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il metodo Liguori

“Il metodo Aquilani” è l’ultimo romanzo di Elisabetta Liguori, ma non si legge. Si ascolta soltanto. La storia è stata scritta – fin dal principio – per essere ascoltata, ed è uscita [per ora] solo su Storytel, nota piattaforma di audiolibri, podcast ed ebook. Ho cominciato ad ascoltarla un sabato mattina, a colazione, cercando di liberare la mente e il cuore dalle aspettative: Elisabetta è un’amica, più di un’amica [siamo assieme “dentro” l’editrice indipendente Collettiva ed è una delle persone che per prima ha saputo delle mie idee per Orlando, per intenderci], e avevo seguito anche se indirettamente la gestazione, l’entusiasmo e i dubbi di questo lavoro. Ho continuato ad ascoltare “Il metodo Aquilani” camminando, ho finito di ascoltarlo – credo – davanti allo specchio una domenica mattina.

Non sono mai riuscita a distrarmi, non ho potuto che tendere attentamente le orecchie a questa storia evidentemente ispirata al caso Francesco Bellomo. Mi colpisce che la recensione inizialmente più severa su Storytel [“Assolutamente inverosimile. Va bene l’invenzione letteraria, ma alla sospensione dell’incredulità c’è un limite”], sia finita con “Non conoscevo la vicenda. Vero che la realtà supera la fantasia. Mi spiace che non ci sia la possibilità di cambiare le recensioni”. All’ascoltatrice era stato suggerito, da un’altra utente, di cercare su internet i termini “dress code magistratura”. Se “Francesco Bellomo” non vi dice niente, fate anche voi questa prova.

La sinossi ufficiale esordisce così:
A Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato a Roma, è arrivato un esposto contro il magistrato Primo Aquilani. Un giovane magistrato alle primissime armi viene incaricato di redigere la relazione disciplinare sugli inquietanti corsi di formazione tenuti dal collega messo sotto accusa, che sembrano essere stati la causa della tragica morte della figlia dell’autore dell’esposto.

Elisabetta Liguori vive a Lecce [foto scattata in un pomeriggio piovoso]

Il romanzo mi ha colpito così tanto [le ragioni nelle prossime righe] che ho chiesto a Elisabetta di parlarne con me per scriverne qui, sul blog. La ringrazio di aver risposto a tutte le domande, svelandoci un po’ di sé e della sua scrittura, parlandoci un po’ del… “metodo Liguori”.

“Caso Francesco Bellomo”, dicevo. Elisabetta Liguori, cosa ti ha colpita della vicenda e perché hai deciso di tirarne fuori un romanzo? Quale il confine tra fatti e invenzione?

Il caso è stato la scintilla d’innesco per la mia storia. Mi colpì moltissimo, quando ne venni a conoscenza, proprio per il suo grande potenziale narrativo. Toccava tasti dolentissimi: la mancanza di futuro per i nostri giovani laureati, la fragilità emotiva che si nasconde dietro l’arte della seduzione, la capacità di immaginare mondi dove mondi non ci sono, i confini inafferrabili della manipolazione psicologica, la misura di ciò che siamo davvero disposti a fare per realizzare i nostri sogni. E, ovviamente, i giochi segreti nei palazzi del potere. Ho deciso di esplorare quei temi trasformandoli in fiction, perché non conosco altro modo per comprendere ciò che mi affascina e m’interroga.

Dal tuo lavoro quotidiano mi pare emergano anche altre ispirazioni per l’invenzione: la conoscenza della magistratura, ovviamente, ma anche le dinamiche dell’adozione. Come hai fatto convivere i tuoi saperi tecnici e le esigenze narrative?

