Categoria: personae

un incontro “personale” con Lea Barletti

avvertenza: in questo testo ho inserito numerosi riferimenti a cose/luoghi/persone che do per scontati, confido nella semplicità con cui si cerca su google

Seguo Lea Barletti come autrice. Autrice di testi, testi teatrali, testi narrativi, autrice di testi anche quando li recita. Non so distinguere le sue messe in scena dalla sua scrittura. Nei giorni scorsi ho visto a Lecce “Autodiffamazione”, “Parla, Clitemnestra!”, “Monologo della Buona Madre” e “Ashes to Ashes”, quattro spettacoli in tre giorni firmati dalla compagnia sua e di Werner Waas: attualmente vivono a Berlino e sono tornati brevemente qui, dove anni fa hanno tra l’altro contribuito a fondare le Manifatture Knos, per una “personale” al Teatro Koreja. La parola “personale” non l’ho scelta io, ma è mia l’associazione immediata con una mostra d’arte. E questa tre giorni per me lo è stata. Ecco perché.

Barletti/Waas lavora sulla parola-in-relazione, e su questo concetto costruisce l’universo del suo teatro: recitato, scene, costumi, musica. “Un discorso sul mondo” lo chiamano: «Non ci interessa parlare di noi, ci interessa parlare attraverso di noi, attraverso i nostri corpi, le nostre lingue, del mondo», scrivono per presentarsi, «Ci interessano testi attraverso i quali rendere possibile questo discorso, ci interessa farci portatori e testimoni di quei testi, essere strumento del testo e al contempo usare il testo come strumento».

ph. Luciano Onza

Autodiffamazione

Autodiffamazione parte da un testo di Peter Handke [peraltro co-autore della sceneggiatura de “Il cielo sopra Berlino”, credo uno dei miei film preferiti, ma non è rilevante – mi rendo conto]: lo ha scritto a 24 anni, 57 anni fa, Barletti e Waas l’hanno in parte ri-tradotto in italiano, considerando inefficace la traduzione più nota, e lo portano in scena da dieci anni. Circa ottanta le repliche. Entrano in scena nudi eccetto che per due dettagli: lei porta scarpe con tacchi alti, lui un cappello. Poi si vestono e continuano ad auto-diffamarsi parlando in due lingue, ciascuno nella sua lingua madre – italiano e tedesco, ciascuna delle due lingue viene alternativamente sovratitolata. Si auto-accusano di cose piccole, minuscole, di cose che diventano colpe anche se non lo sono, di cose che abbiamo fatto tutti/e o che, se non abbiamo fatto, ci riguardano lo stesso. Impressionante, per me, la scelta di tradurre un passaggio con l’espressione “ho violato il lockdown”. Ecco, in quel momento l’abbattimento del “confine” tra generi, tra attori e spettatori, tra passato e presente per me è stato totale. Passano i minuti e ti scordi che sei lì per osservare e ascoltare, sul palco ci sei salita, parli in italiano, parli in tedesco, sei donna, sei uomo, sei un/a vivente qualsiasi e in questa generalizzazione c’è tutta la bellezza e tutto il dramma della condizione umana. Alfa e omega dello spettacolo [e della vita, no?] sono in questa affermazione: “Io sono venuto al mondo”. In un breve dialogo col pubblico dopo lo spettacolo, Waas ha osservato: «L’io è sopravvalutato, e senza le regole resterebbe ben poco», rivelando un grande lavoro umano e artistico a partire da Handke. E poi Barletti: «(L’autodiffamazione) è un metodo, un congegno per pensare».

ph. Luciano Onza

Parla, Clitemnestra! Un’eterna tragedia in versi

Un congegno a mio parere chiaro anche in Parla, Clitemnestra! Un’eterna tragedia in versi, scritto da Lea Barletti, portato in scena assieme a Gabriele Benedetti, regia Barletti/Waas. Barletti-Clitemnestra accanto a Benedetti-Agamennone sul palco, pelle dipinta di bianco e coperta di panni bianchi, è un’icona: la sua scrittura si fonde con gesti e voce per ri-narrare il personaggio classico della moglie fedifraga e assassina e poi della madre assassinata. Una nuova storia si costruisce letteralmente illuminata dal pubblico, e quindi narrata anche in questa “relazione”: in 90 circondiamo la scena, quattro di noi illuminano i personaggi con piccole torce e sottolineano dettagli, creano ombre, ci condizionano, ci irritano a volte. Da principio Barletti-Clitemnestra parla lentamente, si “poggia” su ogni parola, la sottolinea muovendosi piano, rivendica una storia di dolore giocando coi registri. Il testo è in rima, “una gabbia che libera” la definisce l’autrice, alleggerisce il peso di una storia conosciuta eppure mai narrata. Poi la lingua e i gesti man mano di sciolgono, dal passato si giunge al presente, a quello di molte donne violate, a quello di tutte le donne che aderiscono coscienti o incoscienti a schemi dell’essere e dell’agire. Beh, da questa dinamica Agamennone – le cui colpe sono chiare, evidenti, ribadite – non esce come unico colpevole. Perché gli schemi reggono finché l’uno si regge sull’altro, finché si sostengono a vicenda, finché si gioca quel gioco che si conosce fin troppo bene e in cui è facile sentirsi, paradossalmente, al sicuro.

ph. Luciano Onza

Monologo della Buona Madre

In Monologo della Buona Madre il gioco dentro-fuori dagli schemi arriva al suo picco. Scritto e interpretato da Lea Barletti, regia Barletti/Waas, è punteggiato dalle musiche originali – perfette – di Luca Canciello. Chi parla in questo monologo? La donna, l’autrice, l’attrice? Che domande sono? Cosa significano? Nulla, zero. Quello che importa per me è l’energia che ti resta.

Cosa so fare io? So fare dolci, si chiede e si risponde Barletti-BuonaMadre, abito nero, tacchi, mani sulle ginocchia, seduta ad almeno tre metri da terra come una statua: sul piedistallo la scritta “Buona Madre, tecniche e materiali misti”. Waas passa tra gli spettatori offrendo biscotti e a me vengono in mente tanti dei dolci e biscotti postati da Barletti su Facebook. Mi viene in mente soprattutto il post per uno dei compleanni di uno dei loro figli [Hanno fatto due figli, insieme, scrivono sul loro sito]: una torta a forma di morte nera. Miodio, difficilissimo, avevo pensato.

[Continuo adesso col ricordo dello spettacolo, a braccio].

Cosa ho insegnato ai miei figli? A cucinare il sugo? Quello lo potevano imparare a fare anche da soli, come ho fatto io. Mi sono venute in mente le prime settimane, densissime, della mia esperienza di madre. Leggevo, leggevo molto [non mi ricordo però né quando né come], soprattutto cose che mi hanno aiutata a capire che tipo di madre non “volevo” essere, ma “sentivo” di essere. Non perfetta, questo no, nemmeno mi importava. Ma “abbastanza buona”, questo sì. Abbastanza. Coi miei limiti. Che mi danno grande bellezza, che mi rendono unica. Barletti-BuonaMadre scrive ed è questo il suo lascito perfetto. La gabbia della perfezione è la stessa del bisogno di sentirsi amata, ma per amarsi bisogna essere liberi, o almeno aspirare a esserlo, nei continui aggiustamenti del quotidiano. Liberi di dirsi le cose, dirle a sé e dirle agli altri. In certi passaggi dolorosi del monologo un pensiero leggero mi ha attraversata: lascia perdere, questa è una sciocchezza, una fesseria, lascia perdere, non è importante. A chi lo dicevo? Lo dicevo a me stessa, senza alcun dubbio.

«Il teatro è l’unica cosa che so fare», ha detto Barletti dopo lo spettacolo. Io avrei detto scrivere, ma non cambia niente. È abbastanza. È più che abbastanza.

ph. Paolo Costantini

Ashes to Ashes

La personale si è chiusa con la prima nazionale di Ashes to Ashes, cenere alla cenere, scritto da Lea Barletti, in scena Werner Waas, regia Barletti/Waas e, anche in questo caso, le ottime musiche originali di Luca Canciello. Il teatro è denso di fumo, prodotto all’inizio anche dal cappello del personaggio-pagliaccio-uomo-automa che percorre il palco a due e quattro zampe, che impugna un microfono e una banana, che siede tra il pubblico, che esce ed entra ricordandoci che la terra è in fiamme. Che tutto diventa cenere mentre discutiamo della pasta che scuoce, che brucia tutto fuori e anche dentro di noi. Brucia la nostra capacità di pensare, di agire, di decidere, di preoccuparci davvero di ciò che ci circonda, di distinguere il vero dal falso, il reale dall’immaginato. Torna pure l’ironia che però, questa volta, invece che alleggerire ci fa sprofondare nella disperazione. Li ho odiati, a un certo punto, per avermi costretta a ripensare all’impotenza che sento e che, a volte, non mi ha fatto dormire. Io voglio dormire, non voglio tornare a ricordare quanto ogni piccolo gesto può essere influente su ciò che accade al pianeta che mi fa vivere e al quale sono debitrice.

Parole politiche, insomma, programmaticamente proposte per richiamare al pensiero. Pensate, persone!, pensate. Come tutto il teatro, direte. Forse. Non ne sono sicura. Mi piace il fatto che Barletti/Waas non dia risposte, che faccia solo domande.

[pausa]

Ho chiesto a Lea Barletti di leggere questo testo e di rispondere a tre domande. Eccole.

io e Lea Barletti nel 2012 [link in fondo per altre info]

Tre domande a Lea Barletti

Ho provato a immaginarmi come e dove scrivi, è una questione che quasi mi ossessiona da quando mi sono resa conto che, anche avendo “una stanza tutta per sé”, questa non è sufficiente: perché devi avere anche il tempo e la calma di abitarla, quella stanza. Dopo aver letto i tuoi racconti in “Libro dei dispersi e dei ritornati” (Musicaos 2018), scritti a partire da foto trovate per caso, e questa immersione nella vostra personale a Lecce, vorrei proprio saperlo: dove e come scrivi? La domanda anela a una risposta che nutre aspettative verso la tua capacità di raccontare la materialità della vita senza perdere l’astrazione.

La prima “scrittura” la faccio per lo più in mente. Camminando all’aperto, possibilmente in luoghi vasti (ma mi adatto, l’importante è che si veda il cielo). Mi piace camminare, quasi quanto detesto invece andare in bicicletta. Esco e cammino, a volte anche per diversi chilometri. I pensieri, le parole, le frasi, seguono il ritmo del corpo in movimento e del respiro e ad un certo punto non c’è più distinzione tra parole e corpo, tra pensiero e movimento. Soprattutto molti testi in versi sono nati così. La mia è una scrittura che nasce soprattutto dal corpo, come se le sillabe o le parole si appoggiassero sul movimento e viceversa. Il ritmo, in questo senso, è in qualche modo più importante del senso. È il ritmo che guida, e nasce dal corpo.

Poi, a casa, trascrivo al computer quello che mi ricordo. A volte purtroppo alcune cose vanno perdute, ma pazienza, quelle fondamentali restano, come inscritte nella memoria del corpo. Trascrivendole, quindi ri-pensandole, possono cambiare, spesso scopro altre cose, è un procedimento vivo, non cerco di “fermarle” sulla carta, cerco piuttosto di continuare a sentirne  il movimento. A casa, più classicamente, scrivo al tavolo della cucina. Alla mia sinistra c’è la finestra che da sul giardino. Questo mi aiuta a vincere una leggera forma di claustrofobia: devo sempre avere la possibilità di vedere un pezzo di cielo, proprio come quando cammino. Ma anche al computer, è una questione di ritmo: anche qui è il ritmo, con il movimento e il rumore delle dita sui tasti, che mi guida.

Nei tuoi testi le parole mi paiono pesate [letteralmente], anche se non mancano la velocità e un certo… effetto “spontaneità”. È così? Perché?

Sì, in scena le parole sono pesate, perché le penso o ri-penso, dunque le peso, ogni volta che le pronuncio. È quasi lo stesso procedimento di “trascrizione” che faccio quando passo dal testo “pensato” a quello scritto, cercando di ascoltare il movimento delle parole e di trascriverlo. A loro volta, poi, le parole che ho scritto, passando nuovamente per il corpo per essere pronunciate sulla scena, vengono ri-pensate e ri-pesate e in questo modo ri-scoperte ogni volta diverse, nuove. E assumono un nuovo ritmo, un nuovo movimento, un nuovo senso, a volte vicino a quello che le ha originate, come delle “variazioni”, a volte stravolgendolo in una nuova visone. Le parole per me sono porte che si aprono su possibilità ogni volta diverse, e queste possibilità si rivelano solo se do loro la possibilità di rivelarsi, solo se mi pongo, io per prima, come autrice e come attrice, in una posizione di ascolto. Le parole sono vive, anche quelle scritte, perché leggendole, pensandole, ascoltandole e  dicendole rivelano sempre qualcosa di nuovo. Leggendo, lo stesso processo lo facciamo, da lettori, nella mente. O almeno: da lettori “attivi”. E lo stesso avviene negli spettatori. L’attore è in questo senso un tramite del testo, l’attore ascolta e lascia agire dentro di sé  il testo che arriva vivo allo spettatore che a suo volta lo ascolta e lascia agire dentro di sé e lo restituisce, con il suo ascolto, sguardo, presenza, all’attore. E così via. Il teatro è per me un pensare insieme, un circolo virtuoso.

Ho letto sul vostro sito un testo di Werner a proposito di Autodiffamazione. Dice: All’inizio c’era l’entusiasmo di Lea, sempre di nuovo quel suo entusiasmo! per La notte della Morava. E poi c’era quel suo pluriennale insistere, ossessivo, ininterrotto, perché tirassi fuori un testo, un progetto sul quale lavorare e scappare così dalle contingenze quotidiane e dal vuoto che ci stava per inghiottire. In fondo non avevamo più fatto nulla di veramente degno di nota dalla nostra Anarchia in Baviera due anni prima. Io non avevo voglia di fare niente, non avevo nessun’idea in grado di mettere in moto qualcosa e assistevo impotente allo sgretolarsi del nostro rapporto.

Assistere alla vostra personale è stato anche un viaggio intimo, mi sono sentita destinataria del racconto di un’intimità condivisa, ché l’arte è il massimo dell’intimo possibile credo. Convergono nei tuoi testi, prodotti e resi in scena dalla vostra compagnia, fatti privati e questioni pubbliche senza che si possa distinguere una linea di confine. O c’è? In un caso e nell’altro, cosa c’è di confortevole e cosa di complesso nel vostro lavoro comune?

Su molte, moltissime, cose ci capiamo al volo. Abbiamo un vocabolario in comune. Ci fidiamo l’uno dell’altra, contiamo sulla reciproca capacità di ascolto e restituzione. Siamo come “allenati” a pensare insieme. E questo è confortevole e complesso allo stesso tempo.

Poi, come tutte le coppie artistiche e/o di vita, discutiamo, e anche litighiamo, spesso. Ma solo fuori dalla scena. In scena no, mai. In scena l’accordo, l’ascolto, il dialogo sono quasi sempre perfetti, il canale di comunicazione è aperto e sgombro da ostacoli, il maggiore dei quali è il proprio e altrui ego. In scena cerchiamo per quanto possibile di tenere l’ego da parte. Nella vita, come per tutti, a volte è più difficile, a volte il canale si chiude, l’ego si mette in mezzo e impedisce il vero reciproco ascolto, e quindi il dialogo. Forse in questo caso la vita avrebbe qualcosa da imparare dall’arte? Con Werner crediamo che un attore debba essere trasparente, e la trasparenza è possibile solo se l’ego non si mette per traverso impedendo allo spettatore di “vedere”, ATTRAVERSO l’attore, la propria storia, fare il proprio percorso, la propria esperienza. Ecco questo è quello che intendiamo noi per “fare teatro”: la possibilità di un dialogo. E perché ciò avvenga tra noi e gli spettatori, questo dialogo, vivo, attivo, deve avvenire innanzitutto all’interno di noi e tra di noi.

