Con una casa più grande e soprattutto più soldi avrei di certo comprato più quadri, ma probabilmente sarebbero stati meno importanti. Meno importanti per me. Non si dovrebbe collezionare quadri, solo cercare ciò in cui ci si può rispecchiare. A me è successo anche con “L’ingegno”, un olio su tavola infinitamente attraente: il colore ha delle crepe, il protagonista sembra venuto da un altro pianeta ma indossa una giacca che sceglierei se la vedessi in un negozio della Terra, nell’occhio aperto sembrano muoversi microscopici esseri, il paesaggio sullo sfondo è familiare e immaginifico, ferma un momento in un tempo sospeso tra passato presente e futuro. Ma è quella testa spaccata la cosa più significativa: sono certa d’aver voluto questo quadro perché ho capito che ciò che stavo vivendo in quel momento m’aveva… aperto la testa.
L’autore si chiama Fulvio Tornese, è un architetto, un pittore, un illustratore, un allestitore, un artista capace di fare grandi cose con piccoli mezzi e piccole cose con grandi mezzi. Lo vedo quasi ogni giorno per lavoro, abbiamo parlato praticamente di tutto, abbiamo molti punti di vista in comune e altrettanti diametralmente opposti. Ho scritto di lui, una volta, per presentare i suoi “libri d’artista”, volevo scriverne ancora ma come altro avrei potuto se non come potrei fare in un giorno qualunque, incontrandolo per lavoro?
- Ciao, Fulvio.
- Ciao Loredana.
- Giura di dire la verità tutta la verità nient’altro che la verità.
- Tuttatutta? […] Vabbè, lo giuro.
- Scrivi “lo giuro”.
- Di nuovo? […] Lo giuro. “È già il test?” (cit. Blade Runner, l’interrogatorio a Leon).
- Sì, è già il test.
Fulvio Tornese ha quasi sessant’anni ma gliene dareste molti molti meno, indossa cravatte nere sui jeans e scarpe comode che gli rendono più agevole camminare, per le riunioni di lavoro s’infila spesso una giacca scura, si distrae se gli viene in mente qualcosa che vorrebbe dipingere. E allora apre un quadernino, prende una matita o un pennarello a punta fine, da un paio d’anni a questa parte capita che accenda l’iPad. Poi torna all’architettura.
- Hai studiato architettura.
- Sì.
- Com’era a Firenze?
- Perfetto.
- Hai iniziato a dipingere prima ancora.
- Ho studiato al Liceo Artistico e dipingo da quando avevo 15 anni.
- Perché? Come è accaduto?
- In realtà devo aver cominciato prima, credo di avere ancora a casa dei miei qualcosina fatta intorno ai 13 anni. Credo dipendesse dalla voglia di raccontare storie, storie epiche, fantastiche. Credo.
Ne ha raccontate parecchie dipingendo, ha costruito personaggi d’ogni foggia, negli anni sono cambiati e da qualche tempo gli vedo dipingere anche alcune donne. Molti uomini popolano i suoi paesaggi, parecchi in passato sono stati giganti, poi sono arrivati poeti equilibristi danzatori sognatori. I miei preferiti sono i guerrieri.
- Com’è stato tornare a Lecce?
- Avventuroso, avevamo un vecchio camion da cantiere, che un mio amico mi aveva prestato, lo abbiamo riempito all’inverosimile, coperto con un telone, quando siamo arrivati eravamo contenti di avercela fatta.
- Com’è vivere a Lecce?
- Si vive bene.
- Com’è lavorare a Lecce?
- Si lavora bene: piccola città, distanze umane. Riesci a fare un sacco di cose, in una giornata di lavoro.
- Com’è dipingere a Lecce?
- Perfetto.
- Cos’è la perfezione?
- Una cosa ben fatta.
Fulvio ne ha fatte diverse, alcune delle quali in giro per l’Europa, l’Asia e il Medio Oriente. Non è diplomatico, non è politicamente corretto, ma nemmeno dice le cose come farei io tirandoti un pugno in faccia.
- Il bello di viaggiare (per l’arte).
- Ti riferisci alle mostre in giro per il mondo? È bello e interessante certo, ma non mi fa impazzire.
- E cosa ti fa impazzire, invece?
- Nel senso che mi piace da morire? Nella mia personale classifica una le batte tutte: un piatto di spaghetti a ottobre in un localino sul mare, con qualcuno che amo.
- Il bello di restare (per quello che ti pare).
- È che puoi avere tempo per finire quello che stai facendo.
- E che cosa stai facendo adesso?
- Dipingo carte.
Fulvio Tornese dipinge continuamente. Tutto è pittura: quello che legge che ascolta che dice che progetta che descrive persino che mangia che cucina assume inesorabilmente l’aspetto d’un dipinto. Basta osservare e quelle origini le puoi rintracciare.
- Il rapporto tra architettura e arte nella tua vita.
- Se ti riferisci al fare, ti potrei rispondere che sono entrambe cose che faccio e con le quali ho la dimestichezza del mestierante.
- Ok, potresti rispondermi così. E in che altro modo potresti?
- Potrei parlarti di due fasi, due momenti della mia vita… hai una quarantina d’anni a disposizione?
- Non ne sono sicura, quindi passiamo ad altro. Descrivi che rapporto pensi ci sia tra architettura e arte, in generale.