Nelle scuole di scrittura americane viene chiamata expertice e non se ne può fare a meno. La conoscenza tecnica e concreta di ciò che vuoi raccontare, infatti, è un ottimo punto di partenza. Forse lo strumento che rende una scrittrice o uno scrittore più sicuri e saldi nel proprio mestiere. Per questa ragione, dopo aver scelto la forma del romanzo, ho cercato di mettere nella mia cassetta degli attrezzi ciò che, per lavoro, per esperienze professionali o per puro caso, conosco meglio. Da venticinque anni dirigo il Tribunale per i Minori di Lecce, un ambiente di provincia, soggetto a regole rigide posto al centro di un mondo difficile e vero; qui ne ho viste e ascoltate tante di storie come queste. È stato molto facile per me, quindi, far convivere sapere tecnico ed esigenze narrative; sarebbe stato più difficile se non avessi potuto farlo. Quello che volevo raccontare era la verità di tutti, la verità possibile. Nelle opere di fiction, di solito ci si spinge ben aldilà dei meri fatti di cronaca ed è esattamente ciò che ho fatto anche io, partendo dal dato reale a me noto per poi giocare con le probabilità, con il what if, spingendomi fin dove la mia mente riusciva a spingersi, senza mai perdere di vista la verità. Le cose nella realtà non sono ovviamente andate come ho le raccontate, ma sarebbe senza dubbio potuto accadere.

Elisabetta Liguori davanti al Tribunale per i Minori di Lecce, dove lavora

La storia nasce per essere ascoltata, a me sembra evidente dall’andamento della narrazione. Il protagonista conduce chi ascolta nei meandri dei suoi pensieri e sentimenti, goccia a goccia a volte. A tratti mi sono quasi sentita in imbarazzo, nell’entrare nella sua intimità. Sono certa che è anche conseguenza dell’efficacia della voce, in ogni caso la tua bravura di narratrice era nota e questa prova lo evidenzia ulteriormente. Quali sono le differenze tra scrivere per la carta e scrivere per l’audio?

Le differenze sono tante, ma non tantissime. Sicuramente nel caso di un romanzo letto a voce alta il rapporto con il lettore/ascoltatore deve essere oggetto di una cura più attenta e puntuale. La storia viene sussurrata direttamente nelle sue orecchie, parla alla sua pancia, produce suoni che devono restare nella sua mente e, possibilmente, creare una forma dolce di dipendenza. Il nemico è l’abbandono, il sonno, la mente che vaga altrove, la distrazione, lo sganciamento. Per questo scopo esistono tutta una serie di strumenti tecnici quali il cliffhanger [interruzione brusca in corrispondenza di un colpo di scena, ndr], la tenuta dei dialoghi, le durata delle pause descrittive, i respiri, il recapping, per acchiappare l’ascoltatore. Si tratta di ausili di scrittura tecnica che, diversamente dall’ispirazione letteraria, lo stile o la visione dell’autore, possono essere insegnati e dunque appresi. Ciò detto, il resto non cambia: si scrive per amore, per necessità, per rabbia, che sia fatto a voce alta o sulla pagina, le domande, le motivazioni, la sofferenza, la fatica, l’ostinazione e la gioia vitale di chi scrive sono le medesime.

Come è stato sentire la storia letta da un uomo? Nel leggerla e rileggerla, durante la stesura, te la immaginavi così?

Ascoltare il mio personaggio mi ha dato i brividi. Non avevo immaginato nulla di specifico prima, ma so di aver molto desiderato. Desideravo ascoltare il giovane uomo tormentato a cui aveva dato vita, mentre parlava, pensava e si muoveva nello spazio. Nello stesso tempo avevo molta paura di lui, come il dr. Frankenstein della sua creatura. In verità, ne ho ancora molta.

Come hai lavorato sul personaggio principale? Ci racconti qualcosa dell’immedesimazione che, immagino, sia stata da parte tua necessaria?

Credo di aver conosciuto personalmente il giovane magistrato, protagonista della mia storia, anzi credo di averne incontrati molti come lui tra i miei coetanei. Individui irrisolti, schiacciati dal bisogno di arrivare ed essere riconosciuti attraverso lo sguardo altrui, emancipandosi da modelli sociali o famigliari castranti o fortemente idealizzati. Il mio è un eroe che crede di intraprendere un certo tipo di viaggio, invece si ritrova a farne uno del tutto diverso, nella direzione opposta. Un eroe attratto dalla propria ombra che, come sempre accade in questi casi, pur essendo un uomo mi somiglia molto.