Per saperne di più sulla compagnia Barletti/Waas: https://barlettiwaas.eu/

una cosa che ho fatto con Lea Barletti

in copertina: Monologo della buona madre, ph. Luciano Onza

Roberta Ranieri: l’illustratrice perfetta per “amori in cottura”

Desideravo che le parole s’intrecciassero poeticamente con i segni grafici, mantenendo una forte identità narrativa e tuttavia non prevalendovi. Desideravo che le pagine scorressero in equilibrio evidente tra storie e immagini, in un mix di profondità e leggerezza, di ironia e romanticismo non artefatto. Desideravo che i luoghi descritti e illustrati fossero allo stesso tempo fisici e del cuore. Lavorando con Roberta Ranieri ho realizzato questi desideri, mettendo al mondo l’edizione illustrata di “amori in cottura”: così la mia raccolta di racconti nata del 2015 è finalmente in libreria, grazie alla collaborazione con l’editrice indipendente Collettiva, nella sua versione definitiva. Di questa bravissima artista voglio raccontarvi di più.

Ho “scoperto” Roberta Ranieri grazie a Sabrina Barbante, una grande amica ma soprattutto un’eccellente “blogger & blogging coach”. Descrivendole la mia idea per la raccolta, il nome di Roberta è venuto fuori in quella che mi è apparsa una magia.

Classe 1994, cresciuta a Bari, Ranieri racconta per immagini “ciò che più la ispira: la Puglia, il mondo del cibo e dell’infanzia”. Si vede, e si sente: ne ho amato subito lo stile, e poi l’attenzione, la cura nella relazione con le mie parole, la capacità di ascolto e l’autonomia nel lavoro. Come per me, la Puglia per Roberta non è un limite, ma un punto di partenza. Come per me, la tenacia nel proporre autoproduzioni e idee è associata a un senso del proprio sé e delle proprie capacità molto forte. In pratica, ho trovato artisticamente una delle mie anime gemelle. Come detto, è una magia.

Su Instagram e Facebook si fa chiamare “qualcosa di erre” e io voglio presentarvela a partire da questo, con il suo aiuto.

Roberta, definisci “qualcosa di erre”: quel “qualcosa” è una parte di te, del tuo lavoro, dei tuoi interessi? Che cos’altro tiene fuori?

Ho scelto questo nome nel 2017 un po’ per gioco, un po’ perché è il primo passo che fai quando vuoi ritagliarti uno spazio sul web. Ciò che trovo bellissimo è che continua a significare tanto per me ancora oggi: non ho mai voluto etichettarmi, ma poter condividere le tante sfaccettature di me. Mostrare chi sono, quali sono i retroscena del mio lavoro e tutte le mie passioni, dalla cucina alla fotografia, dalla cancelleria all’hand lettering. Chi sceglie di entrare nel mio mondo sa che troverà tutto questo e anche un pizzico del mio caotico e sensibile modo di essere. Cosa rimane fuori? I miei timori e insicurezze, l’antipaticissima sindrome dell’impostore che accompagna tanti di noi creativi e la mia vita privata che svelo in piccole pillole.

Cosa hai pensato quando ti ho proposto di illustrare “amori in cottura”? Cosa ti ha fatto accettare la proposta?

Ho pensato sin da subito che fosse la congiunzione perfetta di due aspetti che amo e ricerco in tutta quella che è la mia quotidianità: le relazioni umane e la cucina. Come illustratrice l’ambito in cui mi sento più ispirata è quello del cibo, che per me sta per accoglienza, cura, famiglia. Dall’altro lato, da inguaribile romantica, sono stata subito catturata dai racconti e dalla tua penna, tanto che durante la prima lettura sono nate in me molte delle immagini che hanno poi preso vita nei mesi successivi. Una volta che ho capito che “amori in cottura” era una vera coccola per cuore e palato non ho potuto che accettare!

Le illustrazioni realizzate da Roberta non sono la fedele riproposizione dei racconti in altra forma, sono una finestra su un immaginario che si può fare proprio: mescolano personaggi, posti, situazioni e li restituiscono con pennellate che, alla fine della lettura, trovano piena comprensione.

Raccontaci come ci hai lavorato.

Inizialmente mi sono concentrata tanto sui testi, per andare più in profondità e capire quello che volevo comunicare. Solo dopo aver analizzato tutte le storie, le caratteristiche dei personaggi e degli ambienti, ho cominciato a disegnare. Ho usato l’acquerello mixato al disegno digitale per evocare situazioni, sensazioni, aggiungendo anche elementi che si intrecciano tra loro, come se tutte queste storie d’amore alla fin fine si svolgessero in un universo e tempo comune. Ecco perché ogni immagine si rivela nella sua totalità solo una volta completata la lettura del libro.

Roberta Ranieri

Torniamo a parlare di te. Come sei arrivata a essere la creativa che sei oggi?

Tutti gli strumenti creativi hanno sempre fatto parte della mia vita, sin da piccolissima. Già da appena sveglia a colazione avevo sempre in mano una penna, disegnavo ovunque. Era quasi un bisogno fisico quello di scarabocchiare, colorare, creare. Con gli studi poi ho abbandonato questa strada pensando che il mio futuro fosse altrove, non avevo mai valutato l’idea che potesse diventare qualcosa in più o addirittura un lavoro.
Una volta terminata la triennale in Scienze della Comunicazione, in un momento di vuoto e confusione sul “che cosa voglio fare davvero da grande”, mi sono rifugiata in quello che dopotutto mi aveva sempre fatto star bene: il disegno. Da quel momento non ho mai più smesso. In realtà è successo tutto molto spontaneamente, non l’ho percepita come una decisione ma come se la vita mi avesse rimesso davanti la strada che avevo fatto finta di non vedere per troppo tempo.

Che consigli daresti a chi avesse voglia di lavorare nell’illustrazione?

Consiglio di studiare e disegnare tanto, almeno un’ora ogni giorno o almeno ogni volta che si può. Di mettersi in gioco il più possibile, di sperimentare e cercare pian piano la propria voce, la propria unicità. Il percorso non è affatto semplice e per niente immediato, ma non esiste niente di più bello dell’imparare e in questo lavoro lo si fa in continuazione.

Fabiola Berton a lavoro sulle illustrazioni per il romanzo di Loredana De Vitis "il posto di dio" (Collettiva edizioni indipendenti, collana Orlando)

Fabiola Berton: l’illustratrice pícara de “il posto di dio”

La copertina del mio nuovo romanzo il posto di dio è il risultato di un desiderio e di una scelta. Fin dal momento dell’ideazione della collana Orlando, a lavoro con l’editrice Collettiva, ho spiegato che volevo farne un atelier, un posto dove la scrittura potesse incontrare [e dialogare con] altre forme di espressione e d’arte. Per “il posto di dio” questo incontro è stato con Fabiola Berton, un’artista di grande talento che mi ha fatto conoscere mio marito Davide.

Nata nel 1983 in Venezuela, laureata in Arti visive, Fabiola Berton è specializzata in 2D e 3D come concept artist, character & background designer, lighting artist, modellazione, texturing, motion graphics, graphic design e art direction. Tra le altre cose, ha lavorato come “artista delle luci e dei colori IB chiave” in Klaus. Lo avete visto? Questo è il trailer.

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Fabiola si definisce in modo semplice, secco, un’artista, e in questa definizione fa confluire le sue passioni e i suoi studi, che si spingono all’agopuntura, all’interior design e allo yoga. Della copertina e delle illustrazioni interne che avevo in mente per il romanzo ho discusso con lei via e-mail, skype e whatsapp, scrutando dal mio schermo la sua finestra sull’Irlanda [attualmente vive a Kilkenny]. Mi aveva molto attratto un suo disegno di Edimburgo su ArtStation, e a quel gioco di luci le ho chiesto di ispirarsi. Fabiola ha letto il testo e ha camminato con me per la strade della mia città attraverso le mie foto, alcuni miei video e qualche strategico link su google maps.

Del concept di copertina mi ha spiegato:

In primo piano c’è Marta e, nella sua testa, il centro storico di Lecce delineato dalla sagoma della chiesa di San Paolo [nel romanzo è inventata, ndr]: un invito a entrare nella mente della protagonista per vivere la sua storia e, allo stesso tempo, per immaginare un immenso campo di possibilità. Una strada che incuriosisce, che sembra non finire, e che propone a chi la guarda di pedalare su una piccola bicicletta o di passeggiare attorno al posto di dio. Ho lavorato perché l’immedesimazione fosse intuitiva, perché l’immagine potesse parlare al mondo in altre lingue.

la copertina del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, con un'illustrazione di Fabiola Berton

Ho visto prima uno schizzo in bianco e nero, poi una prima prova col colore. Sono bastati pochi minuti di confronto per arrivare al risultato finale. Bellissimo, ho detto. Ho chiesto a Fabiola se qualcosa del libro l’avesse colpita in particolare. Mi ha risposto che ne ha amato la picardía. Che cosa vuoi dire?, ho insistito [non conosco lo spagnolo]. E lei: è piccante, è… frizzante.

Hai un modo molto dettagliato di descrivere sia i personaggi che le situazioni. Questo ti fa entrare nella storia, essere non solo un lettore ma vivere i personaggi, essere parte stessa di una storia che, probabilmente, tutti abbiamo vissuto anche se in modi diversi. Il romanzo è audacemente divertente, pícaro e ben scritto, femminile e lunare.

Fabiola, che cosa significa per te essere un’artista?

Penso che in qualche modo siamo tutti artisti. Abbiamo tutti questa particolare sensibilità che, in un modo o nell’altro, ci fa esprimere in modo originale e creativo. Ognuno di noi si esprime nel suo essere unico, particolare.

Sei, come me, amante della natura. Anzi, più che amante.

La natura è mia madre, la mia maestra. Se ci torniamo, potremo vivere davvero.

Quando hai cominciato a dipingere?

A 6 mesi avevo già a portata di mano il mio giocattolo preferito: una penna. Dipingevo tutto quello che incontravo, da me stessa al solito foglio di carta.

particolare dell'illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo "il ballo di santa Lucia", all'interno del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021
particolare dell’illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo “il ballo di santa Lucia”, all’interno del romanzo “il posto di dio” di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021

Ma come e quando hai deciso che il disegno sarebbe diventato il tuo lavoro?

Penso che non sia stata una decisione, ma una chiamata. È quello che sono venuta a fare. Credo che la vita, se la lasci fare e la ascolti attentamente, ti fornisce mappe personalizzate, ti mette lungo i percorsi migliori per te. Devi solo avere il coraggio di percorrerli.

Mi hai detto di aver camminato attraverso molte terre con lingue e culture diverse. Dove hai vissuto? Quali sono i tuoi luoghi del cuore?

Ho vissuto in tanti posti: Venezuela, Italia, Spagna, Irlanda. Sono diventati tutti luoghi del cuore, poiché ne ho ricevuto accoglienza e ho dato loro quello che sono o quello che mi hanno chiesto. Siamo cresciuti assieme, una parte di loro è rimasta in me e io ho lasciato una parte di me in loro.

Quali sono le tue tecniche predilette?

Gli acquerelli e l’arte digitale, per il momento. Lavoro molto anche con la fotografia, poiché sono appassionata di luce.

Quali sono i lavori che, fino a oggi, ti è piaciuto di più realizzare?

Tutte le mie opere portano in sé qualcosa della mia anima. Ognuna mi ha insegnato qualcosa, mi ha dato la possibilità di esplorazione e di incontro con me stessa e il messaggio che voglio comunicare. Il mio lavoro preferito è quello che sto facendo in quel momento.

particolare dell'illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo "viaggio ad Assisi", all'interno del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021
particolare dell’illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo “viaggio ad Assisi”, all’interno del romanzo “il posto di dio” di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021

Dover lavorare con me, cioè in qualche modo non essere completamente libera di interpretare il mio romanzo, è stato un limite o uno stimolo in più?

È stato davvero stimolante lavorare con te, Loredana. È stato meraviglioso il modo che abbiamo trovato per descrivere la tua esigenza di stampare l’anima del libro in immagini evocative. Le immagini permetteranno a chi legge di navigare tra le storie, sia attraverso i colori della copertina che nell’avventura delicata, elegante e monocromatica delle illustrazioni interne che, all’improvviso, si aprono come finestre permettendo di vedere una parte dell’avventura.
Devo dire che lo stile del libro è molto più adulto di quello che sviluppo come stile personale, ma l’ho trovato artistico ed elegante. Mi ha portato alla mia parte più artistica di espressione evocativa.

Quali sono state le difficoltà principali incontrate nel tuo percorso?

Di solito non definisco i piccoli ciottoli della strada come difficoltà, penso che siano semplicemente piccole scorciatoie che portano al vero sentiero. Ringrazio tutte le apparenti “difficoltà”, perché da loro si impara a camminare saldamente dalla parte giusta.

Cosa consiglieresti a una giovane donna che volesse intraprendere la tua stessa strada?

Connettiti con te stessa, con la tua vera parte artistica, connettiti con il tuo messaggio e comunicalo al mondo in modo gioioso, vivace, rinnovato. Il mondo ha bisogno di messaggi ben pronunciati, le immagini sono sempre state i migliori driver, le migliori parole, il miglior linguaggio. Usalo sapendo che possiedi un grande potere e un grande potere è una grande responsabilità. Lungo la strada ricordati di sorridere, goditela e prenditi il tempo per esplorare il silenzio, il vuoto. Svuotati in modo da poter essere riempita di chi sei veramente.

Julia Musariri medica in Zimbabwe: «Decisivo l’empowerment delle ragazze»

Julia Musariri è una medica e una manager sanitaria la cui tenacia e determinazione sono state essenziali perché il St Albert’s hospital restasse un solido punto di riferimento in una delle aree più complesse dello Zimbabwe (Africa meridionale). Parliamo della provincia rurale del Mashonaland Central, 200 chilometri a nord della capitale Harare, caratterizzata da profonda povertà e un alto tasso di violenza di genere e abusi sui minori. La dottoressa Musariri è la prima delle cinque “Women in Zimbabwe” che vogliamo presentare: una donna che, grazie ad altre donne, ha compreso e saputo sviluppare il proprio potenziale, e che è ora convinta che l’empowerment delle ragazze sia l’azione chiave perché lo Zimbabwe possa progredire.

di Eleonora Aralla e Loredana De Vitis
immagini per gentile concessione di Julia Musariri, commentate di suo pugno

Nata in una famiglia di agricoltori nella missione cattolica di Monte Cassino a Macheke, Musariri è stata prima un’insegnante, poi un’infermiera, per raggiungere infine l’obiettivo di diventare una medica. Oggi il suo lavoro va ben al di là dell’esercizio della professione. Come ci ha spiegato, il St Albert è un district hospital, «il governo paga gli stipendi del personale, fornisce alcune medicine e finanzia una parte delle spese di gestione dell’ospedale», ma lei si occupa – oltre che della pianificazione e dello sviluppo di programmi di prevenzione – di amministrazione e di fundraising (per l’acquisto di medicine, carburante, forniture alimentari, biancheria, strumentazione, ambulanze, personale, attrezzature per i progetti sia sanitari che agricoli), di supervisionare lo staff, di progetti clinici e di ideare azioni per ottenere ulteriori introiti necessari. Inoltre è consulente della Diocesi «su questioni di salute e per la formulazione e lo sviluppo di politiche anti-HIV per l’intero territorio».

