“Women in Zimbabwe”: cinque storie a partire da un’amicizia

Eleonora Aralla è una donna bellissima, di una bellezza come la intendo io, al di là di ogni stereotipo, fatta di corpo e mente, personalità, verve, orgoglio, capacità di azione e reazione, decisione e responsabilità. Ve la presento perché, attraverso la relazione tra noi, posso parlarvi di un Paese che non è nell’agenda dell’informazione quotidiana ma che meriterebbe d’esserlo: lo Zimbabwe.

Ex colonia britannica, si trova nell’Africa del Sud, al confine con il Mozambico e il Sudafrica, i suoi parchi conservano una natura straordinaria e sotto l’ufficiale dicitura “Repubblica” [non] si nasconde una dittatura durissima. Nei giorni in cui scrivo questo post, cercando notizie su Google, compaiono “Uomo divorato dopo essere stato aggredito in casa da branco di iene”, “Grave incidente in una miniera”, “Appello dei vescovi a riconciliazione e unità” e, sul sito di Amnesty international, “Authorities must use bail hearing to release journalist Hopewell Chin’ono”.

In shona (o meglio, nel dialetto karanga), lingua bantu tra le più diffuse nel Paese, Dzimba-dza-mabwe vuol dire “casa di pietra”; le spettacolari Victoria Falls segnano il confine tra Zambia e Zimbabwe; sono zim i genitori di Danai Gurira, attrice in “The Walking Dead”; alcune scene di “Cacciatore bianco, cuore nero” di Clint Eastwood sono state girate sul lago Kariba in Zimbabwe. Per dire.

Torno adesso a Eleonora.

Quando mi parlano male di Facebook, penso a cose come quella successa tra me e lei. Facciamo un salto indietro, al 2017, quando poco prima che nascesse mio figlio Giovanni mi imbatto un questo post del sindaco della mia città:

Un dubbio, un ricordo, due ricerche, e capisco che quella cittadina è lei. Perché anni prima, non so come, avevo scovato il suo blog “la chica con la maleta” (“la ragazza con la valigia”, adesso non è più visibile), e mi era piaciuto molto. Ma soprattutto perché, ancora prima, nei miei primi anni di lavoro, quando alcune colleghe giornaliste mi chiamavano affettuosamente “pulciotta”, l’avevo conosciuta di persona, femminista all’università, a Lecce, in tempi in cui non se ne parlava un granché. Almeno, non nei termini di oggi, così diffusi e semplici, come istanze che meritano l’attenzione generale. Stiamo parlando dei primi anni Duemila. Insomma, da lì il nuovo contatto su Facebook e i discorsi sulla linea Lecce – Harare (hanno lo stesso fuso orario) a proposito di figli e di libri, di politica e, a un certo punto, anche di Africa. Ecco, Eleonora è una delle donne che mi ha costretta a esprimermi come si deve quando si parla di Africa. L’Africa è un continente, un continente immenso a cui dobbiamo molto del nostro benessere. E quando si parla di Africa bisogna esprimersi bene, in modo preciso.

Dopo la laurea in Lettere con una tesi in Filosofia politica su “Diritti umani e giustizia senza frontiere”, un master in Sviluppo sostenibile, vari corsi su monitoraggio e valutazione, politiche di genere e sviluppo, la scelta. Come? Perché?

«Fremevo per andare a mettere in pratica quello che avevo imparato, volevo conoscere una cultura diversa, spostare il mio punto di vista sulla realtà e imparare qualcosa su me stessa e sul mondo che mi circondava. Più o meno a 17 anni, mi era capitato di leggere di Marianela Garcia Villas, “avvocata dei poveri, dei malati, dei lontani”, che scoprii molti anni dopo essere un simbolo della lotta agli abusi del governo in El Salvador. Quella donna, dalla storia tristemente tragica, è rimasta la mia ispirazione. Quando si è trattato di scegliere una destinazione, lo Zimbabwe è sembrato “naturale”: è il paese d’origine di quello che poi è diventato mio marito, che è zimba-inglese e che ormai è italiano d’adozione, oltreché di passaporto. E poi è un paese che, per chi si occupa di cooperazione, offre condizioni di vita adatte alla famiglia, un family posting, in gergo, perché ha livelli di rischio sanitari e sociali relativamente bassi rispetto a paesi come l’Afghanistan o il Sudan. Sono in Zimbabwe dal 2011 e ci rimango anche perché è un Paese che regala a me e alla mia famiglia, tra le altre cose, il privilegio della prospettiva».