Per darvi un’idea della “voce” del protagonista, ecco un passaggio del romanzo:

Perché Aquilani aveva scelto la guerra di Antonino tra tutte le altre guerre possibili, con le quali far colpo sui suoi allievi? Non contava quanto fosse saldo il sistema fondato da Aquilani, la sua inattaccabilità, la sua immoralità, la forza delle sue costruzioni, era sempre nel singolo che si celava l’anello debole. Lui aveva scelto di raccontare quell’anello debole. Una sola persona capace d’inceppare un intero meccanismo. Sapevo quanto fosse importante, lo sapevo perché già molte volte, in altri contesti, in altri momenti, era stato io quell’anello. Ero stato anche io un bambino pieno di domande, un erede infelice con l’insana abitudine di complicare ogni cosa. Era stata l’infelicità a rendermi complesso e dunque vulnerabile, ma potenzialmente infinito. L’infelicità accelera il pensiero, lo rende imprudente, vischioso. Gli infelici hanno radici umide, che rammollano e infettano il terreno, possono distruggere le piante più vigorose. L’infelicità libera gli ormoni. Gli infelici sono anelli deboli. E Aquilani era infelice. Per la miseria, se lo era, nonostante il suo enorme successo. Talmente infelice da poter narrare la parabola che dall’infelicità porta alla felicità come nessun altro.

Un’altra sensazione provata nell’ascolto è stata quella di… soffocamento. La storia è capace di calarci in un ambiente (come tanti, certo, ma non cambia la sensazione) fatto di ipocrisie, non detti, caste chiuse per ceto ed età (non continuo). L’ambiente, lo sfondo, ci viene sempre dalle parole in prima persona del protagonista. Come hai lavorato sulla differenziazione tra “primo piano” e “scena”, considerato che tutto doveva essere narrato solo a voce?

Quello descritto è l’ambiente che il protagonista crede di conoscere meglio, perché ci è nato dentro. Si tratta dello stesso ambiente del padre, infatti. Le sue descrizioni, dunque, sono autentiche, tangibili, tattili, ma mentre nella prima parte del romanzo sono filtrate dal desiderio e dal senso di appartenenza, gradualmente cambiano colore. Quando il protagonista è costretto ad attribuire al suo mondo, e ai suoi abitanti, moventi inediti e imprevisti, al suo desiderio si aggiunge lo stupore. Lentamente subentra la vergogna, intesa come emozione secondaria, che deriva cioè proprio dalla scoperta di essere dissimili dal gruppo sociale a cui si credeva di appartenere o a cui si desiderava appartenere.

La scrittura di questa storia ha un’origine laboratoriale, giusto? Ci racconti qualcosa di questa esperienza?

Durante la stesura di questo testo, ho avuto la fortuna d’incontrare un editor molto abile, Leonardo Patrignani: è stato lui a fornirmi gli strumenti tecnici specifici di cui ti parlavo, strumenti che io non utilizzavo abitualmente. Leonardo ha giocato con me, mi ha messo sotto pressione, ha lottato in un costante corpo a corpo con i miei personaggi, mi ha provocato, ha rotto molti dei pattern che tendevo a ripetere scrivendo, aprendo scenari alternativi. Questa cosa ha funzionato, soprattutto poiché si trattava di un testo lungo e articolato in episodi, per il quale era necessario sforzarsi di tenere sempre alta la tensione narrativa e resistere.

Elisabetta Liguori ha scritto qui “Il metodo Aquilani”

Cosa desidereresti per questa storia? Un destino sulla carta te lo auguri?

Oh, sì, assolutamente sì. Datemi la carta, vi prego, non posso farne a meno. Un eroe che non finisce anche sulla carta non può durare per sempre.

Non voglio svelare il finale, ma te lo chiedo: amor vincit omnia?

No, non credo purtroppo, credo che la verità sia più forte dell’amore, ma neanche quella vince su tutto.

Francesco Bellomo è stato di recente assolto dalle accuse di stalking e molestie. Rispondimi solo se vuoi: le sentenze stabiliscono la verità o rispondono semplicemente a codici interpretabili?

Non c’è nulla di più difficile da provare in un processo della manipolazione, del plagio, e quella di Bellomo è stata una storia di manipolazione. Dal mio punto di vista, ovviamente solo dal mio, resta più interessante capire come sia stato possibile, e come lo sia ancora, che degli individui preparati, intelligenti, colti, maturi, in perfetta salute, abbiano potuto accettare, e forse ancora oggi accettino, metodi di studio e di lavoro tanto manipolatori. Questa, in sintesi, è la domanda che mi ha spinto a scrivere un’opera di totale fantasia come è “Il metodo Aquilani”.