La Diocesi in questione è quella di Chinhoyi. Musariri fa parte della AFMM“Associazione Femminile Medico Missionaria”, all’interno della “International Medical Association”. L’associazione venne fondata in Italia nel 1954 da Adele Pignatelli, una medica romana che faceva parte del “Movimento dei laureati cattolici”, con il supporto di Monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI. Chi entra a far parte dell’associazione fa voto di obbedienza, povertà, castità e vita missionaria. Proprio l’incontro con alcune donne della AFMM ha dato a Musariri il la per cominciare il suo percorso.

immagine per gentile concessione di Julia Musariri, commentata di suo pugno

«All’età di 17 anni non avevo mai visto un medico, solo una suora infermiera al dispensario, che conosceva come fare molte procedure. Un giorno nella nostra missione arrivarono due suore, venute solo per migliorare il loro inglese. Mi fu detto che erano destinate all’“All Souls Mission Hospital” per lavorare come infermiere, erano missionarie. Avrebbero lavorato con le dottoresse che erano già lì: Luisa Maria Guidotti, Mariaelena Pezzarezzi e Maria Grazia Buggiani, e con suor Caterina Savini, che era infermiera. Erano della AFMM».

Siamo alla fine degli anni 1960. Di famiglia d’antica origine nobiliare, Luisa Guidotti (Mistrali) si era laureata in Medicina e specializzata in Radiologia; dopo essersi unita alla AFMM fu inviata in Rhodesia, l’attuale Zimbabwe. Nel 1965 la minoranza bianca aveva deciso unilateralmente di dichiarare l’indipendenza dal Regno Unito, dando il via alla guerra civile. Nel 1969 Guidotti aveva cominciato a lavorare all’ospedale “All Souls” a Mutoko, area rurale a nord-ovest di Harare. Qui aveva anche raccolto fondi tra gli amici italiani per trasformare l’ospedale da un insieme di capanne a una struttura di mattoni.  

«Queste donne, che avevano lasciato le loro confortevoli case perché desideravano servire la mia gente, mi affascinarono. Al tempo frequentavo la prima superiore, con voti medi. Delle due missionarie persi a lungo le tracce. Tra il 1972 e il 1974, studiai allo United College of Education per diventare insegnante di scuola primaria. Dopo aver completato il corso col massimo dei voti cominciai a lavorare in una scuola mixed race a Esigodini in Matabeleland, dove la maggior parte degli studenti aveva alle spalle storie di abusi in famiglia. C’era un gruppo particolare di bambini che faceva dispetti alle insegnanti. Un bambino coloured [meticcio, ndr] – si chiamava Heath – continuava a disturbare il resto della classe, dicendo “chi mi ha dato la mia maleducazione, mia mamma nera o mio papà bianco?”. Un giorno strappò alcune pagine dal suo quaderno dei compiti e da quello di un compagno. Mi arrabbiai molto. Lo punii così severamente che, da quel momento, il ragazzo fu molto spaventato persino a starmi vicino. Gli chiesi scusa, ma non bastò per recuperare la relazione tra noi. Mi dissi che quello non era il mestiere per me».

Il termine “coloured” in Zimbabwe fa riferimento a una categoria razziale che stava ‘tra’ bianchi e neri, in termini economici, politici e sociali. Essere di razza mista, nella cultura coloniale, significava incarnare la temuta ‘mescolanza’ [1] che sfida i confini tra le razze. Fino all’inizio del Ventunesimo secolo, la proporzione tra uomini bianchi e donne bianche nella colonia britannica era di tre a uno, il che rappresentava un problema in termini di relazioni sessuali: queste divennero presto interrazziali, e le donne nere venivano spesso abusate dagli uomini bianchi.

Vista attraverso la lente razzista della società coloniale, la sessualità depravata delle donne africane provocava gli uomini. La colpa degli abusi era, quindi, attribuita alle donne. Un bambino coloured nasceva per questo con un grosso peso sulle spalle, i bambini coloured non avevano praticamente alcun posto nella società: troppo bianchi per essere neri, troppo neri per essere bianchi. La frase del piccolo Heath lo esprime in poche, accurate, beffarde parole.
Deve essere stato difficile per un’insegnante giovane e inesperta come Musariri affrontare i complessi sottesi conflitti di quel genere di classe: si trovava a dover affrontare sfide ben al di là di qualunque formazione ricevuta.

«Ho sempre voluto diventare infermiera, anche se i miei genitori non ne erano entusiasti. Mi dicevano “Le uniformi sono bianche e pulite, ma il lavoro è molto sporco. Dietro le apparenze, le infermiere sono donne moralmente depravate”. Comunque, nonostante l’opposizione dei miei, decisi di candidarmi a un corso per infermiere».

Nel pieno della guerra civile, nel giugno 1976, Luisa Guidotti Mistrali venne arrestata dalla polizia rhodesiana per aver curato un presunto guerrigliero e rischiò l’esecuzione, evitata anche grazie alle pressioni del Vaticano. Ma il 6 luglio 1979, tornando dal Nyadiri hospital, dove aveva accompagnato una donna con un travaglio complicato, venne fermata a un posto di blocco a Lot e ferita a morte. Anni dopo, nel 1983, le è stato intitolato l’ospedale All Souls e, su iniziativa della Diocesi di Harare, avviato il processo di beatificazione.

«Fu una tragedia. La povera gente di Mutoko aveva perso l’unico dottore che la capiva e se ne prendeva cura appassionatamente. Decisi che volevo far parte dell’AFMM, per poter servire i malati come faceva lei. L’“All Souls” era irraggiungibile a causa della guerra in corso. Le lettere indirizzate a Luisa furono portate a Roma dalla dottoressa Elizabeth Tarira e dalla dottoressa Rosalba Sangiorgi. Tra queste, anche la mia. Nel frattempo avevo abbandonato l’insegnamento e avevo iniziato il programma di formazione per diventare infermiera presso l’Harare Central Hospital, ora Sally Mugabe Hospital. Nel settembre 1979 ricevetti la loro risposta. Diceva solamente: “Se sei sempre dello stesso avviso, vieni a Roma”. Lasciai il programma e partii per Roma, nonostante avessi avuto risultati eccellenti agli esami sostenuti fino a quel momento. Decisi di andare a Roma per per far parte dell’AFMM nel 1980, il 3 marzo. A casa erano euforici, tutti avevano votato per la prima volta e l’indipendenza dalla Gran Bretagna era alle porte». 

Musariri giunse così all’ospedale San Giovanni in Laterano. Tre mesi più tardi capiva e parlava un italiano-base.

«A Roma incontrai la fondatrice. Mi disse che le sarebbe piaciuto che entrassi a Medicina, ma rifiutai, perciò mi mandò alla scuola d’infermeria. Dopo tre anni, passai gli esami a pieni voti. Nel 1985 tornai in Zimbabwe per lavorare in vari ospedali missionari; passai solo un breve periodo al St Albert’s nel 1985 prima di andare all’ospedale missionario di Chitsungo. Fare l’infermiera mi dava grande soddisfazione, ma mi mancava qualcosa: la capacità di aiutare le madri con travagli complicati. Non potevo effettuare tagli cesarei e dovevamo trasferire tutti i casi di travaglio con complicazioni all’Harare Central Hospital. Nel 1992, poco prima di andare in ferie, fui invitata a Roma dalla dottoressa Adele, che mi suggerì nuovamente di studiare Medicina. Questa volta accettai. Ero più grande di qualunque altro studente all’Università di Tor Vergata. Mi iscrissi all’esame d’accesso. Tra mille e più candidati, l’università poteva accettarne solo 150. Controllai i risultati sulla bacheca. Ero la numero 152, ma alcuni studenti rinunciarono. Perciò fui chiamata e così iniziai la mia formazione per diventare medica».

Ci sono state difficoltà dovute al fatto d’essere una donna?

«In passato la medicina era considerata una carriera maschile. Nella nostra società patriarcale è ancora comune che si pensi ad alcune professioni come esclusivamente maschili. La medicina è una di queste. Tuttavia incontrare le mediche dell’AFMM aveva avuto su di me una profonda influenza, e mi aveva spinta a pensare che donne e uomini avessero le stesse opportunità. Mi avevano spronata ad affrontare le difficoltà linguistiche, culturali, le lunghe ore di viaggio verso l’Università, gli inverni freddi e le estati umide. Fu un esperienza che mi cambiò la vita, modificando completamente il mio modo di pensare. Mi piacerebbe che succedesse lo stesso ai genitori di molte ragazze. Oggi ho la possibilità di educare persone giovani a perseguire i propri sogni. Il cielo non è più il confine, possiamo andare oltre. È possibile, per le donne, fare meglio di chiunque altro».

Il Mashonaland Central, dov’è collocato il St Albert, è un vero e proprio hotspot per la cosiddetta Sexual & Gender Based Violence (SGBV). I dati dello studio “Extended Analysis of Multiple Indicator Cluster Survey (MICS) 2014: Child Protection, Child Marriage and Attitudes towards Violence” riportano il Mashonaland Central come la zona con la più alta percentuale di donne (50%) tra i 20 e 24 anni sposate prima dei 18 anni.

I servizi sanitari e sociali nell’area sono limitati, e la percentuale di abbandono scolastico molto alta. Lo studio, in particolare per le ragazze, non è considerato una priorità, dal momento che nella cultura tradizionale il ruolo di una donna è essenzialmente subordinato e di cura. La povertà generalizzata e l’insicurezza alimentare contribuiscono a esacerbare la situazione; i bambini, specialmente le bambine, sono costretti ad abbandonare presto gli studi e spesso a cominciare a lavorare, perché le famiglie non possono affrontare i costi delle tasse scolastiche. Le credenze arcaiche, ancora profondamente radicate, aggravano ulteriormente il quadro: il benessere dei bambini non è una priorità, e spesso sono vittime di incuria e abusi.

Il CAFOD, l’organizzazione per cui lavora Eleonora, supporta il St Albert da 14 anni, ed è attualmente partner dell’ospedale nel programma Putting Children First (ora nella quarta fase di implementazione), che utilizza fondi messi a disposizione da Caritas Australia e dal governo australiano; gli interventi mirano al miglioramento della protezione dei diritti dell’infanzia. Uno degli obiettivi principali del programma è quello di avere un’influenza positiva sul comportamento delle famiglie e della comunità, sfidando le credenze e le pratiche come i matrimoni precoci attraverso la diffusione della conoscenza e della consapevolezza sulla violenza di genere, le dinamiche di genere, la genitorialità positiva e i metodi alternativi alle punizioni fisiche. Si lavora principalmente con i genitori dei bambini più piccoli, ma anche con i membri della comunità più in generale. Le famiglie sono inoltre incoraggiate a utilizzare i propri introiti per far studiare i bambini e soprattutto le bambine, le prime ad abbandonare la scuola a causa delle gravidanze precoci oppure semplicemente quando il denaro per le tasse scolastiche non c’è. 

Per una ragazza in Zimbabwe, specialmente in quest’area, dove a volte si deve combattere anche soltanto per avere più di un pasto al giorno, compiere 18 anni senza aver avuto una gravidanza e avendo completato il ciclo di studi secondario è già un risultato.

immagine per gentile concessione di Julia Musariri, commentata di suo pugno

Come è stato studiare Medicina in Italia?

«Entrai a Medicina all’età di 29 anni. Dieci anni più grande di qualunque altro studente, ragazzi che erano appena usciti dalle superiori. Non c’era da meravigliarsi che mi chiedessero cosa avessi fatto fino a quel momento. Gli italiani sono pazienti con chi sta imparando la loro lingua. La mia prima amica si chiamava Sonia, una ragazza coi capelli rossi e le lentiggini, espansiva e sempre pronta ad aiutare. Lei mi presentò alle sue cinque amiche: Flavia, due Monica e due Roberta; mi adottarono nel loro gruppo, condividevano sempre gli appunti con me. Non sentii il tanto temuto isolamento né la segregazione. Lavorai sodo per ottenere la laurea nei sei anni previsti. Avevo voti medi, ma la cosa non m’impensieriva. L’importante per me era poter tornare e prestare servizio alle moltissime donne e ai bambini che non avevano mai visto un medico nella missione. Pensavo che se giovani persone dotate come Luisa Guidotti, che veniva da una famiglia agiata, potevano lasciare le comodità della propria casa per venire nello Zimbabwe rurale a prendersi cura dei nostri malati, perché io non potevo fare altrettanto? Mi laureai il 13 aprile 2001. Tornai in Zimbabwe per fare il tirocinio presso l’Harare Central Hospital. Completati i due anni, fui mandata al St Albert’s».

il giorno della laurea in Medicina, immagine per gentile concessione di Julia Musariri

Finalmente, Musariri divenne medica.

«Finalmente prestavo servizio come medica. Ero in grado di effettuare operazioni chirurgiche, specialmente tagli cesarei. Non avevo più bisogno di trasferire pazienti con complicazioni ad Harare. La dottoressa Neela Naha, una ginecologa specializzata in ostetricia, mi preparò alla gestione di casi complessi. Alcune colleghe, mentre ero in Italia, mi avevano consigliato di sposarmi, prendere la cittadinanza italiana e rimanere. Ma la verità è che io non scambierei ciò che ho con nient’altro. Oggi sono ancora al St Albert’s, mi occupo dei pazienti ambulatoriali, mentre i dottori più giovani si dedicano alle operazioni chirurgiche a al resto del lavoro. La Diocesi di Chinhoyi mi ha chiesto di diventare la coordinatrice dei loro ospedali, e sono la Sovrintendente Sanitaria del St Albert’s».

Il St Albert’s Mission Hospital è nato nel 1964 ed è gestito da suore domenicane. Aveva inizialmente 85 posti letto. Nel 1985 è divenuto un district hospital, e ora ha 140 letti; è al servizio di un’area con una popolazione è di circa 134.295 persone. Ogni anno ospita 5mila pazienti, ne cura 40mila e assiste la nascita di circa 2.600 bambini malgrado la limitata tecnologia disponibile. Nonostante innumerevoli difficoltà, l’ospedale fornisce farmaci antiretrovirali, porta avanti un programma di cure a domicilio per aiutare le famiglie a occuparsi di familiari disabili o con patologie croniche (soprattutto HIV) e paga le tasse scolastiche per centinaia di orfani. Per far fronte alla sempre crescente crisi economica e alla conseguente insicurezza alimentare, nel 2000 l’ospedale ha avviato un progetto di allevamento (capre, polli e maiali), in modo da provvedere ai pasti per i pazienti e, con il ricavato delle vendite del surplus, pagare i lavoratori del progetto.

Il suo lavoro deve essere davvero arduo in un contesto così difficile dal punto di vista economico e politico. 

«Da medici, abbiamo bisogno di tutti gli strumenti del mestiere per fornire le migliori soluzioni di cura ai malati. Ma guardare il nostro ospedale è demoralizzante, perché gli strumenti del mestiere sono obsoleti. I miei collaboratori e colleghi vorrebbero finalmente usare tecnologie digitali in tutti i campi. Ma in lavanderia la lavatrice e il rullo da stiro non funzionano più; il chirurgo si lamenta costantemente del macchinario per l’anestesia; nella camera mortuaria non si riescono nemmeno a conservare i cadaveri (per mancanza di elettricità, ndr). La lista è infinita. I molti benefattori che avevamo negli anni 2000 per i programmi a sostegno della prevenzione e cura dell‘HIV/AIDS sono passati ad altri distretti; le mediche dell’AFMM sono anziane e hanno bisogno di cure e non sono più in grado di raccogliere fondi come facevano in passato. Perciò continuiamo a utilizzare quello che qualunque altro dottore benintenzionato preferirebbe non usare, perché le nostre risorse non ci permettono di acquistare nuovi strumenti. Purtroppo abbiamo fatto troppo affidamento su fondi di donatori esterni, grazie alla presenza di missionarie espatriate dell’AFMM che lavoravano con noi, che potevano far conoscere e supportare la causa del St Albert’s. I loro parenti e amici raccoglievano fondi per il loro lavoro. È per questo che abbiamo ancora macchinari degli anni ’90».