- Nel fare architettura hai delle regole, quasi dei protocolli, che scandiscono tutto il processo creativo. Dall’idea iniziale fino alla realizzazione finale, ogni passaggio è codificato e la corretta esecuzione di ognuno di questi è garanzia di giusta riuscita del passo successivo. Per l’arte è diverso, almeno per la pittura. Puoi intervenire e correggere e adattare fino a che non ti liberi del quadro. Talvolta ci sono opere con date di esecuzione di due, tre anni. Però questo non significa che fare architettura sia limitante per la creatività. Anzi, essendo una forma complessa del fare, pone sfide talvolta più affascinanti, specie di trappole davanti alle quali un bravo architetto non si tira mai indietro. I risultati magari sono altra cosa.
- Ti liberi di un quadro come di un demone? O di chi o cos’altro? Un parassita? Un ospite sgradito?
- Una cosa è realizzare un lavoro, altra è il suo possesso materiale, può tranquillamente goderne qualcun altro.
Anche se è un po’ diverso per la scrittura, capisco il sentimento.
- Progetti per dipingere?
- Il mio fare pittura si è modificato nel corso del tempo e a causa del tempo a disposizione. Dalla fase di trance/smarrimento davanti alla tela (ero quasi un bambino) sono approdato al lavoro per fasi. Visualizzo, prendo appunti, schizzo su block notes o su Ipad, metto da parte, recupero, collaziono il tutto in testa e poi comincio il lavoro finale. Che poi come ho detto prima non finisce mai.
- Dipingi per progettare?
- Avendo cominciato con soggetti urbani, talvolta all’inizio mi è venuta la tentazione di fare architettura partendo dalle sghembe costruzioni che dipingevo. Fare piante prospetti e sezioni di cose che apparentemente non potevano stare in piedi, il tutto senza il supporto del computer… certi mal di testa. Ma erano virtuosismi, ho pensato. Poi qualche hanno fa a Pechino ho visto la sede della China Central Television di Rem Koolas, e mi sono divertito a immaginare come sarebbe una città fatta di linee verticali che se ne fregano della gravità e di linee orizzontali che si dissociano dalle regole prospettiche.
- E l’hai dipinta.
- Ci provo qualche volta.
Fulvio Tornese ci è anche riuscito, qualche volta. Puoi metterti davanti a certi quadri e lasciare che il disequilibrio ti faccia provare una qualche vertigine. Devi starci davanti, piuttosto vicino.
- Cosa significa “allestimento”?
- Sicuramente il momento in cui la progettazione diventa veramente “mettersi al servizio”. È una forma di progetto che però deve essere preceduta dalle scelte del curatore, alle quali tu dai sostanza fisica e spaziale.
Il più bell’allestimento che gli ho visto realizzare e che ho potuto vedere da vicino è stato per Randy Klein: ha dato il senso del movimento a decine di piccole sculture che quel senso ce l’avevano dentro.
- Tre modi per scegliere il formato e tre per il supporto.
- Formato e supporto sono scelte interconnesse strettamente: se voglio fare una cosa piccola scelgo quasi sempre il legno, se devo fare una cosa grande o grandissima scelgo la tela, se mi voglio rovinare la vita scelgo il legno e cerco di dargli una trama, se voglio perdere il sonno scelgo la tela e ne irrigidisco la superficie.
- Tre modi per scegliere un titolo.
- Ne esiste uno solo e lo scopri la mattina tra le 5.45 e le 6.15, prima stai ancora dormendo e dopo sei ormai già con un miliardo di cose sceme e inutili in testa.
I titoli dei quadri di Fulvio Tornese sono quasi storie a sé: Il signor Giovanni, Facilitazioni per campeggiatori, Legittima soddisfazione, L’opinione degli altri, Il lanciatore di nuvole, Vorrei che tu, Un amore inadatto. M’è venuta spesso la tentazione di scriverle, ma non è una cosa che farei con leggerezza.
- Quanto conta la tecnica?
- Come l’aria: te ne accorgi quando manca, eccome se te ne accorgi.
- Esiste l’ispirazione?
- Credo di sì.
- Il senso delle [s]proporzioni.
- Devi essere equilibrato per gestire la sproporzione e so che certe volte è meglio che non mi ci metto.
- Il senso della serialità.
- Per me è una scelta creativa, mi permette di lavorare sulle modifiche di uno stesso tema per essere più chiaro ed esplicito.
Delle ultime serie la mia preferita si chiama “catalogo di acconciature per giovani alberi”.
- Tra “dentro” e “fuori”.
- Scelgo il dentro.
- Tra “pubblico” e “privato”.
- Non esiste questa distinzione, esiste il diritto al privato per chiunque.
Sua moglie Carla Pinto è una direttrice artistica e una curatrice molto attiva e brillante, suo figlio Pietro è così importante per lui che ogni volta che lo nomina, fosse anche la centesima, lo chiama Pietro-mio-figlio.
- Chi è Carla?
- Mia moglie.
- Ho letto che “continui a dipingere” “sostenuto” dalla sua “complicità”.
- Infatti. Non credo ci sia una parola più adatta, che forse dovrebbe essere accompagnata alla parola “risata”.
- Chi è Pietro?
- Mio figlio.
- Ho letto che è il tuo paziente selezionatore di musica.
- Conosce i miei gusti e mi guida all’ascolto delle novità. Non solo di dischi, ma quando è possibile anche ai concerti. Chiarisco sempre che di pogare non se ne parla neanche.
Si prende molto sul serio e pochissimo sul serio, non alterna questi atteggiamenti ce li ha in contemporanea. Porta con una certa eleganza le sue contraddizioni di vivente pensante. Si capisce osservando il suo “misuratore del mondo”.
- Il misuratore del mondo funziona?
- Solo se è spinto da una forte convinzione interiore.
- Quanto c’entra la politica?
- Per me c’entra sempre, mi piace pensare che la facciamo tutti anche quando siamo convinti di subirla.