Elisabetta Liguori ha scritto anche “Il credito dell’imbianchino” (Argo), in cinquina al premio Berto, “Il correttore” (Pequod), “La felicità del testimone” (Manni); cura laboratori di scrittura e lettura creativa, è responsabile della collana Le sagge per Collettiva edizioni indipendenti.

Il suo profilo Instagram: @elisabetta.liguori68

Roberta Ranieri: l’illustratrice perfetta per “amori in cottura”

Desideravo che le parole s’intrecciassero poeticamente con i segni grafici, mantenendo una forte identità narrativa e tuttavia non prevalendovi. Desideravo che le pagine scorressero in equilibrio evidente tra storie e immagini, in un mix di profondità e leggerezza, di ironia e romanticismo non artefatto. Desideravo che i luoghi descritti e illustrati fossero allo stesso tempo fisici e del cuore. Lavorando con Roberta Ranieri ho realizzato questi desideri, mettendo al mondo l’edizione illustrata di “amori in cottura”: così la mia raccolta di racconti nata del 2015 è finalmente in libreria, grazie alla collaborazione con l’editrice indipendente Collettiva, nella sua versione definitiva. Di questa bravissima artista voglio raccontarvi di più.

Ho “scoperto” Roberta Ranieri grazie a Sabrina Barbante, una grande amica ma soprattutto un’eccellente “blogger & blogging coach”. Descrivendole la mia idea per la raccolta, il nome di Roberta è venuto fuori in quella che mi è apparsa una magia.

Classe 1994, cresciuta a Bari, Ranieri racconta per immagini “ciò che più la ispira: la Puglia, il mondo del cibo e dell’infanzia”. Si vede, e si sente: ne ho amato subito lo stile, e poi l’attenzione, la cura nella relazione con le mie parole, la capacità di ascolto e l’autonomia nel lavoro. Come per me, la Puglia per Roberta non è un limite, ma un punto di partenza. Come per me, la tenacia nel proporre autoproduzioni e idee è associata a un senso del proprio sé e delle proprie capacità molto forte. In pratica, ho trovato artisticamente una delle mie anime gemelle. Come detto, è una magia.

Su Instagram e Facebook si fa chiamare “qualcosa di erre” e io voglio presentarvela a partire da questo, con il suo aiuto.

Roberta, definisci “qualcosa di erre”: quel “qualcosa” è una parte di te, del tuo lavoro, dei tuoi interessi? Che cos’altro tiene fuori?

Ho scelto questo nome nel 2017 un po’ per gioco, un po’ perché è il primo passo che fai quando vuoi ritagliarti uno spazio sul web. Ciò che trovo bellissimo è che continua a significare tanto per me ancora oggi: non ho mai voluto etichettarmi, ma poter condividere le tante sfaccettature di me. Mostrare chi sono, quali sono i retroscena del mio lavoro e tutte le mie passioni, dalla cucina alla fotografia, dalla cancelleria all’hand lettering. Chi sceglie di entrare nel mio mondo sa che troverà tutto questo e anche un pizzico del mio caotico e sensibile modo di essere. Cosa rimane fuori? I miei timori e insicurezze, l’antipaticissima sindrome dell’impostore che accompagna tanti di noi creativi e la mia vita privata che svelo in piccole pillole.

Cosa hai pensato quando ti ho proposto di illustrare “amori in cottura”? Cosa ti ha fatto accettare la proposta?

Ho pensato sin da subito che fosse la congiunzione perfetta di due aspetti che amo e ricerco in tutta quella che è la mia quotidianità: le relazioni umane e la cucina. Come illustratrice l’ambito in cui mi sento più ispirata è quello del cibo, che per me sta per accoglienza, cura, famiglia. Dall’altro lato, da inguaribile romantica, sono stata subito catturata dai racconti e dalla tua penna, tanto che durante la prima lettura sono nate in me molte delle immagini che hanno poi preso vita nei mesi successivi. Una volta che ho capito che “amori in cottura” era una vera coccola per cuore e palato non ho potuto che accettare!

Le illustrazioni realizzate da Roberta non sono la fedele riproposizione dei racconti in altra forma, sono una finestra su un immaginario che si può fare proprio: mescolano personaggi, posti, situazioni e li restituiscono con pennellate che, alla fine della lettura, trovano piena comprensione.

Raccontaci come ci hai lavorato.