E il COVID deve aver complicato ulteriormente le cose.

«L’effetto più immediato è stata una riduzione significativa del flusso di pazienti, in particolare donne in gravidanza, e il conseguente aumento di parti in casa, con tutti i rischi che questi comportano. Abbiamo dovuto chiudere gli ambulatori per far spazio a un piccolo reparto COVID, con quattro letti. Il reparto di Salute Infantile e Familiare e gli ambulatori al momento sono nello stesso spazio. I dispositivi di protezione personale, incluso le mascherine, i guanti e i grembiuli sono inadeguati e insufficienti; tuttavia noi cerchiamo di continuare a fornire il nostro servizio».

Il St Albert sembra avere una particolare attenzione per la salute delle donne: salute delle madri, screening per il cancro della cervice e del seno e altro. Si tratta di una scelta deliberata, strategica?

«Dopo aver notato la prevalenza di travagli con complicazioni, le dottoresse Elizabeth Tarira e Neela ebbero l’idea di migliorare la salute materna. Costruirono una casa maternità, che poteva ospitare fino a 45 donne in stato avanzato di gravidanza, ma presto dovettero estenderne la capacità a 105. Le donne potevano venire a stare vicino all’ospedale nelle ultime due o tre settimane, e avere così rapido accesso all’assistenza e alla sala operatoria in caso di bisogno, per assicurare il benessere sia della madre che del bambino. Nel distretto di Centenary c’erano giovani donne con fistole vescico-vaginali, tumori mammari e al collo dell’utero in stato avanzato; c’era bisogno di intervenire su tutti questi problemi. La prevenzione della trasmissione materno-infantile dell’HIV fu introdotta dalla dottoressa Tarira grazie al supporto dell’ONG italiana Cesvi di Bergamo, usando una dose singola di Nevirapina. Takunda, il primo bambino la cui madre si era offerta volontaria per l’assunzione di Nevirapina, nacque negativo all’HIV; adesso ha 20 anni. Quella fu una pietra miliare per il St Albert’s. La terapia tripla per le donne positive al virus fu introdotta nel 2004, e successivamente fu introdotto anche il trattamento per i loro partner. La dottoressa Neela si occupava dello screening per il cancro al collo dell’utero attraverso l’ispezione visiva con acido acetico; recentemente abbiamo anche aggiunto una microcamera, con l’aiuto di Darrell Ward e del dottore Lowell Schnipper della fondazione Better Healthcare for Africa, cosa che ha rappresentato un enorme passo avanti. Attualmente i programmi di screening per il tumore al seno e al collo dell’utero sono stati allargati dal governo a tutti i distretti».

La storia di Takunda (‘nato libero’ in shona, la più diffusa lingua bantu del paese) si può leggere qui: On the children’s side – Cesvi Onlus – Cooperazione e Sviluppo. Nel 2001 il Cesvi aveva appena iniziato a lavorare nella lotta all’AIDS proprio in Zimbabwe, uno dei paesi più colpiti. In quegli anni una donna su tre era HIV-positiva, e generalmente aveva possibilità di sopravvivenza molto scarse. Il Cesvi cominciò le sperimentazioni farmacologiche con la Nevirapina. La madre di Takunda fu sottoposta al trattamento e monitorata. Il 9 maggio 2001 Takunda nacque libero dall’AIDS. [2]

Ha mai pensato di cambiare mestiere?

«Il mio lavoro come medica in un ospedale missionario mi ha dato grandi soddisfazioni. Ci trovo Dio dentro. Altrimenti sarei stata una delle tante donne della mia età che si sono sposate da giovanissime e non hanno combinato nulla con la loro istruzione primaria o secondaria. Sono anche in debito con i miei genitori, che hanno sacrificato il loro tempo e il loro denaro per cercare di fare la differenza per i loro 13 figli. Dopo la pensione vorrei dedicarmi all’agricoltura. Ho dato vita a un progetto di allevamento di pollame per la produzione di uova, di pesce e capre, ho rimesso in piedi quello di maiali; ho piantato un’area di circa un ettaro con fagioli per la vendita, in modo da ottenere fondi, di cui l’ospedale ha estremo bisogno. Questi progetti sono in fase iniziale, ma sono ottimista».

In Zimbabwe le pensioni statali sono bassissime; nella maggior parte dei casi sono a malapena sufficienti a coprire i costi base della vita, vista la rampante inflazione. È molto comune che si faccia affidamento su piccoli introiti extra come i piccoli allevamenti di bestiame. Qualcosa che può apportare significativi miglioramenti della dieta quotidiana (uova, carne bianca, latte di capra – molto nutriente), come pure consentire vendite o scambi per guadagnare qualcosa. 

Julia Musariri a lavoro: immagine per gentile concessione del St Albert Hospital

Lei lavora quotidianamente in un contesto molto complesso; dal punto di osservazione di una lavoratrice in prima linea, quali sono le principali battaglie da combattere? Quelle che, una volta risolte, potrebbero avere a cascata ulteriori risultati positivi? 

«Sono convinta che, se lavoriamo sull’empowerment delle bambine possiamo fare molta strada. Le ragazze di oggi saranno madri domani, incaricate dell’educazione dei figli. E le professioniste del futuro. È doloroso vedere giovani ragazze divenire madri, a causa di diverse circostanze. I diritti dei bambini, specialmente delle bambine, sono lo snodo cruciale per raggiungere l’emancipazione delle donne africane e (e zimbabuane)». 

Se dovesse indicare qualcosa di importante da far conoscere del suo lavoro, quale sarebbe? C’è un piccolo progetto che possiamo contribuire a realizzare?

«Un progetto che potrebbe potenzialmente generare introiti ed essere sostenibile sarebbe l’allargamento dell’attuale allevamento ittico o di quello di pollame, i cui prodotti possono essere venduti – uova e pesce – e, con quel denaro, possiamo pagare alcune delle spese che non siamo in grado di coprire al momento. Dal punto di vista medico, abbiamo bisogno di un moderno monitor multiparametrico per la sala operatoria, specialmente per i tagli cesarei».

Donazioni possono essere inviate tramite bonifico bancario a:
Stanbic – Minerva Branch
account number 9140001107576
BIC-code: SBICZWHX
o attraverso Better Healthcare for Africa:
Donate to BHA – Better Healthcare for Africa
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[1]
The Chronicle, 12th February 2000
‘Joshua Cohen walks down memory lane’, Parade, August 1999.
Robert J.C. Young, Colonial Desire: Hybridity in Theory, Culture and Race, (Rutledge, London, 1995, p. 5)

[2]
On the children’s side – Cesvi Onlus – Cooperazione e Sviluppo
Mother and child | World news | The Guardian

Doctor Julia Musariri: “The key action for Zimbabwe is empowering girls”

She is a doctor and a health-manager whose tenacity and determination helped St Albert’s hospital remain a solid point of reference in one of the most difficult areas of Zimbabwe (Southern Africa), the rural province of Mashonaland Central, 200km North from the capital, Harare. The area is plagued with poverty, high rates of gender-based violence and child abuse. Julia Musariri is the first of the five “Women in Zimbabwe” we want the world to meet: a woman who was enabled by other women to understand her own potential and act on it, and who is now convinced that empowering women is the key action her homeland needs to progress. She kindly accepted to answer our questions.

by Eleonora Aralla and Loredana De Vitis
pictures kindly provided by Julia Musariri, commented by herself

Born into a family of smallholder farmers in the Catholic Mission of Monte Cassino in Macheke, Musariri has been a teacher, then a nurse, and finally managed to achieve her objective of becoming a doctor. As Musariri explained, St Albert is a district hospital and «the government pays the salaries of the staff, provide some drugs and pays a part of the hospital’s running costs»; however today her work, aside from planning and implementing disease prevention programmes, also focuses on administration and resources mobilisation (finding funds for medicines, fuel, food provisions, linen, utensils, ambulances, manpower, hospital and farm project equipment), supervision of staff, clinical and income generation projects; in addition, she is involved in «advising the Diocese on health matters, formulating and implementing HIV policies for the country».

The Diocese is Chinhoyi. Musariri is a member of the AFMM“Associazione Femminile Medico Missionaria” (Female Medical Missionary Association), within the “International Medical Association”. The organization was founded in Italy in 1954 by Adele Pignatelli – a doctor from Rome member of the Catholic Graduates Movement – with the support of Monsignor Giovanni Battista Montini, who then became Pope Paul VI. The members take the vows of obedience, poverty, chastity and missionary life. It was indeed a meeting with some AFMM’s women that triggered her journey.

picture kindly provided by Julia Musariri, commented by herself

«At the age of 17, I had never met a doctor in my life, only a nun nurse at the dispensary who knew how to perform many procedures. One day two Italian nurses arrived at our mission, just to polish their spoken English. I was told that they were going to “All Souls Mission Hospital” to work as nurses, because that is what they were – missionaries. They would be working with female doctors who were already there: Dr Luisa Maria Guidotti, Dr Mariaelena Pezzarezzi and Dr Maria Grazia Buggiani and Sr Caterina Savini, who was a nurse. They belonged to AFMM».

We are at the end of the 1960s, and our attention must focus on one name: Luisa Guidotti (Mistrali). From a family of old noble descent, Guidotti graduates in Medicine and specializes in Radiology; after joining AFMM she is sent to Rhodesia, now Zimbabwe. In 1965 the white minority in the country decided to unilaterally declare independence from the United Kingdom,  waging civil war in the country. Guidotti starts working at the “All Souls” Hospital in Mutoko, a rural area north-west of Harare, in 1969. Here, whilst she practices medicine, she raises funds amongst Italian friends and turns the hospital from a few huts into a functional brick walled facility.  

«This group of women, who wanted to give service to my people having left their comfortable homes, intrigued me. The two Marias eventually left for their mission and I lost track of them for a long time. I was an average student in Form Four then. Between 1972 and 1974 I trained as a primary school teacher at United College of Education. I completed my course with flying colours and I got a post for teaching at a mixed race school in Esigodini Matabeleland, where most pupils had a diverse history of harassment in their families. They were a special group of children, who played tricks with teachers. A coloured child – Heath was his name – kept annoying the rest of the class, and would say “who gave me the rudeness I have’ my black mother or my white father”. One day, the boy had pulled out pages from his and his neighbour’s homework book. I got rather angry; I punished him so harshly that afterwards he was very afraid even of just being near me. I regretted my impulsiveness. I asked for forgiveness, but that did not mend my relationship with the child. I then told myself that was not my profession».

The term “coloured” in Zimbabwe defines a particular racial category that was ‘in-between’ whites and blacks in economic, political and social terms. Being of mixed race, in the colonial culture, embodied the dreaded ‘miscegenation’ [1], defiance of racial boundaries that were at the core of colonial society. Until the beginning of the twenty first centuries, the ratio between white males and white females in the colony was three to one; there was therefore an evident problem in terms of sexual relationships, which soon became interracial, with black women often forced by white men to have sex with them.

In the racist eyes of colonial society, African women’s sexuality and its depraved nature lured white men, and the blame was therefore placed on the women, rather than on the predatory acts of the men who would use their power to coerce them. Being a coloured child, therefore, came with a lot of baggage; coloured children, especially in the past, could be seen as not belonging anywhere in society, too white to be ‘fully black’, and too black to be ‘fully white’. And Heath’s sentence perfectly condenses all of this in a few, accurate albeit caricatural words.

It must have been difficult for a young and inexperienced teacher like Musariri to deal with the complex underlying conflicts in that sort of class, which presented challenges that went well beyond any training she could have gotten as a teacher in those years.

«I always wanted to be a nurse, though my parents were not keen. They told me that “Uniforms are white and clean, but the work is very dirty. Besides, nurses are women who are morally depraved”. However, despite my parents’ opposition, I decided to make an application for training as a nurse».

We are in the middle of the civil war. In June 1976, Luisa Guidotti Mistrali gets arrested by the Rhodesian police for having treated a supposed wounded guerriglia fighter, and she risks being executed. She is then released, also thanks to significant pressure by the Vatican, and resumes her work at the All Souls. On the 6th of July 1979, on her way back from accompanying a pregnant woman with a complicated labour to the Nyadiri hospital, she is stopped at a roadblock at Lot and fatally wounded. In 1983 the All Souls was renamed after her, and the beatification process is in progress upon request of the Diocese of Harare.

«It was a tragedy. The poor people of Mutoko lost the only doctor who understood them and was serving them passionately. I resolved I wanted to be part of the AFMM, so that I could serve the sick like she did. “All Souls” was out of bounds, because of the war. Letters for Luisa were taken to Rome by the late Dr Elizabeth Tarira and Dr Rosalba Sangiorgi. As they looked through these letters, they found mine. Meanwhile, I had left teaching and had started training as a nurse at Harare Central Hospital, now Sally Mugabe Hospital, in September 1979, when I received their reply that only said “If you are still of the same mind you can come to Rome”. I resigned from the nursing school and left for Rome, though I had done very well in my exams at school of nursing. I opted to go to Rome to be a member of the AFMM in 1980, on the 3rd March. At home they were euphoric, everyone had voted for the first time and independence from Britain was on the doorstep». 

Musariri arrives at the San Giovanni in Laterano Hospital. Three months later she could understand and speak basic Italian.

«In Rome I met the foundress; she said she would have liked me to enter medical school, but I declined. So she sent me to nursing school. After three years, I passed with very good marks. In 1985 I went back to Zimbabwe to work at different mission hospitals; I briefly joined St Albert’s in 1985 before going to Chitsungo Mission Hospital. Working as a nurse gave me great satisfaction and fulfillment, but something was lacking, the ability to help mothers with complicated labour. I could not perform Caesarean sections and we had to transfer all complicated maternity cases to Harare Central Hospital. In 1992, just as I was about to go on annual leave, I was invited to Rome by Dr Adele. She suggested again I get into the Faculty of Medicine. This time I agreed. I was older than any of the other students at Tor Vergata University of Rome. I enrolled for the entrance examination. Among a thousand and more candidates, the university could only take 150; I checked on the result sheet on the notice board, I was 152. But some students renounced, so I was called and I could start training to become a woman doctor».

Were there challenges linked with being a woman? 

«In the past medicine was considered a career for males. In our patriarchal society it is still common to think that some professions are only for men; this included the medical one. However, meeting the women doctors of AFMM had a profound influence on me and led me to believe that women and men have equal opportunities. They spurred me on to face the difficulties of language, culture, long hours of travel to university, cold winters and hot humid summers. It was a life changing experience, it completely shifted my mindset. I would like the same to happen for many parents of daughters. Today I can educate young people to pursue their dreams – the sky cannot be the limit anymore,  we can go beyond. It is possible for women to outshine anybody».

Mashonaland Central, where St Albert’s operates, is a hotspot for Sexual & Gender Based Violence (SGBV). The Extended Analysis of Multiple Indicator Cluster Survey (MICS) 2014: Child Protection, Child Marriage and Attitudes towards Violence reported that Mashonaland Central had the highest percentage (50%) of women age 20-24 married before age 18.

Social and health services in the area are limited, and rates of school dropouts high. Education, particularly for girls, is not perceived as a priority as the girls’ role in the traditional culture is mainly a caregiving, subordinate one. Generalized poverty and food insecurity exacerbate the situation; children, especially girls, are  forced to drop out early as their families cannot afford school fees and often forced to work. Deep rooted cultural beliefs aggravate the already dire situation, with children’s wellbeing not being prioritized and often becoming victims of neglect and abuse.