E che cos’è il “privilegio della prospettiva”?

«La possibilità quotidiana di apprezzare l’essenziale, di vivere un’esistenza “semplificata”. In Zimbabwe non ci sono centri commerciali né arriva Amazon, al supermercato si trovano – per esempio – solo due tipi di yogurt, o di latte, o di formaggio. A volte, per settimane, non si trovano la farina o il pane (per chi, come noi, se li può permettere), allora si mangia più riso, patate, polenta, uova, quello che si trova. A volte manca l’acqua, una volta siamo stati 18 giorni senza elettricità perché è esploso un trasformatore. Nessuno ne fa una tragedia. Queste “scomodità”, che vivo appunto come un’opportunità, sono ripagate da spazi ampi e verdissimi, animali di ogni tipo che vengono a visitare il nostro giardino, come le blue headed lizards e i turacos (specie di lucertole e uccelli, ndr), da miriadi di stelle vicinissime che ti sovrastano mentre la notte africana ti avvolge, e ti ricordano quanto poche, semplici cose siano quelle che contano, e quanto noi essere umani siamo precari ospiti di passaggio».

In Zimbabwe lavori per il Cafod, definita ufficialmente “the Catholic international development charity in England and Wales”. In cosa consiste il tuo lavoro per l’organizzazione?

«Io faccio l’“operatrice umanitaria”, questa è la definizione corretta, non sono una volontaria e non mi piace “cooperante”. La gente in genere pensa che questo lavoro consista nello scaricare sacchi di grano o scavare pozzi a mani nude, mentre in realtà il lavoro umanitario e di cooperazione allo sviluppo è fatto di una miriade di stratificazioni. Ipersemplificando, lavoro all’intersezione tra la programmazione strategica dei donatori (UE, ONU, agenzie nazionali di cooperazione) e le visioni/programmi delle varie organizzazioni no-profit, internazionali e locali dei paesi in via di sviluppo. In questo momento mi occupo di supportare i ‘team di programma’ dei vari settori (agricoltura, wash che sta per water sanitation and hygiene, protezione sociale, diritti dell’infanzia) nell’identificare fonti di finanziamento istituzionale, coordinare il disegno e la scrittura delle proposte, assicurarsi che vengano rispettati tutti gli standard di qualità (da quelli finanziari a quelli sulla salvaguardia del benessere dei beneficiari) e le regole contrattuali (pena la perdita dei fondi). Mi occupo anche di rafforzare le competenze dei partner locali con cui la mia organizzazione lavora in termini di mobilitazione di risorse, scrittura di proposte di progetto, gestione delle sovvenzioni, in modo che, con il tempo, siano in grado di accedere ai fondi e di gestirli autonomamente, senza il nostro aiuto».

Scusa se banalizzo: fammi un esempio di giornata tipo.

«Arrivo in ufficio dopo aver evitato buche grandi quanto crateri, commuter omnibus (una sorta di piccoli autobus, ndr) gremiti di gente e che corrono come schegge, biciclette sgangherate, orde di bambini in uniforme sul ciglio della strada, venditori di piccoli lavori di artigianato, bambini che chiedono l’elemosina. Mi siedo e passo un sacco di tempo al computer. Leggo le mail, controllo scadenze, guardo il calendario. Abbiamo ricevuto una sovvenzione da UNICEF per un progetto di fornitura di acqua nelle scuole! Bene, faremo un workshop di lancio del progetto assieme ai partner, in cui io mi occuperò di familiarizzare il nostro team e quello del partner locale con i regolamenti e gli standard del donatore, assicurandomi che tutti abbiano chiara la logica e i contenuti della nostra proposta per poterla poi tradurre nella pratica sul campo, per far diventare le parole scritte su un foglio un’attività di scavo di un pozzo, un training su igiene e salute mestruale, una campagna di advocacy… A fine workshop, si torna a casa dai miei bambini».

