Milano è un’incognita. Qualche volta me ne sento attratta, altre sento un’insolita, violenta insofferenza.
Di Milano amo alcune cose. All’elenco ho aggiunto questa: il Museo del Novecento. Qualche settimana fa ci ho passato quattro ore (troppo poche, ci tornerò), camminando come in una trance tra quadri e sculture.
Umberto Boccioni, che amo da sempre, m’ha sconvolto ancora una volta. Forme uniche nella continuità dello spazio l’avevo vista solo a Londra, due volte. Alla Tate. Una scultura divina, potente. Desiderio di contatto. Ti dici: “Toccala. adesso”. E ti guardi intorno con aria preoccupata delle possibili conseguenze. Ma quelle forme, quelle forme tanto perfette quanto sfuggenti non si possono non toccare. Questa volta, però, non l’ho fatto. Mi tremavano le mani, ho tirato fuori dalla borsa l’agenda, ci ho poggiato la macchina fotografica, ho tolto il flash. Ho scattato. Mi sono poi seduta. Quindici minuti d’attesa, prima che finisse il desiderio di restare.
Molti altri autori sono adesso persi nella mia mente, a parte Carla Accardi. Non l’avevo mai incontrata di persona, accidenti. I “brulicanti segni bianchi” su Grande integrazione (definizione da catalogo 🙂 ) sono alle mie spalle nella foto che Sabrina mi ha scattato: per fortuna ho capito subito che era necessario dargli le spalle. A guardarlo, potreste esserne divorati. Chiudete gli occhi, almeno.
C’è molto, molto altro. Di bello, bellissimo. Ma non voglio raccontarlo. Solo un’ultima suggestione: dentro una teca, Emilio Isgrò. Con un libro le cui parole non sono sopravvissute, perché cancellate con perfetti segni neri accostati a mano a uno a uno per chissà quante ore. Un pugno, un monito. E, per me, anche un invito alla sottrazione.