CAFOD, the organization Eleonora works for, has been supporting St Albert’s for over 14 years, and it’s currently partnering with the hospital on the Putting Children First programme (now in its 4th phase of implementation), with funds from Caritas Australia and the Australian Government; the intervention focuses on enhancing child rights protection. One of the main objectives of the programme is to positively influence community and household behaviour, challenging harmful cultural and religious beliefs and practices (like early marriages) through widespread targeted capacity building and awareness raising on GBV, gender dynamics, positive parenting and disciplining methods alternative to corporal punishment, particularly of parents of young children, but also of community members at large. Households are also encouraged to use the income to keep their children in school, especially girls, who are the first ones to drop out because of early pregnancies, but also as soon as school fees money becomes difficult to find. 

For a girl in Zimbabwe, especially in this area, where sometimes people struggle to have more than one meal a day, getting to her 18th birthday without having gotten pregnant and having completed her secondary school cycle is already an achievement.

picture kindly provided by Julia Musariri, commented by herself

How was the experience of studying Medicine in Italy? 

«I entered medical school at the age of 29 years. Ten years older than any other student, youngsters who had just come out of high school. It is no wonder they would ask me where I had been, being that old. Italians are patient with those who learn their language. The first friend I made was called Sonia, a red haired and freckled girl, outgoing and very helpful. She introduced me to her 5 friends, Flavia, two Monicas and two Robertas; they adopted me in their group and always shared their notes with me. I did not feel the dreaded isolation and segregation. I worked hard to get my degree in the 6 years required. I was an average student, but that did not worry me. The important thing for me was being able to go back and give service to the many women and children who had never passed through the hands of a doctor in the missions. I thought that if gifted young people like Luisa Guidotti, from a well to do family, could leave all her comforts to come to rural Zimbabwe to take care of our sick people, why could I not do the same? I graduated on the 13th of April 2001. I returned to Zimbabwe to do an internship at Harare Central Hospital. After I completed my two years, I was posted to St Albert’s Mission Hospital».

picture of the graduation kindly provided by Julia Musariri

Here, finally, Musariri is a woman doctor.

«I was now giving medical service. I could perform surgery, especially Caesarean sections. I no longer needed to transfer patients who had complications of labour to Harare. Dr Neela Naha, a gynecologist and obstetrician, also mentored me to handle complex cases. Some colleagues, whilst I was in Italy, had advised me to get married in Italy, get Italian citizenship and stay there. But the truth is I would not exchange what I have been able to do with anything else. I am still at St Albert’s Mission Hospital, doing Out Patients consultations, while the young doctors do the surgeries and all the other work. The Diocese requested me to be its Chinhoyi diocese’s hospitals coordinator as well as being the Medical Superintendent of St Albert’s».

St Albert’s Mission Hospital opened in 1964 and was run by Dominican nun nurses; it initially had 85 beds; in 1985 it became a district hospital, and now has 140 beds. Serving an area of about 134 295 people, every year it admits about 5,000 patients, treats about 40,000 outpatients and delivers about 2,600 babies, in spite of the limited technology available. Moreover, the hospital provides antiretroviral drugs, conducts a home-based care programme to help families care for loved ones with disabilities and chronic illnesses (especially HIV) and pays school fees for hundreds of orphans. In response to the ever increasing economic crisis and subsequent food insecurity, in 2000 the hospital started a farming project (goats, chicken and pigs) to provide nutritious food for hospital patients and, with the sale of the surplus, pay the farm workers.

Your work must have been really challenging given the harsh economic and political context. 

«As doctors, we need all the tools of the trade to provide the best solution for the sick. But when I look at our hospital, I get discouraged and disheartened, because the tools of trade are obsolete. My collaborators and colleagues would like to go digital in all spheres: Operation theatre, Radiology, Patient register, laboratory, laundry machines etc etc. But then I see the laundry, with the washing machine and iron roller that don’t even work anymore; the anesthetic machine that the surgeon is constantly complaining about; the mortuary that cannot even manage to keep the bodies cold. The list is endless. The many well wishers we had in the early 2000 for HIV/AIDS programme have switched to other districts; the AFMM has elderly doctors who need care and are unable to fundraise like they did in the past. So we continue to use what any well meaning young doctor would rather not, because the resources do not allow us to acquire new ones. Sadly, we have relied heavily on external donor funding, facilitated by the fact that we had some expatriate missionaries in AFMM working with us who could raise awareness and support St Albert’s cause. Their relatives and friends would fundraise for their work. That is why we still have the machines they bought in the 1990s».

And COVID must have complicated things even further.

«The most immediate effect was a significant reduction of patient flow, particularly pregnant women, and a consequent increase of home deliveries, with all related risks that they entail. We had to close the outpatient department to make room for a small COVID isolation ward, with four beds. The Family Child Health and OutPatients Department now share rooms for consultation. Personal Protective Equipment, including masks, gloves and aprons have been inadequate and insufficient; however we try to continue giving our service».

St Albert’s seems to have a special focus on women’s health (maternal health, cervical and breast cancer screening). Is it a deliberate, strategic choice?

«After Dr Elizabeth Tarira and Dr Neela noted the prevalence of complicated labour outcomes, they came up with the idea of improving maternal health. They built a mother’s waiting home, which accommodated 45 pregnant women, but they had to extend it to the capacity of 105 pregnant women. Women could come and stay near the hospital in the last 2 to 3 weeks of their pregnancies (in order to avoid last minute transport issues ed), for speedy assistance and have timely surgical intervention in time to ensure the wellbeing of both mother and baby. In the district of Centenary there were young women living with HIV and pregnant, vescico-vaginal fistulas, advanced cervical and breast cancers; interventions were needed for all these conditions. Prevention of Mother To Child Transmission was introduced by Dr Tarira with the help of the Italian NGO Cesvi from Bergamo, using single dose Nevirapine (used to treat HIV patients, ed). Takunda, the first baby whose mother volunteered to take the Nevirapine was born Negative; he is now 20 years old. That is an incredible milestone for St Albert’s. The triple therapy for the positive women was introduced in 2004 and we then introduced treatment of their male partners too.Dr Neela did screening of cervical cancer through Visual Inspection with acetic acid (VIA); we have now added a micro-camera with the help of Mr Darrell Ward and Dr Lowell Schnipper from Better Healthcare for Africa – this was a significant a step ahead. Today cervical cancer and breast cancer screening  programmes have been rolled out to all districts by the government».

The story of Takunda (‘born free’ in shona, the most common bantu language in the country) can be read here: On the children’s side – Cesvi Onlus – Cooperazione e Sviluppo. In 2001 Cesvi had just started working to fight AIDS in Zimbabwe, one of the most stricken countries. At the time one in three women was HIV-positive, and generally had very scarce chances of survival. Cesvi started the Nevirapine pharmacological trials. Takunda’s mother received treatment and counselling. On May 9th 2001 Takunda was born free of AIDS. [2]

Have you ever thought of leaving?

«My work as a Mission Hospital Doctor in rural Zimbabwe gave me great satisfaction. I feel that God is in it. Otherwise I would have been one of the many women of my age who got married at very young ages and achieved nothing with their primary or secondary education. I also am indebted to my parents who sacrificed a lot of their time and money in order to make a difference with their 13 children. In my retirement I wanted to turn to farming. I have started a poultry project for eggs, a fish project, a goat rearing project, revived the piggery and planted an area of near hectare with caster beans for sale, in order to get some much needed funds for the hospital. The projects are at the start but I am optimistic about them».

In Zimbabwe state pensions are negligible; in most cases they are far from being sufficient to cover basic cost of living, in a country with rampant inflation. It’s very common for people to rely on small sources of extra income like small livestock rearing. That provides valuable additions to their diet (with eggs, chicken meat, goat meat and milk – which is very nutritious) as well as enabling them to sell (or exchange) the surplus and earn something. 

Julia Musariri at work: picture kindly provided by St Albert Hospital

You operate daily in a very complex context; which, in your view as a front-line worker, are the main challenges that should be prioritized for resolution? And that, once resolved, would cascade positive results in other areas? 

«I personally think if we empower the girl child, we will have gone a long way. Girls of today will be the mothers of tomorrow, in charge of children’s education. They will also be the professional women of the future. It is painful to see young girls becoming mothers due to diverse circumstances. Child rights, particularly the girl child, are a crucial pivot towards achieving the emancipation of the African (Zimbabwean) woman». 

If you had the opportunity to let the world know something about your job, what would that something be? Is there a small project that we can contribute to achieving?

«A project that has potential for income generation and sustainability would be an expansion of the current fish project or the poultry project, where we can market the proceeds – eggs and fish – and, with the money, we can meet some of the expenses we are failing to meet today. The fish and poultry are doing well and promising to be helpful. We want to be self-sufficient. On the medical side, we are in need of a modern multi-parameter patient monitor for our operation theatre, especially for C-sections».

Donations can be sent to the bank account:
Stanbic – Minerva Branch
account number 9140001107576
BIC-code: SBICZWHX
or through Better Healthcare for Africa:
Donate to BHA – Better Healthcare for Africa
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[1]
The Chronicle, 12th February 2000
‘Joshua Cohen walks down memory lane’, Parade, August 1999.
Robert J.C. Young, Colonial Desire: Hybridity in Theory, Culture and Race, (Rutledge, London, 1995, p. 5)

[2]
On the children’s side – Cesvi Onlus – Cooperazione e Sviluppo
Mother and child | World news | The Guardian

“Women in Zimbabwe”: cinque storie a partire da un’amicizia

Eleonora Aralla è una donna bellissima, di una bellezza come la intendo io, al di là di ogni stereotipo, fatta di corpo e mente, personalità, verve, orgoglio, capacità di azione e reazione, decisione e responsabilità. Ve la presento perché, attraverso la relazione tra noi, posso parlarvi di un Paese che non è nell’agenda dell’informazione quotidiana ma che meriterebbe d’esserlo: lo Zimbabwe.

Ex colonia britannica, si trova nell’Africa del Sud, al confine con il Mozambico e il Sudafrica, i suoi parchi conservano una natura straordinaria e sotto l’ufficiale dicitura “Repubblica” [non] si nasconde una dittatura durissima. Nei giorni in cui scrivo questo post, cercando notizie su Google, compaiono “Uomo divorato dopo essere stato aggredito in casa da branco di iene”, “Grave incidente in una miniera”, “Appello dei vescovi a riconciliazione e unità” e, sul sito di Amnesty international, “Authorities must use bail hearing to release journalist Hopewell Chin’ono”.

In shona (o meglio, nel dialetto karanga), lingua bantu tra le più diffuse nel Paese, Dzimba-dza-mabwe vuol dire “casa di pietra”; le spettacolari Victoria Falls segnano il confine tra Zambia e Zimbabwe; sono zim i genitori di Danai Gurira, attrice in “The Walking Dead”; alcune scene di “Cacciatore bianco, cuore nero” di Clint Eastwood sono state girate sul lago Kariba in Zimbabwe. Per dire.

Torno adesso a Eleonora.

Quando mi parlano male di Facebook, penso a cose come quella successa tra me e lei. Facciamo un salto indietro, al 2017, quando poco prima che nascesse mio figlio Giovanni mi imbatto un questo post del sindaco della mia città:

Un dubbio, un ricordo, due ricerche, e capisco che quella cittadina è lei. Perché anni prima, non so come, avevo scovato il suo blog “la chica con la maleta” (“la ragazza con la valigia”, adesso non è più visibile), e mi era piaciuto molto. Ma soprattutto perché, ancora prima, nei miei primi anni di lavoro, quando alcune colleghe giornaliste mi chiamavano affettuosamente “pulciotta”, l’avevo conosciuta di persona, femminista all’università, a Lecce, in tempi in cui non se ne parlava un granché. Almeno, non nei termini di oggi, così diffusi e semplici, come istanze che meritano l’attenzione generale. Stiamo parlando dei primi anni Duemila. Insomma, da lì il nuovo contatto su Facebook e i discorsi sulla linea Lecce – Harare (hanno lo stesso fuso orario) a proposito di figli e di libri, di politica e, a un certo punto, anche di Africa. Ecco, Eleonora è una delle donne che mi ha costretta a esprimermi come si deve quando si parla di Africa. L’Africa è un continente, un continente immenso a cui dobbiamo molto del nostro benessere. E quando si parla di Africa bisogna esprimersi bene, in modo preciso.

Dopo la laurea in Lettere con una tesi in Filosofia politica su “Diritti umani e giustizia senza frontiere”, un master in Sviluppo sostenibile, vari corsi su monitoraggio e valutazione, politiche di genere e sviluppo, la scelta. Come? Perché?

«Fremevo per andare a mettere in pratica quello che avevo imparato, volevo conoscere una cultura diversa, spostare il mio punto di vista sulla realtà e imparare qualcosa su me stessa e sul mondo che mi circondava. Più o meno a 17 anni, mi era capitato di leggere di Marianela Garcia Villas, “avvocata dei poveri, dei malati, dei lontani”, che scoprii molti anni dopo essere un simbolo della lotta agli abusi del governo in El Salvador. Quella donna, dalla storia tristemente tragica, è rimasta la mia ispirazione. Quando si è trattato di scegliere una destinazione, lo Zimbabwe è sembrato “naturale”: è il paese d’origine di quello che poi è diventato mio marito, che è zimba-inglese e che ormai è italiano d’adozione, oltreché di passaporto. E poi è un paese che, per chi si occupa di cooperazione, offre condizioni di vita adatte alla famiglia, un family posting, in gergo, perché ha livelli di rischio sanitari e sociali relativamente bassi rispetto a paesi come l’Afghanistan o il Sudan. Sono in Zimbabwe dal 2011 e ci rimango anche perché è un Paese che regala a me e alla mia famiglia, tra le altre cose, il privilegio della prospettiva».

E che cos’è il “privilegio della prospettiva”?

«La possibilità quotidiana di apprezzare l’essenziale, di vivere un’esistenza “semplificata”. In Zimbabwe non ci sono centri commerciali né arriva Amazon, al supermercato si trovano – per esempio – solo due tipi di yogurt, o di latte, o di formaggio. A volte, per settimane, non si trovano la farina o il pane (per chi, come noi, se li può permettere), allora si mangia più riso, patate, polenta, uova, quello che si trova. A volte manca l’acqua, una volta siamo stati 18 giorni senza elettricità perché è esploso un trasformatore. Nessuno ne fa una tragedia. Queste “scomodità”, che vivo appunto come un’opportunità, sono ripagate da spazi ampi e verdissimi, animali di ogni tipo che vengono a visitare il nostro giardino, come le blue headed lizards e i turacos (specie di lucertole e uccelli, ndr), da miriadi di stelle vicinissime che ti sovrastano mentre la notte africana ti avvolge, e ti ricordano quanto poche, semplici cose siano quelle che contano, e quanto noi essere umani siamo precari ospiti di passaggio».

In Zimbabwe lavori per il Cafod, definita ufficialmente “the Catholic international development charity in England and Wales”. In cosa consiste il tuo lavoro per l’organizzazione?

