine. Sul sedile davanti si guarda su iPad “Wanted”. Quant’è bello Morgan Freeman? Parecchio. Però devo ammettere che anche James McAvoy ha un suo perché. Lo ammetto. Ammetto anche che qualche anno fa questo era praticamente l’unico genere d’uomini che mi piaceva sul serio: ero nella fase piccoli, belli e tormentati. Per fortuna ho smesso. È una fase dalla quale ogni donna occidentale dovrebbe uscire, secondo me.

Mosca. Banco transiti, altri controlli, breve attesa, ultimo imbarco. Sul volo per Hanoi Aeroflot tiene tantissimo a farci sapere ogni possibile dettaglio tecnico: come prendiamo quota, dove siamo, cosa succede esattissimamente ogni dieci minuti. Che ansia. Perché devo sapere tutte queste cose? Preferisco osservare russi e vietnamiti che attorno a me decidono di mostrarmi i calzini assieme a una serie di odori corporei che preferisco non identificare.

Tra frustranti tentativi di riposare, mangio cibo che credo venga considerato “internazionale” e mi dedico con molto impegno alla visione di film in inglese. Il massimo volume nelle cuffie monouso è così basso, in proporzione a quello di chissà che diamine dell’aereo, che l’osservazione di russi e vietnamiti è inevitabile. Sulla sinistra, dall’altro lato del corridoio, un ragazzone in calzini blu e vecchia borsa in cuoio beve continuamente coca corretta con whisky, o meglio whisky corretto con coca (le assistenti di volo ne sono divertite), a destra un paio di vietnamiti – dopo ripetuti tentativi di incastro – si separano (il primo passa alla fila davanti, il secondo mi sorride poggiando i piedi sul sedile accanto al mio).

Otto ore sono lunghe, per quanti film tu possa vedere quanti caffè bere quanti tentativi di lettura fare quanti sorrisi scambiare quanto cibo ingurgitare quanto sonno riuscire o non riuscire ad avere.

  • Fish or meat?
  • Fish, thanks.
  • You’re welcome.

Otto ore così, ed eccomi. Eccomi finalmente ad Hanoi.

messinscena d’affanni / quadro 5 di 5, su “il minore dio creatore”

La parola “fine” m’è sempre piaciuta. Provo un senso di compiutezza soltanto a sentirla. Fine. Finito. Concluso. Le mie messinscena d’affanni si sono chiuse il 22 settembre 2012 (scheda). Grazie per l’ultima volta a Ubaldo che ha colto molto bene il senso di “svuotamento” che ho desiderato dare alla serata.


“Messinscena d’affanni” è finita. L’ultima foglia è caduta il 22 settembre, in una piacevole e calda serata di inizio autunno. Il racconto messo in scena è stato il minore dio creatore. A dire il vero, più che messo in scena, si potrebbe dire messo in video. Sì, lo so non si dice e, forse, non vuol dir nulla. Ma è proprio così. Perché grazie all’eleganza, l’espressività e potenza vocale di Lea Barletti, il racconto di Loredana De Vitis ha trovato una nuova vita e una nuova dimensione. A fare tutto il resto ci ha pensato il contesto che non si finirà mai di elogiare: km97.

E non dipende dall’assenza o presenza di occhiali che offuscano. “Mi tolgo gli occhiali e mi godo il panorama”, scrive Loredana nel migliore dei suoi racconti. No, in questa serata è tutto vero, tutto creazione del personalissimo e intimo “minore dio creatore che plasma per me quello che voglio” in molto meno dei canonici 7 giorni della creazione.

A fine serata c’è l’abbraccio virtuale di Loredana a tutti i presenti. In attesa di qualche nuova fulminante iniziativa che siamo sicuri arriverà presto. È un arrivederci, non è un addio, ma si potrebbe chiudere, tuttavia, con le parole di Paolo Conte: “È tutto un grande addio, un giorno Gondrand passerà, col camion giallo porterà, via tutto quanto e poi più niente resterà”.

testo a cura di Ubaldo Villani-Lubelli, immagini di Annalinda Piroscia

messinscena d’affanni / quadro 4 di 5, su “chatt’ami ti prego chatt’ami”

Per la quarta (e penultima) volta il caro Ubaldo si diverte a scrivere delle mie “messiscena”. In deliziosa forma di chat, ecco un dialogo con l’amico Dario Goffredo, assente giustificato il 21 luglio 2012 (scheda), quando al km97 abbiamo drammatizzato il mio racconto “chatt’ami ti prego chatt’ami”.


12.26
Ciao Dario!
12.29
Ciao, Ubaldo!
12.31
Come va?
12.33
Insomma, il matrimonio è stato faticoso.
12.35
In effetti i matrimoni sono sempre faticosi… e tutti uguali. Mai nessuno che esca fuori dagli schemi. In ogni caso te lo sei meritato. Ti ho dovuto sostituire! 🙂
12.36

12.37
Si, lo sai, lo sai! Ma è andata bene. Sono cose che mi divertono.
12.39
Racconta, dai!
12.40
Non te lo meriti, ma è stata una bella serata, a parte il fatto che mancavi tu.
12.41
Insisti… non potevo!
12.42
Ci mancherebbe pure che potevi e non fossi venuto. Comunque: bellissima serata estiva. Cielo stellato, bella musica.
12.44
Cristina Cagnazzo?
12.45
Sì, ieri era tutta in rosso. Questa volta ho notato anche il fiore rosso sui capelli.
12.47
🙂
12.47
Molto bravo anche Giovanni. Un attore naturale.
12.48
Non lo conosco.
12.49
Dovresti … conoscerlo, intendo.
12.50
E Andrea?
12.50
C’era anche lui. Sfinito come al solito. Ma era tutto organizzato alla perfezione. Come sempre. Quel Casello è proprio bello! … Poi c’erano i quadri di Monica Lisi, i disegni di Jack Bollino eccetera.
12.53
Un po’ ripetitivo?!
12.54
No, ma che dici… e poi: non sei mai venuto… sorvolo e non infierisco! C’erano anche dei vecchi computer a fare da sfondo e delle tastiere, servivano alla messa in scena del racconto. E, poi, ancora: candele e delle sedie…
12.57
… quali sedie?
12.58
… quelle da chiesa… non so come si chiamino.
13.00
Ah…
13.01
Ho capito… che non hai capito. È la “morale dei miei” di cui parla Loredana nel racconto … ma l’hai letto il racconto?!
13.02

13.02

13.03
E Loredana? Era il suo compleanno…
13.04
No, non proprio, era ieri. Comunque era felice, almeno così sembrava. Rimandata come attrice, promossa come scrittrice.
13.06
Ahahah
13.07
Ha anche presentato il suo nuovo libro: “tanto già lo sapevo”.
13.08
Che bella sorpresa, sarà contenta?
13.09
… penso di sì.
13.10
Ok, ora ti lascio e vado a mare.
13.12
Ok, io penso a ciò che devo scrivere per raccontare e descrivere la serata.
13.14
Sono proprio curioso.
13.15
Fai bene ad esserlo…
13.16
A cosa stai pensando?
13.17
Be patient!

testo a cura di Ubaldo Villani-Lubelli, immagini di Annalinda Piroscia

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