Inizialmente mi sono concentrata tanto sui testi, per andare più in profondità e capire quello che volevo comunicare. Solo dopo aver analizzato tutte le storie, le caratteristiche dei personaggi e degli ambienti, ho cominciato a disegnare. Ho usato l’acquerello mixato al disegno digitale per evocare situazioni, sensazioni, aggiungendo anche elementi che si intrecciano tra loro, come se tutte queste storie d’amore alla fin fine si svolgessero in un universo e tempo comune. Ecco perché ogni immagine si rivela nella sua totalità solo una volta completata la lettura del libro.

Roberta Ranieri

Torniamo a parlare di te. Come sei arrivata a essere la creativa che sei oggi?

Tutti gli strumenti creativi hanno sempre fatto parte della mia vita, sin da piccolissima. Già da appena sveglia a colazione avevo sempre in mano una penna, disegnavo ovunque. Era quasi un bisogno fisico quello di scarabocchiare, colorare, creare. Con gli studi poi ho abbandonato questa strada pensando che il mio futuro fosse altrove, non avevo mai valutato l’idea che potesse diventare qualcosa in più o addirittura un lavoro.
Una volta terminata la triennale in Scienze della Comunicazione, in un momento di vuoto e confusione sul “che cosa voglio fare davvero da grande”, mi sono rifugiata in quello che dopotutto mi aveva sempre fatto star bene: il disegno. Da quel momento non ho mai più smesso. In realtà è successo tutto molto spontaneamente, non l’ho percepita come una decisione ma come se la vita mi avesse rimesso davanti la strada che avevo fatto finta di non vedere per troppo tempo.

Che consigli daresti a chi avesse voglia di lavorare nell’illustrazione?

Consiglio di studiare e disegnare tanto, almeno un’ora ogni giorno o almeno ogni volta che si può. Di mettersi in gioco il più possibile, di sperimentare e cercare pian piano la propria voce, la propria unicità. Il percorso non è affatto semplice e per niente immediato, ma non esiste niente di più bello dell’imparare e in questo lavoro lo si fa in continuazione.

Loredana De Vitis, amori in cottura, Collettiva edizioni 2021, copertina

amori in cottura

In questi giorni torno felicemente in libreria con “amori in cottura”: si tratta di una raccolta di racconti che ho pubblicato per la prima volta nel 2015 su una piattaforma italiana di self-publishing con il titolo “amori in cottura. 15 ricette per quello che dura”. Presentata al concorso nazionale “Il mio esordio” di quell’anno, ha vinto un premio come “miglior libro di racconti”, e soprattutto ha avuto modo di essere conosciuta da lettrici e lettori che non smetterò mai di ringraziare.

Considero quella appena uscita l’edizione “definitiva”. Per tre motivi.

Il primo. È meravigliosamente illustrata: lavorare con Roberta Ranieri mi ha permesso di proporre un gusto nuovo per queste storie, leggero e articolato come piace a me. Mi ha permesso di farne, oltre che un libro, un’opera. E un quaderno e un regalo.

Il secondo. Contiene tre nuovi racconti scritti a partire da storie che, nel corso delle presentazioni della prima edizione, mi sono state raccontate col desiderio che divenissero parte di questo progetto. Sono sempre grata a chi sceglie di affidarmi un pezzo della propria vita perché lo metta su carta, dandomi carta bianca.

Il terzo. È la seconda pubblicazione della collana “Orlando”, che ho ideato e proposto a Collettiva edizioni: un’editrice femminista, plurale, radicata, nella quale sento rispettato e condiviso prima di ogni altra cosa il mio lavoro creativo.

Per comprare il libro e sostere il progetto: https://py.pl/8iw8ivHSqcy

Loredana De Vitis pianta una quercia vallonea dedicata a "il posto di dio" nella Foresta urbana a Lecce; nell'immagine assieme a Serena Gatto, Simona Cleopazzo e Teresa Musca di Collettiva edizioni indipendenti

una quercia vallonea per “il posto di dio”

La produzione e la stampa di un libro, come ogni attività umana, comporta un impatto sull’ambiente. Per questa ragione ho voluto piantare un albero speciale – una quercia vallonea – per compensare simbolicamente l’impronta ecologica lasciata dalla stampa delle prime copie del mio romanzo “il posto di dio”.

L’ho fatto nella “Foresta urbana” curata, a Lecce, dal WWF Salento: ex cave di pietra leccese per anni abbandonate, divenute un affascinante parco cittadino grazie all’impegno dei volontari.