«Io faccio l’“operatrice umanitaria”, questa è la definizione corretta, non sono una volontaria e non mi piace “cooperante”. La gente in genere pensa che questo lavoro consista nello scaricare sacchi di grano o scavare pozzi a mani nude, mentre in realtà il lavoro umanitario e di cooperazione allo sviluppo è fatto di una miriade di stratificazioni. Ipersemplificando, lavoro all’intersezione tra la programmazione strategica dei donatori (UE, ONU, agenzie nazionali di cooperazione) e le visioni/programmi delle varie organizzazioni no-profit, internazionali e locali dei paesi in via di sviluppo. In questo momento mi occupo di supportare i ‘team di programma’ dei vari settori (agricoltura, wash che sta per water sanitation and hygiene, protezione sociale, diritti dell’infanzia) nell’identificare fonti di finanziamento istituzionale, coordinare il disegno e la scrittura delle proposte, assicurarsi che vengano rispettati tutti gli standard di qualità (da quelli finanziari a quelli sulla salvaguardia del benessere dei beneficiari) e le regole contrattuali (pena la perdita dei fondi). Mi occupo anche di rafforzare le competenze dei partner locali con cui la mia organizzazione lavora in termini di mobilitazione di risorse, scrittura di proposte di progetto, gestione delle sovvenzioni, in modo che, con il tempo, siano in grado di accedere ai fondi e di gestirli autonomamente, senza il nostro aiuto».

Scusa se banalizzo: fammi un esempio di giornata tipo.

«Arrivo in ufficio dopo aver evitato buche grandi quanto crateri, commuter omnibus (una sorta di piccoli autobus, ndr) gremiti di gente e che corrono come schegge, biciclette sgangherate, orde di bambini in uniforme sul ciglio della strada, venditori di piccoli lavori di artigianato, bambini che chiedono l’elemosina. Mi siedo e passo un sacco di tempo al computer. Leggo le mail, controllo scadenze, guardo il calendario. Abbiamo ricevuto una sovvenzione da UNICEF per un progetto di fornitura di acqua nelle scuole! Bene, faremo un workshop di lancio del progetto assieme ai partner, in cui io mi occuperò di familiarizzare il nostro team e quello del partner locale con i regolamenti e gli standard del donatore, assicurandomi che tutti abbiano chiara la logica e i contenuti della nostra proposta per poterla poi tradurre nella pratica sul campo, per far diventare le parole scritte su un foglio un’attività di scavo di un pozzo, un training su igiene e salute mestruale, una campagna di advocacy… A fine workshop, si torna a casa dai miei bambini».

Tutto questo in un contesto politicamente complesso. Che però non mi pare apparire di frequente nell’agenda dell’informazione internazionale.

«Nella geopolitica globale lo Zimbabwe non è una priorità strategica, né politica né economica».

Solo per fare due esempi, oltre al caso del giornalista citato sul sito di Amnesty, Hopewell Chin’ono, val la pena di leggere questa intervista di Al Jazeera alla scrittrice Tsitsi Dangarembga: https://www.aljazeera.com/features/2020/11/16/qa-tsitsi-dangarembga (e gli articoli correlati proposti).

Vogliamo entrare nel merito delle emergenze umanitarie?

«La crisi finanziaria è dilagante, con la valuta locale che continua a svalutarsi esponenzialmente gettando i lavoratori del settore pubblico di fatto nella povertà e facendo praticamente scomparire la classe media. Il cambiamento climatico sta esacerbando condizioni ambientali già difficili (soprattutto in alcune province del paese), con ricorrenti periodi di siccità, inondazioni e cicloni. Una stagione delle piogge sempre più erratica ha stravolto i pattern di coltivazione e raccolto, lasciando milioni di famiglie in balia dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione. Spesso i bambini, che percorrono anche svariati chilometri per raggiungere le scuole, svengono per strada perché, semplicemente, non mangiano a sufficienza. Sono frequenti gli abusi sui bambini e la violenza di genere, le gravidanze di bambine di dieci, dodici anni sono all’ordine del giorno. Il sistema sanitario è già ben oltre il collasso: negli ospedali pubblici manca tutto, dal paracetamolo alle cannule per le flebo, per non parlare di acqua potabile ed elettricità; i medici sono in sciopero quasi costante. Anche il settore dell’educazione è allo stremo, con gli insegnanti in sciopero da mesi e il livello di istruzione che si abbassa sempre di più».

Con conseguenze ancora più gravi per le donne.

«Come sempre. Ti faccio un esempio pratico. In Zimbabwe spesso le ragazze non hanno accesso agli assorbenti, di nessun tipo. Quando anche riuscissero ad averne, magari grazie al supporto di ONG o di agenzie delle Nazioni Unite, c’è il problema della biancheria intima: non ne hanno. Andiamo oltre e facciamo il caso della coppetta mestruale. Poniamo che ne fossero fornite. Beh, non hanno accesso all’acqua corrente, né a casa né a scuola. Il risultato è che, in media, perdono quattro, cinque giorni di scuola al mese, cosa che spesso aumenta l’abbandono scolare, e poi matrimoni, gravidanze e prostituzione in età molto giovane. In questo scenario, organizzazioni come la mia lavorano per supportare le categorie vulnerabili, fornire strumenti per generare ingressi finanziari e mezzi di sostentamento, ma ovviamente non basta. Penso che le donne e gli uomini dello Zimbabwe siano un esempio di tenacia ma, forse, anche di rassegnazione».

Come si lavora da non cattolica in un’organizzazione che lo è per statuto?

«Il Cafod è diretta espressione del cattolicesimo sociale, missionario e… progressista, che è l’ambiente in cui mi sono formata e che ha ispirato la mia scelta quando ero un’adolescente. Anche se non sono più cattolica, condivido i valori di solidarietà, dignità e compassione che ispirano l’operato del Cafod. L’organizzazione non fa proselitismo e non impone la propria visione né ai propri impiegati – ho colleghi di tutte le fedi – né tantomeno ai beneficiari degli interventi. I nostri partner d’elezione sono le Caritas locali, che hanno il vantaggio di essere in contatto capillare e continuativo con le comunità locali e di poter lavorare in contesti politicamente difficili, ma lavoriamo anche con moltissimi partner secolari nelle più svariate aree programmatiche».

Da qualche mese sei tornata a Lecce, causa Covid.

«A fine marzo l’epidemia era scoppiata in Sudafrica e si prevedeva raggiungesse anche lo Zimbabwe. Gli esiti sarebbero stati devastanti, data la situazione sanitaria cui abbiamo accennato. Tutti i paesi del globo stavano cancellando i voli internazionali e così, assieme al Dipartimento di Sicurezza della mia organizzazione, abbiamo deciso di farci evacuare in via preventiva. Siamo saliti sull’ultimo volo che ha lasciato Harare prima che chiudessero tutto. Fortunatamente, e per ragioni che sono ancora parzialmente sconosciute anche agli addetti ai lavori, il Covid ha “risparmiato” l’Africa, o comunque l’ha colpita con molta meno violenza. È per questo che a fine anno torniamo a casa, nella speranza di poter riprendere, più o meno, la nostra vita di sempre».

Come è cambiata in questi anni la tua posizione politica?

«Negli anni dell’università, quand’ero nel comitato pari opportunità di un’associazione studentesca, non mi sarei forse nemmeno definitiva femminista. La parola femminismo faceva storcere nasi, noi cercavamo di rendere la questione di genere “accettabile” al pubblico degli studenti e anche di molte studentesse per le quali – ricordo bene – “non esistevano più” discriminazioni. E poi il mio attivismo era abbastanza improvvisato, di pancia, basato su mie esperienze dirette di discriminazioni e violenze subite, oltre che su un anelito più ampio di giustizia per la “categoria” a cui appartenevo. La mia vita professionale mi ha portata in quello che io pensavo fosse un “altrove”, salvo rendermi conto che la questione di genere è cruciale nel lavoro che faccio. E così adesso mi definisco femminista, ma in divenire. Studio e soprattutto imparo sul campo, in un contesto lontano dalla cultura occidentale dominante nel quale ho a che fare con persone di tutte le provenienze, geografiche e culturali».

Sei una delle persone giuste, credo, per parlare degli intrecci tra razzismo e femminismo.

«Il femminismo non può esimersi dal fare i conti con le disuguaglianze che si intersecano nelle esistenze di donne con diverse identità sociali e culturali. Per citare Kimberlé Williams Crenshaw, le disuguaglianze legate al colore della pelle non sono slegate da altre che riguardano la classe sociale o l’orientamento sessuale, e tutte queste non sono “solo la somma di tutte le parti”. Il vissuto personale di ognuna conta. Ecco perché, per me, il femminismo deve essere intersezionale. Come dice Fannie Lou Hamer, attivista di colore per diritti civili e delle donne, “Nessuno/a è libero/a finché tutti/e sono liberi/e”. È una visione molto vicina al mio sentire e alla mia esperienza. È fondamentale anche fare attenzione al modo in cui si affrontano certe questioni e si propongono “soluzioni”. Bisogna valutare accuratamente il contesto culturale in cui si opera, riconoscere posizioni diverse e fare attenzione a non ricadere nello stereotipo del white saviour. Le questioni di genere vanno affrontate nei diversi contesti e nel quadro delle diverse discriminazioni che si intersecano. Non ci sono “donne indifese” che vanno “salvate”, ma donne che sono al centro di un discorso, delle quali rispettare la cultura e valorizzare i punti di forza».

Coscienti d’essere in una posizione di privilegio, con “Women in Zimbabwe” (da gennaio 2021) io ed Eleonora abbiamo deciso di raccontare qualcosa di più delle donne che vivono e lavorano in Zimbabwe a partire da cinque storie che riteniamo significative. Alla fine di ogni storia, cercheremo di spiegare cosa possiamo fare e proporre modi per farlo. Perché possiamo dare un senso nuovo al nostro privilegio.

sputare [sempre meglio] su Hegel

“La differenza per le donne sono millenni di assenza dalla storia” è una citazione tratta da “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi, un classico [femminista. Lo metto tra parentesi perché è – o dovrebbe essere – un classico e basta. È del 1970]. Nella premessa al volume che contiene questo e altri testi, firmati da Lonzi personalmente o collettivamente con le donne di Rivolta Femminile, l’autrice spiega di averlo scritto perché

rimasta molto turbata constatando che quasi la totalità delle femministe italiane dava più credito alla lotta di classe che alla loro stessa oppressione.

Questa citazione è una di quelle inserite tra le luminarie allestite per la sfilata cruise di Dior: l’altro giorno milioni di persone in tutto il mondo l’hanno vista online in diretta da Lecce, la città dove vivo. Questo il video integrale.

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Dior Cruise 2021 show from Maria Grazia Chiuri in Lecce (Puglia, Italy).

Due [ovvie, ma non si sa mai] precisazioni, prima di continuare:

  1. Tutto quello che scriverò non vuole essere un’esegesi della performance collettiva orchestrata dalla direttrice creativa della maison francese, Maria Grazia Chiuri. Si tratta di mie opinioni e interpretazioni. Personali. Che nascono dall’interesse per quest’artista.
  2. Cercherò di procedere, come posso e come riesco, integrando in modo chiaro alle valutazioni generali alcuni riferimenti particolari, cioè che hanno a che vedere con il Salento. Perché ci vivo, quindi inevitabilmente la mia storia personale influenza la mia percezione.

Cominciamo.

Le modelle che hanno indossato gli abiti della collezione cruise 2021 ideati da Maria Grazia Chiuri [la quale, nell’incontro con la stampa che ho potuto seguire, ha tra l’altro chiarito di lavorare con un ufficio stile di 80 persone, oltre che ovviamente all’interno di una più complessa organizzazione aziendale], hanno sfilato in piazza Duomo. È chiusa su tre lati. Oltre all’ingresso principale, chi la conosce sa che un’altra “via di fuga” è solo attraversando la cattedrale. Bisogna entrarci e, inevitabilmente, passare “davanti” all’altare. La piazza è stata allestita come in una delle feste delle nostre, quelle dei santi patroni, circondata da luminarie e con, al centro, una cassa armonica, un palchetto anch’esso con luminarie dove ancora si esibiscono le “bande”. Dietro le luminarie i “monumenti” non scomparivano, si vedevano bene – tra l’altro – la sommità della facciata laterale del duomo con lo stemma della curia e, dietro la citazione di Lonzi, il “seminario vecchio”, come lo chiamiamo [ce n’è un altro “nuovo”, in periferia].

Per la progettazione di questo set, Chiuri ha coinvolto l’artista femminista Marinella Senatore. La sua viene definitiva giustamente “pratica artistica”, anche perché coinvolge “intere comunità intorno a tematiche sociali e questioni urbane quali l’emancipazione e l’uguaglianza, i sistemi di aggregazione e le condizioni dei lavoratori”. In un’intervista ad Artribune del novembre 2019 (questa: https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2019/11/intervista-marinella-senatore-stati-uniti/), Senatore spiega secondo me molto bene come lavora, cos’è la sua “School of Narrative Dance” e perché usa il termine “processione” per definire le sue performance.

Il che ci riporta alla sfilata, alla “processione” di modelle e alla danza che l’accompagnava [con il corpo di ballo della Fondazione La Notte della Taranta sulle note dell’orchestra diretta dall’attuale maestro concertatore Paolo Buonvino]. La coreografia – un mix ispirato alla pizzica, alla pizzica tarantata, alla danza delle spade – è stata curata da Sharon Eyal. Certo, forse è apparsa un po’ troppo sofferente, ma d’altra parte Chiuri ha detto chiaramente di aver studiato e fatto riferimento a “La terra del rimorso” di Ernesto De Martino, che è di fatto l’origine di tutto il “recupero” di questa “tradizione” per la quale il Salento è oramai piuttosto conosciuto [non solo in Italia]. Una donna a cui ho voluto un gran bene, purtroppo morta troppo giovane, mi diceva sempre che ballare la pizzica era per lei liberatorio. Liberatorio. Stiamo parlando della fine degli anni Novanta del Novecento, e non era stata morsa da alcun ragno, ovviamente.

Negli abiti erano evidenti i riferimenti ai colori, alle forme, ai manufatti, agli usi tipici di un territorio che, lo ricordo, è quello di origine del padre di Chiuri [che era di Tricase, ed è poi emigrato molto giovane]. Uno degli accessori che ha colpito di più è stato il fazzoletto ricamato usato a mo’ di copricapo, una reinterpretazione di qualcosa che personalmente ho visto solo in vecchie foto ma che amiche mi hanno detto di ricordare addosso alle proprie nonne. E ancora, diversi abiti sono stati realizzati con le stoffe che hanno intessuto le tessitrici della Fondazione Le Costantine [il cui motto, amando e cantando, è finito sul retro di alcune gonne], altri avevano dettagli realizzati al tombolo [è stata coinvolta la “nostra” Marilena Sparasci], i fiori di altri ancora non erano i classici dei “giardini Dior” ma quelli che si vedono nelle nostre campagne e spesso lungo le nostre strade.

Nel nostro incontro, Chiuri ha rivelato tra le altre cose che, pur di realizzare un abito che avesse delle rose realizzate al tombolo, sarebbe stata disposta a sacrificare qualcuno dei pezzi che fanno parte del suo “corredo”, e che con questo stile vorrebbe progettare l’abito da sposa di sua figlia. Sua figlia si chiama Rachele Regini, è dottoranda in gender studies e lavora con lei per “studiare come incorporare le sue idee sul femminismo e le donne all’interno delle collezioni e della sua visione del brand”. Parole sue, traduzione mia. Qui sotto il video in cui lo spiega.

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Ma soprattutto in quell’incontro Chiuri ha detto che ciò che viene realizzato al telaio o al tombolo [come pure le luminarie, ma in un altro contesto], va considerato una “espressione artistica”, non un “lavoro domestico femminile”. Non siamo davanti a qualcosa di originale. La mia non è una critica, anzi sto dicendo che secondo me la direttrice creativa di Dior conosce molto bene chi è, da dove viene e il suo personale/politico, e che ha studiato. Questo svilimento dei domestic handicrafts è già stato ampiamente denunciato dalle artiste e studiato dalla storia dell’arte.

https://www.instagram.com/p/CCYOsx5Kdlm/

Sono stata un po’ lunga. Scusate. Giungo a conclusione [tralasciando altri dettagli].