Tutto questo in un contesto politicamente complesso. Che però non mi pare apparire di frequente nell’agenda dell’informazione internazionale.

«Nella geopolitica globale lo Zimbabwe non è una priorità strategica, né politica né economica».

Solo per fare due esempi, oltre al caso del giornalista citato sul sito di Amnesty, Hopewell Chin’ono, val la pena di leggere questa intervista di Al Jazeera alla scrittrice Tsitsi Dangarembga: https://www.aljazeera.com/features/2020/11/16/qa-tsitsi-dangarembga (e gli articoli correlati proposti).

Vogliamo entrare nel merito delle emergenze umanitarie?

«La crisi finanziaria è dilagante, con la valuta locale che continua a svalutarsi esponenzialmente gettando i lavoratori del settore pubblico di fatto nella povertà e facendo praticamente scomparire la classe media. Il cambiamento climatico sta esacerbando condizioni ambientali già difficili (soprattutto in alcune province del paese), con ricorrenti periodi di siccità, inondazioni e cicloni. Una stagione delle piogge sempre più erratica ha stravolto i pattern di coltivazione e raccolto, lasciando milioni di famiglie in balia dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione. Spesso i bambini, che percorrono anche svariati chilometri per raggiungere le scuole, svengono per strada perché, semplicemente, non mangiano a sufficienza. Sono frequenti gli abusi sui bambini e la violenza di genere, le gravidanze di bambine di dieci, dodici anni sono all’ordine del giorno. Il sistema sanitario è già ben oltre il collasso: negli ospedali pubblici manca tutto, dal paracetamolo alle cannule per le flebo, per non parlare di acqua potabile ed elettricità; i medici sono in sciopero quasi costante. Anche il settore dell’educazione è allo stremo, con gli insegnanti in sciopero da mesi e il livello di istruzione che si abbassa sempre di più».

Con conseguenze ancora più gravi per le donne.

«Come sempre. Ti faccio un esempio pratico. In Zimbabwe spesso le ragazze non hanno accesso agli assorbenti, di nessun tipo. Quando anche riuscissero ad averne, magari grazie al supporto di ONG o di agenzie delle Nazioni Unite, c’è il problema della biancheria intima: non ne hanno. Andiamo oltre e facciamo il caso della coppetta mestruale. Poniamo che ne fossero fornite. Beh, non hanno accesso all’acqua corrente, né a casa né a scuola. Il risultato è che, in media, perdono quattro, cinque giorni di scuola al mese, cosa che spesso aumenta l’abbandono scolare, e poi matrimoni, gravidanze e prostituzione in età molto giovane. In questo scenario, organizzazioni come la mia lavorano per supportare le categorie vulnerabili, fornire strumenti per generare ingressi finanziari e mezzi di sostentamento, ma ovviamente non basta. Penso che le donne e gli uomini dello Zimbabwe siano un esempio di tenacia ma, forse, anche di rassegnazione».

Come si lavora da non cattolica in un’organizzazione che lo è per statuto?

«Il Cafod è diretta espressione del cattolicesimo sociale, missionario e… progressista, che è l’ambiente in cui mi sono formata e che ha ispirato la mia scelta quando ero un’adolescente. Anche se non sono più cattolica, condivido i valori di solidarietà, dignità e compassione che ispirano l’operato del Cafod. L’organizzazione non fa proselitismo e non impone la propria visione né ai propri impiegati – ho colleghi di tutte le fedi – né tantomeno ai beneficiari degli interventi. I nostri partner d’elezione sono le Caritas locali, che hanno il vantaggio di essere in contatto capillare e continuativo con le comunità locali e di poter lavorare in contesti politicamente difficili, ma lavoriamo anche con moltissimi partner secolari nelle più svariate aree programmatiche».