Io credo che Maria Grazia Chiuri sappia sputare su Hegel, che lo sappia fare molto bene, che sia se stessa e che usi liberamente gli strumenti che ha. E parlo di mezzi economici ma non solo.

I “corredi”, quelli che tante di noi hanno ancora, potremmo usarli per farci abiti di ottima qualità ed eterni. Gli orecchini e altri gioielli indossati dalle modelle, ispirati a pezzi custoditi nel museo MArTA di Taranto, ce li potremmo costruire, lo fanno già alcune giovani artiste che conosco. Chiunque di noi può essere una “guerriera saracena” – come hanno definito il “modello” ideato da Chiuri per questa collezione – indossando lunghe gonne e corsetti che non stringono più, stivali e sandali, capotti che ci possiamo dipingere da sole, ma soprattutto usando la nostra arte. Agendo. Appropriandoci del nostro passato [in senso collettivo, di donne]. Lavorando per affermare la nostra idea di mondo, condividendola con donne e uomini che la pensano come noi e occupando – con “leggerezza” [so che posso evitare di precisare l’accezione in cui uso la parola] – i luoghi del patriarcato.

Chiuri lo fa nel suo lavoro. Lo ha fatto a Lecce come lo aveva fatto in altri luoghi e contesti. E il marketing fa parte del suo lavoro [del lavoro di Dior], è una leva per vendere. Trentamila lampadine sulle luminarie, Giuliano Sangiorni che canta Modugno e il video di Winspeare col pasticciotto fanno parte di questa leva, in una dimensione globale in cui bisognava anche “giocare” con l’immagine dell’Italia, della Puglia e del Salento. E questo gioco servirà anche, ne sono più che certa, all’economia dell’Italia, della Puglia e del Salento.

[inciso] Il paragone è azzardato, ma pure io quando ho ideato “messinscena d’affanni” e ho coinvolto artiste/i che apprezzavo, volevo [anche] vendere i miei libri. E ne avrei venduti volentieri molti di più, naturalmente! [sto ridendo].

Può piacere o meno, quel che personalmente trovo interessante è che Chiuri sia un’artista femminista che si muove molto bene nello spazio che si è conquistata. Una donna che non chiede il permesso, che non chiede scusa, che non si sente in colpa, che non vuole piacere per forza, che progetta le sue opere avendo un’idea forte di sorellanza e amando la sua storia, personale e collettiva, e puntando sulla bellezza che molte/i di noi condividono.

Il “progetto” della sfilata mi è piaciuto per questo. Mi è piaciuto molto. Per farla breve, per un messaggio che sintetizzo così:

Amiche mie!, sputiamo [sempre meglio] su Hegel. Be brave, stay feminist and never give up!


La foto di Maria Grazia Chiuri è mia, gliel’ho scattata nel corso dell’incontro con la stampa a Lecce, il 21 luglio 2020.

ogni sbaglio è un nuovo pinto

Ero all’incontro con la stampa nel quale Chiuri – presente il sindaco Carlo Salvemini – ha raccontato il suo “progetto”, non una semplice presentazione d’abiti, né un “evento”, piuttosto una performance che anche questa volta è “collettiva”: potremo vederla domani online (la sfilata è “chiusa” per le ovvie misure anti-Covid), alle 20.45 in diretta da Piazza Duomo (link: https://www.dior.com/it_it/moda-donna/sfilate-pret-a-porter/collezione-cruise-2021). Credo che l’incontro fosse stato organizzato per “chiarire” alcune “questioni” che in questi giorni hanno tanto… appassionato alcuni mei conterranei. Tipo: le luminarie stanno bene in piazza Duomo?, una sfilata di moda non offende Dio in piazza Duomo? E altre faccende del genere, nelle quali non mi addentro perché Chiuri e questa sfilata mi interessano per altri motivi.

Da quando è in Dior, seguo con interesse il lavoro di Chiuri, ma la moda c’entra poco. C’entra invece il gusto di rintracciare i suoi riferimenti – quali artiste cita, quali coinvolge, o approfondire le sue iniziative – un talk sul femminismo o un progetto per lo sviluppo locale, nel contesto di un lavoro che ha una ribalta mondiale e che parla di femminismo come fosse la cosa più naturale del mondo. Roba che – converrete – per un’italiana (intendo: io) non è una banalità. Dopo la famosa maglietta con la scritta “We Should All Be Feminists” che citava Chimamanda Ngozi Adichie, mi ha letteralmente conquistata lavorando con Judy Chicago.

A Lecce, per la cruise, ha coinvolto l’artista femminista Marinella Senatore, alla quale ha fornito, più che un set, un palcoscenico: viene definita a multidisciplinary artist whose practice is characterized by a strong participatory dimension and a constant dialogue between history, popular culture and social structures. E in questa dimensione di partecipazione sono entrate le luminarie dei fratelli Parisi, i tessuti realizzati dalle tessitrici della Fondazione Le Costantine e la perizia al tombolo di Marilena Sparasci, l’orchestra e il corpo di ballo de La Notte della Taranta assieme all’attuale maestro concertatore Paolo Buonvino e molto altro di cui pian piano vi racconterò. In un video firmato dal regista Edoardo Winspeare, da poche ore pubblicato sui canali social di Dior, un mega spot della città (dell’altro mega spot firmato Chiara Ferragni parlerò poi, promesso).

Nell’incontro Chiuri ha parlato di sé con grande emozione: di suo padre, sua madre e sua figlia, di una zia che – guarda caso – lavorava nel castello dei Winspeare a Depressa (una frazione di Tricase, dove il regista vive ancora), della gratitudine che prova per aver potuto imparare il mestiere a contatto con i fondatori delle aziende di moda – le sorelle Fendi e Valentino, e di quella per Dior che l’appoggia nel suo percorso, della sorpresa della stampa per il suo incarico francese, della bellezza e dei talenti dell’Italia che desidera promuovere e valorizzare. Tutte cose che, in qualche modo, troveranno sintesi nella sfilata di domani, per la quale ha ringraziato della collaborazione tante delle persone coinvolte. A cominciare dal sindaco e dal vescovo. Il sindaco. E il vescovo.

“La sua narrazione femminista sfilerà di fatto nel cuore del patriarcato. Lo ha fatto apposta?”, le ho chiesto. Ha sorriso e mi ha risposto di no. Mi ha risposto che – come io stessa avevo premesso alla domanda – essere femminista per lei è “naturale” (sintesi mia): per i suoi genitori era “solo Maria Grazia”, e il femminismo inteso nella sua dimensione internazionale farà il bene dei nostri figli.

Ogni sbaglio è un nuovo pinto, aveva citato qualche minuto prima parlando della tessitura al telaio: alle Costantine le hanno fatto notare che ogni errore è un nuovo punto da cui partire, e dal quale magari potrà venir fuori un disegno originale e inaspettato. Un’idea che mi piace condividere, assieme alla descrizione di quest’altra scena: mentre le campane di sant’Irene interrompevano l’incontro e qualcuno quasi se ne scusava (eravamo nel chiostro dei Teatini, proprio accanto alla chiesa), Chiuri alzava gli occhi al cielo e sorrideva commossa.

E ora vediamo che succede domani.

Nelle foto (mie), alcuni momenti dell’incontro con la stampa.
Il profilo IG di Maria Grazia Chiuri: https://www.instagram.com/mariagraziachiuri/

una carota bellamente intagliata. sul Leonardo in cucina di Maurizio Raselli

Le curiosità, gli interessi, le intuizioni, ma anche l’umanità di un genio che è stato pur sempre figlio del suo tempo sono stati al centro della giornata di studio “Leonardo dall’Officina alla Cucina”, organizzata all’Università del Salento come appuntamento del ciclo di iniziative “Leonardo Da Vinci e la Puglia, tra passato e futuro” promosse per il cinquecentenario della morte dell’inventore, artista e scienziato italiano. L’iniziativa è stata curata dai professori Giulio Avanzini e Paolo Bernardini, del comitato scientifico delle celebrazioni che hanno visto lavorare assieme l’Accademia Pugliese delle Scienze, l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, il Politecnico di Bari, l’Università del Salento, l’Università della Basilicata, l’INFN – Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il Museo Leonardo da Vinci di Galatone (Lecce), Sitael SpA e l’Autorità Portuale di Bari. Il 7 giugno 2019, nella sala conferenze del Rettorato, si è parlato di idraulica, macchine, osservazione dell’infinitamente piccolo e, appunto, di cucina, una delle passioni meno note di Leonardo, sulla quale si è soffermato Maurizio Raselli, “cuoco e piemontese, in quest’ordine”, come ama definirsi.

Maurizio, per parlare di Leonardo proviamo a partire da te. Il tuo ristorante, 3Rane a Lecce, lo racconti come l’approdo di un lungo peregrinare alla ricerca di te stesso. E il nome di questo approdo è ispirato alle esperienze culinarie del Genio. Perché?
Sarebbe bello, forse, raccontare di come possa essere stato illuminato dalla creatività di Leonardo, ma pure se così in qualche modo può esser stato, di certo il lato del Genio che più ci ha entusiasmato è stato quello strettamente terreno, più umano diciamo, meno idealizzato. Il fatto che la leggenda, sotto forma dell’irraggiungibile Codex Romanoff, racconti dell’esperienza di un giovane Da Vinci alle prese con le dinamiche che ben conosciamo alla taverna delle 3 Rane sul Ponte Vecchio a Firenze ci ha fatto sorridere, e forse sentire meno soli. Come dire, nel caso dovesse andarci male, beh potremmo sempre ripiegare sull’Arte (si riferisce, oltre che a se stesso, anche alla compagna Dodo, “partner concettuale” del progetto di ristorazione, ndr).

Leonardo è una delle tue fonti di ispirazione? Il limite tendente a infinito irraggiungibile ma necessario per darsi ogni giorno nuovi obiettivi?
A volte risulta difficile trovare l’origine di un’ispirazione. Alcuni piatti saltano fuori dalle mani come se fossero sempre esistiti, per altri invece il processo è più lungo e macchinoso. Certo quello su cui si può sempre contare è l’ispirazione concettuale, il filo rosso che dovrebbe legare ogni cosa che ruota intorno all’idea di ristorazione che ci si propone. In questo senso l’idea di Leonardo è stata fondamentale.
Dopo anni spesi nella ristorazione cosiddetta di lusso, il fine-dining tanto celebrato e oramai svuotato di ogni dignità, c’era qualcosa che non permetteva al mio meccanismo interiore di scorrere libero. Serviva un punto di rottura. Qui è dove si colloca il genio di Leonardo nel nostro sistema concettuale. A Lecce esisteva da sempre il cibo tradizionale, preparato con più o meno onestà, così come la ristorazione di alto livello. A noi è interessata l’idea di dare a tutti la possibilità di poter godere di un piatto cucinato con competenza a un prezzo trasversale. Così sono nate le 3 Rane, una trattoria gourmet, un piccolo rifugio per amanti del cibo e del vino lontano dall’apparire e dagli stereotipi. Solo piccoli produttori, zero grande distribuzione, vini naturali, contatto diretto e quotidiano con la materia, ambiente informale ma curato, alleggerito. La rottura che vede Leonardo protagonista nella storia del pensiero è stata, con le dovute proporzioni, ispirazione per il nostro concetto trainante di accessibilità.

Per il tuo intervento all’Università del Salento sei partito da un libro che hai raccontato esserti molto caro: “Note di cucina di Leonardo da Vinci”, di Jonathan e Shelagh Routh (edizioni Voland, 2005). Come l’hai scoperto e perché ti ha colpito così tanto?
Immagina una piccola casa, sviluppata in altezza, su tre piani minuscoli con il Mar Ligure che sbatte forte le onde quasi contro i vetri delle finestre. Siamo a Pegli, un minuscolo paesino appoggiato per sbaglio allo sdraiarsi di Genova, dove ho vissuto per anni. Immagina ogni centimetro di questa casa ricoperto di libri, e un pianoforte. Immagina una cucina piccolissima dove sempre qualche capolavoro era in procinto di nascere. Era la casa di Clara e Lello, iperattiva meraviglia lei, grandissimo cuoco lui, come solo un appassionato gourmet può essere. Non uno chef, sia chiaro. Un cuoco. I genitori della moglie di mio fratello, una casa che ho molto frequentato.
Un pomeriggio, tra le migliaia di titoli, ho visto il libriccino. Non ho smesso fino all’ultima riga. Leonardo da Vinci era un uomo. Non una divinità scesa dall’Olimpo, un’Idea astratta e inafferrabile. Passioni, e soprattutto errori. Il genio al servizio del quotidiano, le altitudini del pensiero piegate alle esigenze di tutti così come parti del mondo vero. E poi simpatico, reale. Questo cambio di prospettiva ha scardinato in me, come mille altre volte è successo, un dogma pre-esistente. L’infinitamente grande è anche infinitamente piccolo, come in alto così in basso, come più tardi ho appreso dalla filosofia ermetica. Quella è stata la scintilla. Ci sono voluti più di 10 anni, ma ora cerco di ricordarmelo ogni giorno.

Nella tua relazione era evidente una grande emozione, assieme a un sincero schermirti per essere tra tanti accademici che, al contrario di te, erano in quel momento nel “loro” ambiente. D’altra parte definisci le tue 3Rane come un “ristoro” che propone “cucina artigiana di ricerca”. Insomma, qualche punto di contatto con il mondo dell’università è evidente. Come è arrivata la proposta a intervenire del professor Giulio Avanzini? Cosa ti ha entusiasmato di più dell’idea?
Era difficile non farsi coinvolgere dall’entusiasmo del professor Avanzini. Lui ha dato davvero molto per la riuscita delle giornate leonardesche. Abbiamo un’amica in comune che ha fatto da filo conduttore attraverso le nostre passioni. Oltre la cucina e la mia famiglia, non necessariamente in quest’ordine, ho sempre amato leggere. Si può dire che io sia un piccolo lettore compulsivo, leggo di tutto, da sempre, e appena posso. Mi capita spesso di leggere più libri in un giorno solo, iniziati e finiti, a patto di averne il tempo.
Ho un diploma classico e una laurea in Scienze della Formazione, ma cerchiamo di capirci: sono sempre un cuoco, mediocre per giunta, non un accademico. La proposta di Giulio mi ha lusingato e certo anche un poco preoccupato. Sono avvezzo a parlare in pubblico, nei miei viaggi ho spesso affrontato grandi situazioni sociali in cui mi si chiedeva di intrattenere, anche in inglese, diverse persone. Ma l’argomento era sempre la cucina, la mia cucina. Più comfort di così… invece l’idea di affrontare un tema con un così alto profilo mi ha imbarazzato. Confesso di aver vissuto il mio intervento piuttosto male. Mi sono sentito impacciato e fuori luogo. Certo finché il calore dei professori coinvolti non mi ha sostenuto. Di questo conservo un meraviglioso ricordo, e un grande senso di supporto. Del resto aiutare le menti a evolvere credo sia uno dei traguardi dell’Università.

Tra i piatti consigliati della tua cucina leggo “Ravioli del plin ripieni di fegatini di pollo, sedano rapa in crema e bollito, battuto di podolica pugliese”. Ma Leonardo non era vegetariano? Scusami la battuta, mi interessa parlare del tuo approccio alle materie prime.
Beh, se l’alternativa fossero le folaghe molto frollate o i testicoli di montone al latte credo che considererei l’alternativa vegetariana anch’io… o forse almeno per la colazione, venerando da piemontese ogni singola vena di grasso della carne ben marezzata! A parte le battute, si discute ancora sull’etica alimentare di Leonardo. Non credo fosse completamente vegetariano, almeno non nella concezione moderna del termine dove il Principio viene sempre più spesso posposto rispetto alla moda. Certo amava il bello e il buono, in ogni loro forma, dunque credo non amasse il cruento attimo proprio della macellazione ma era sempre un uomo del XV secolo. Il sangue era piuttosto comune, certo più del tofu.
L’ingrediente esige rispetto, competenza e tecnica, oltre a un’immensa dose di amore.Conosco macellai che amano in un modo viscerale le bestie che poi diventano il medium del loro lavoro. Persone spinte da un’etica integerrima, che offrono più amore agli animali che sanno poi se ne andranno, perché questo è quello che sono, di quanto non facciano vegetariani di ora che magari non mangiano il pesce ma ostentano cinture di pelle di vitellino senza nemmeno soffermarsi sul significato delle parole. Dignità e coerenza sono sempre più importanti, nella scelta dell’ingrediente, del piatto e nella vita in generale.
Io conosco personalmente tutte le persone che aiutano la natura a produrre ciò di cui mi servo per cucinare. Conosco chi spreme le olive per il mio olio, chi pigia l’uva per i vini che amo, chi zappa la terra per le verdure che compro e chi macella gli animali che cucino e mangio. L’ingrediente principale è l’etica del cuoco.

Le recensioni sulla tua cucina e il tuo ristorante dicono di una capacità di tenere assieme gli opposti – lato cucina – e di una grande gentilezza e ospitalità – lato accoglienza. Come sei arrivato a questa formula? A guidare ogni passo sembra essere essenzialmente la tua personalità.
Anthony Bourdain scriveva che le cucine tendono ad assomigliare agli chef che le guidano. Credo sia una grande verità estesa poi al ristorante tutto, se il cuoco è anche il gestore o il proprietario della struttura. È vero, le 3 rane mi assomigliano, moltissimo. C’è molto di imperfetto, ma non di lasciato al caso. L’idea della perfezione occidentale è un concetto limitante. Lo scintillio preconfezionato da discount della creatività. Il perfetto non include il suo opposto, il manchevole. L’imperfetto è necessario. Le crepe delle porcellane in Asia valgono più dei vasi stessi, perché li rendono vivi, con una storia. Da noi questo problema non si pone. Le 3 rane sono un bel posto, ma restano un’osteria, una trattoria. Dove l’oste o il trattore sono quelli che decidono, ma che anche mettono in gioco tutto il loro essere.
Io ho costruito il locale, fisicamente. Mi sono costruito da solo i banconi, ho messo io il pavimento, gli impianti, mi sono montato da solo la cucina che era stata lasciata sul marciapiede da uno zelante corriere. Ho disegnato il locale, la cucina. Ho abbattuto pareti e costruite di nuove. Ho dipinto, rasato, avvitato, tolto e messo quasi tutto quello che si vede. Ho sanguinato, fisicamente, ho pianto in alcuni momenti e riso in altri. La mia fidanzata Dodo stava aspettando il nostro bimbo, nato a fine dicembre del 2017 mentre io costruivo il locale. Ci ho messo 5 mesi. Un bambino è nato a dicembre, Martino. L’altro nel marzo successivo, le 3Rane.
Credo che questo abbia influito molto nel creare l’atmosfera di reale identità che ora si respira tra inostri 6 tavolini. Io mi sentirei di consigliarlo a chi dovesse essere così pazzo da ascoltarmi. Costruite il vostro locale con il sangue e il sudore, ogni goccia versata tornerà come nutrimento per la nascita della sua propria identità.

Leggendo la tua biografia sembra che tu abbia lavorato praticamente ovunque. Quali credi siano state le esperienze più importanti, e perché?
Ma no, quale ovunque! È vero, ho viaggiato. Ho sacrificato molto per imparare. Ma molti altri hanno fatto il mio stesso percorso. La vita di uno chef può sembrare folle a chi non è del mestiere. Orari impossibili, fatica sovrumana, calore insopportabile, anni e anni di apprendistato alle corti di chef spesso bipolari, aggressivi, egotici e violenti senza alcuna dignità riconosciuta se non rapportata alla capacità di sopportare tutto questo. Io ho cominciato molto presto: 16 anni, nei fine settimana, quando magari il sabato mattina sarei stato interrogato al Liceo nell’ora di Greco, la sera prima stavo lavando bicchieri alle due di notte. La cosa strana è che non lo facevo per necessità. La mia famiglia ha sempre provveduto ai miei bisogni di ragazzo. A volte addirittura mentivo per andare a lavorare. Forse sono sempre stato cosciente del processo di costruzione della mia competenza. Sapevo di dover sacrificare.
Poi l’Europa, l’Inghilterra e la Scozia, le Maldive, l’India, la Russia, in Siberia… più di dieci anni di solitudine e ricerca di qualcosa. Ogni esperienza è stata propedeutica a quella successiva. Ora sono un cuoco, è vero, ma soprattutto sono un marito e un padre. Ringrazio ogni istante di solitudine e sacrificio se mi hanno permesso di guardare dormire il nostro bambino la notte, quando rientro.

Lecce è il tuo approdo e la tua base. L’amore è la tua guida in ogni scelta, in cucina come nella vita? Quali progetti hai per il futuro?
Il rapporto tra la mia compagna e me è basato su una reciproca comprensione, una grande complicità. Ci assomigliamo molto, anche se lei non lo ammetterebbe mai!Entrambi con radici solide, ma anche con rami aerei, per così dire. Lecce è il presente, il futuro verrà da sé. A me basta stare con loro, poi il mestiere è nelle mani come dicono i Maestri.
Se ho cucinato un risotto per Sua Maestà Luminosa il Re del Ladack, nel palazzo reale di Leh, al confine tra Himalaya e Cina, su un buco in terra dove avevo acceso un fuoco con le sterpaglie trovate in terra, a quasi 3500 metri di altitudine sotto una tempesta di pioggia dell’autunno del Karakorum, credo di poter, ripeto credo, cucinare qualcosa quasi ovunque. Per ora, però, il presente ha ancora molto da dare.

Consigliaci un menu leonardesco da provare, magari, proprio nel tuo ristorante.
Menù leonardesco? Riporto quello che Leonardo, allora maestro di cerimonia alla corte degli Sforza, propose a Ludovico il Moro in occasione di una festa tenutasi in onore di una nipote del Signore:
un involtino d’acciuga in cima a una rondella di rapa scolpita a mo’ di rana
un’altra acciuga, avvolta attorno a un broccolo
una carota, bellamente intagliata
un cuore di carciofo
due mezzi cetrioli su una foglia di lattuga
un petto di uccello
un uovo di pavoncella
un testicolo di pecora freddo alla panna
una zampa di rana su una foglia di tarassaco
uno stinco di pecora cotto sull’osso
…e io, piccolo cuciniere ignorante, che mi ostino a fare i ravioli!

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino” (settembre/ottobre 2019)
la foto di Maurizio Raselli è di Sonia Gioia (per gentile concessione)

segni particolari: discalculico

Una bella storia di tenacia, di fiducia in se stessi, di passione per lo studio. Una storia divenuta “virale” oltre ogni aspettativa: l’abbiamo costruita assieme a Matteo Notarnicola, comunicando come all’Università del Salento un talentuoso studente discalculico sia riuscito a laurearsi in Matematica grazie all’aiuto di servizi dedicati e soprattutto alla propria energia e capacità di mettersi alla prova.

Matteo ha 25 anni, è originario di Veglie (Lecce) e il 25 ottobre scorso è riuscito a raggiungere il suo primo traguardo accademico dopo un inizio non proprio semplice. L’immatricolazione nel 2014, e nel secondo semestre il primo stop: nonostante nel percorso delle scuole superiori Matteo non avesse incontrato particolari difficoltà, all’Università ogni prova parziale scritta sostenuta va male e non riesce a sostenere alcuna prova orale. È qui che entra in scena Eliana Francot, docente di Geometria e Delegata del Rettore alla Disabilità, con una particolare competenza in tema di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). In aula Francot parla ai suoi allievi di questi disturbi, di cosa sono, di come si manifestano e del fatto che dal 2010 esiste una legge, ancora poco conosciuta, che tutela i diritti degli studenti che li presentano. Un campanello suona nella mente di Matteo, ed eccolo rivolgersi al “Servizio di Consulenza – Sportello BES/DSA”, attivo presso il Dipartimento di Storia Società e Studi sull’Uomo. Qui avvia l’iter diagnostico, e nel luglio 2015 il responso: “Disturbi misti delle capacità scolastiche”.

Secondo la diagnosi, Matteo possiede elevate abilità di ragionamento, ma “la decodifica degli stimoli verbali scritti non è automatizzata e la loro elaborazione risulta particolarmente laboriosa e lenta”: in pratica Matteo legge molto più lentamente dei suoi coetanei. Riguardo la capacità di scrittura, viene evidenziato che “in condizioni di compiti simultanei, come il prendere appunti o comporre un testo scritto, compare disortografia e lentezza esecutiva”. E ancora, sulle abilità di calcolo: “La prestazione di Matteo non è sufficiente riguardo il parametro rapidità del calcolo a mente” e “nelle prove che prevedono risposte a scelta multipla Matteo, potendo confrontare il risultato da lui ottenuto, riesce a individuare e correggere l’eventuale errore commesso. In assenza di scelta multipla Matteo mostra molta incertezza sui calcoli e malgrado imposti correttamente il procedimento, sbaglia 5 problemi su 10”.

Matteo non si scoraggia, anzi: ha finalmente capito il motivo per cui lo studio della matematica non va bene come vorrebbe. Ricomincia tutto da capo e, grazie al supporto dell’Ufficio Integrazione, comincia a utilizzare “strumenti compensativi” appositamente concordati per svolgere le prove scritte, in modo da “alleggerire” la fatica dello scrivere e del fare i conti a mente; usufruisce inoltre di altre opportunità dedicate, come quella di poter non rispettare i tempi di consegna delle prove. E così Matteo comincia a “volare”.

Questa storia a lieto fine, assieme alla voglia di Matteo d’esser d’aiuto ad altri studenti dislessici, l’abbiamo raccontata “fuori” dall’Università, col risultato di decine di articoli su testate locali e nazionali generaliste e specializzate, servizi televisivi e tanti post sui social.
«La professoressa Francot e la dottoressa Paola Martino mi avevano proposto di raccontare il mio percorso, con lo scopo sia di incoraggiare studenti universitari e delle scuole superiori a scommettere su se stessi», racconta Matteo, «sia di provare che è possibile per un ragazzo con disturbi dell’apprendimento riuscire a raggiungere – a patto di mettesi in gioco e lavorare sodo – un traguardo come la laurea. Non avevo alcun desiderio o ambizione a mettermi in mostra, né tantomeno la pretesa di avere un plauso particolare, ma solo la voglia di portare alla luce come un piccolo esempio di fatica e passione, accettazione di sé e voglia di superarsi, lavoro e coraggio possano renderci capaci di cose “belle”».

E ci sei riuscito Matteo, a giudicare dall’attenzione ricevuta. Come ti spieghi tanto riscontro?
«Non lo so, non mi aspettavo una tale eco. Forse sembra quasi… folle che un discalculico voglia (e riesca) a laurearsi proprio in matematica, considerata dalla maggior parte della gente una sorta di “mostro incomprensibile”. Forse si tratta di quel pizzico di follia che è capace di rapire l’attenzione di tanti. Un altro aspetto chiave è probabilmente che si è trattato della conferma che il duro lavoro ripaga: soprattutto oggi si desidera e si ha bisogno di sperare che qualsiasi investimento (di tempo, talenti, capacità…) porti a un risultato soddisfacente. Infine, un altro motivo di tanto “successo” probabilmente sta nella genuinità di una storia che racconta il realizzarsi di un sogno attraverso l’impegno, la costanza, la caparbietà e la continua ricerca di andare oltre i propri limiti».

Sui social network anche qualche commento un po’ “cattivo”. Ti è dispiaciuto?
«Non più di tanto: ciascuno commenta secondo quanto crede giusto e vero, è inevitabile. Le persone che mi conoscono e mi sono state accanto in questi anni di studio sanno come stanno davvero le cose, i miei amici mi supportano e mi stimano, i miei docenti non mi hanno trattato in modo differente rispetto ai miei colleghi e questo è ciò che conta per me, il resto è superfluo. Mi dispiace solo che abbiano criticato tanto i miei docenti per aver applicato le regole e avermi dato ciò che meritavo, nulla di più, nulla di meno (Matteo si è laureato con 109/110, ndr): sono docenti esemplari e tutto quello che ho imparato è in parte grazie al loro lavoro e alla loro disponibilità».

Ora sei a Roma per il percorso specialistico, quali sono i tuoi progetti a lungo termine?
«Il progetto migliore che potrei avere (e che effettivamente sto perseguendo) è quello di non smettere mai di imparare, di avere la consapevolezza che ho tanto da apprendere e che devo lavorare sodo per diventare un “bravo matematico”. Vorrei poter proseguire gli studi fino al dottorato e poi… chissà, magari fare della mia passione il mio lavoro».

Nell’Università del Salento la presenza degli studenti dislessici dichiarati tali è in aumento: siamo passati dall’iscrizione di 6 studenti dislessici nell’Anno Accademico 2015/16 ai 25 dell’Anno Accademico 2017/18. «È una realtà che non può essere trascurata», sottolinea la professoressa Francot, «e a cui l’esempio di Matteo ha tanto da insegnare. La legge 170 del 2010 parla di interventi specifici che la scuola deve mettere in atto per individuare precocemente i casi sospetti di dislessia e/o discalculia. La prima può essere diagnosticata già alla fine del secondo anno della scuola primaria, mentre la seconda alla fine del terzo anno. La valutazione diagnostica può essere fatta esclusivamente da specialisti quali psicologi e/o neuropsichiatri infantili e non dagli insegnanti che, stando a quanto previsto dalla normativa, hanno invece il compito di segnalare alla famiglia eventuali difficoltà manifestate dall’alunno e non superate neanche a seguito di attività didattiche di recupero messe in atto ad hoc. Con una diagnosi precoce e con l’adeguato supporto specializzato, uno studente può imparare a utilizzare gli strumenti compensativi e le strategie di studio più adatte al suo specifico disturbo e procedere così nel percorso di studi alla pari dei suoi coetanei. Diversamente, con il passaggio da un grado di scuola al successivo e quindi con l’aumentare delle richieste, in termini di impegno di studio, il rischio di fallimento scolastico, con tutto quello che ciò comporta a livello psicologico, diventa estremamente più alto», avverte la docente, «L’esempio di Matteo ci dimostra come questa eventualità non sia poi così remota. È infatti arrivato a iscriversi all’Università senza avere la piena consapevolezza del suo disturbo, il suo impegno nello studio gli aveva consentito di compensare abbastanza bene le difficoltà incontrate fino a quel momento, contribuendo così a ‘mascherare’ il disturbo stesso. Nel momento in cui si è trovato a dover fare i conti con le notevoli richieste di studio previste in un corso di laurea in Matematica, ecco che il suo impegno non è stato più sufficiente. La possibilità di veder tutelati i suoi diritti attraverso l’applicazione della legge e il supporto fattivo dell’Ufficio Integrazione hanno fatto sì che, dopo un primo momento di smarrimento, Matteo riprendesse in mano la sua vita e con coraggio e determinazione portasse a termine quanto aveva iniziato. Ora sa bene quali sono i suoi punti di debolezza», conclude Francot, «ma cosa ancora più importante sa quali sono i suoi punti di forza. È su questi ultimi che deve far leva per realizzare i suoi sogni».

questo articolo è stato originariamente realizzato per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

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