Da qualche mese sei tornata a Lecce, causa Covid.

«A fine marzo l’epidemia era scoppiata in Sudafrica e si prevedeva raggiungesse anche lo Zimbabwe. Gli esiti sarebbero stati devastanti, data la situazione sanitaria cui abbiamo accennato. Tutti i paesi del globo stavano cancellando i voli internazionali e così, assieme al Dipartimento di Sicurezza della mia organizzazione, abbiamo deciso di farci evacuare in via preventiva. Siamo saliti sull’ultimo volo che ha lasciato Harare prima che chiudessero tutto. Fortunatamente, e per ragioni che sono ancora parzialmente sconosciute anche agli addetti ai lavori, il Covid ha “risparmiato” l’Africa, o comunque l’ha colpita con molta meno violenza. È per questo che a fine anno torniamo a casa, nella speranza di poter riprendere, più o meno, la nostra vita di sempre».

Come è cambiata in questi anni la tua posizione politica?

«Negli anni dell’università, quand’ero nel comitato pari opportunità di un’associazione studentesca, non mi sarei forse nemmeno definitiva femminista. La parola femminismo faceva storcere nasi, noi cercavamo di rendere la questione di genere “accettabile” al pubblico degli studenti e anche di molte studentesse per le quali – ricordo bene – “non esistevano più” discriminazioni. E poi il mio attivismo era abbastanza improvvisato, di pancia, basato su mie esperienze dirette di discriminazioni e violenze subite, oltre che su un anelito più ampio di giustizia per la “categoria” a cui appartenevo. La mia vita professionale mi ha portata in quello che io pensavo fosse un “altrove”, salvo rendermi conto che la questione di genere è cruciale nel lavoro che faccio. E così adesso mi definisco femminista, ma in divenire. Studio e soprattutto imparo sul campo, in un contesto lontano dalla cultura occidentale dominante nel quale ho a che fare con persone di tutte le provenienze, geografiche e culturali».

Sei una delle persone giuste, credo, per parlare degli intrecci tra razzismo e femminismo.

«Il femminismo non può esimersi dal fare i conti con le disuguaglianze che si intersecano nelle esistenze di donne con diverse identità sociali e culturali. Per citare Kimberlé Williams Crenshaw, le disuguaglianze legate al colore della pelle non sono slegate da altre che riguardano la classe sociale o l’orientamento sessuale, e tutte queste non sono “solo la somma di tutte le parti”. Il vissuto personale di ognuna conta. Ecco perché, per me, il femminismo deve essere intersezionale. Come dice Fannie Lou Hamer, attivista di colore per diritti civili e delle donne, “Nessuno/a è libero/a finché tutti/e sono liberi/e”. È una visione molto vicina al mio sentire e alla mia esperienza. È fondamentale anche fare attenzione al modo in cui si affrontano certe questioni e si propongono “soluzioni”. Bisogna valutare accuratamente il contesto culturale in cui si opera, riconoscere posizioni diverse e fare attenzione a non ricadere nello stereotipo del white saviour. Le questioni di genere vanno affrontate nei diversi contesti e nel quadro delle diverse discriminazioni che si intersecano. Non ci sono “donne indifese” che vanno “salvate”, ma donne che sono al centro di un discorso, delle quali rispettare la cultura e valorizzare i punti di forza».

Coscienti d’essere in una posizione di privilegio, con “Women in Zimbabwe” (da gennaio 2021) io ed Eleonora abbiamo deciso di raccontare qualcosa di più delle donne che vivono e lavorano in Zimbabwe a partire da cinque storie che riteniamo significative. Alla fine di ogni storia, cercheremo di spiegare cosa possiamo fare e proporre modi per farlo. Perché possiamo dare un senso nuovo al nostro privilegio.

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