Ringrazio per questo il WWF Salento e mio padre Vittorio, che ne è il presidente ma soprattutto la persona cui devo di più anche per questo mio essere tenacemente ambientalista. E grazie infinite all’editrice Collettiva per aver appoggiato e sostenuto questo mio desiderio.

Mi sono ripromessa di piantare una nuova quercia per ogni ristampa del romanzo. Sono certa che si tratta di un’idea che mi porterà fortuna.

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Per saperne di più sulla foresta urbana: www.forestaurbanalecce.it 

Fabiola Berton a lavoro sulle illustrazioni per il romanzo di Loredana De Vitis "il posto di dio" (Collettiva edizioni indipendenti, collana Orlando)

Fabiola Berton: l’illustratrice pícara de “il posto di dio”

La copertina del mio nuovo romanzo il posto di dio è il risultato di un desiderio e di una scelta. Fin dal momento dell’ideazione della collana Orlando, a lavoro con l’editrice Collettiva, ho spiegato che volevo farne un atelier, un posto dove la scrittura potesse incontrare [e dialogare con] altre forme di espressione e d’arte. Per “il posto di dio” questo incontro è stato con Fabiola Berton, un’artista di grande talento che mi ha fatto conoscere mio marito Davide.

Nata nel 1983 in Venezuela, laureata in Arti visive, Fabiola Berton è specializzata in 2D e 3D come concept artist, character & background designer, lighting artist, modellazione, texturing, motion graphics, graphic design e art direction. Tra le altre cose, ha lavorato come “artista delle luci e dei colori IB chiave” in Klaus. Lo avete visto? Questo è il trailer.

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Fabiola si definisce in modo semplice, secco, un’artista, e in questa definizione fa confluire le sue passioni e i suoi studi, che si spingono all’agopuntura, all’interior design e allo yoga. Della copertina e delle illustrazioni interne che avevo in mente per il romanzo ho discusso con lei via e-mail, skype e whatsapp, scrutando dal mio schermo la sua finestra sull’Irlanda [attualmente vive a Kilkenny]. Mi aveva molto attratto un suo disegno di Edimburgo su ArtStation, e a quel gioco di luci le ho chiesto di ispirarsi. Fabiola ha letto il testo e ha camminato con me per la strade della mia città attraverso le mie foto, alcuni miei video e qualche strategico link su google maps.

Del concept di copertina mi ha spiegato:

In primo piano c’è Marta e, nella sua testa, il centro storico di Lecce delineato dalla sagoma della chiesa di San Paolo [nel romanzo è inventata, ndr]: un invito a entrare nella mente della protagonista per vivere la sua storia e, allo stesso tempo, per immaginare un immenso campo di possibilità. Una strada che incuriosisce, che sembra non finire, e che propone a chi la guarda di pedalare su una piccola bicicletta o di passeggiare attorno al posto di dio. Ho lavorato perché l’immedesimazione fosse intuitiva, perché l’immagine potesse parlare al mondo in altre lingue.

la copertina del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, con un'illustrazione di Fabiola Berton

Ho visto prima uno schizzo in bianco e nero, poi una prima prova col colore. Sono bastati pochi minuti di confronto per arrivare al risultato finale. Bellissimo, ho detto. Ho chiesto a Fabiola se qualcosa del libro l’avesse colpita in particolare. Mi ha risposto che ne ha amato la picardía. Che cosa vuoi dire?, ho insistito [non conosco lo spagnolo]. E lei: è piccante, è… frizzante.

Hai un modo molto dettagliato di descrivere sia i personaggi che le situazioni. Questo ti fa entrare nella storia, essere non solo un lettore ma vivere i personaggi, essere parte stessa di una storia che, probabilmente, tutti abbiamo vissuto anche se in modi diversi. Il romanzo è audacemente divertente, pícaro e ben scritto, femminile e lunare.

Fabiola, che cosa significa per te essere un’artista?

Penso che in qualche modo siamo tutti artisti. Abbiamo tutti questa particolare sensibilità che, in un modo o nell’altro, ci fa esprimere in modo originale e creativo. Ognuno di noi si esprime nel suo essere unico, particolare.

Sei, come me, amante della natura. Anzi, più che amante.

La natura è mia madre, la mia maestra. Se ci torniamo, potremo vivere davvero.

Quando hai cominciato a dipingere?

A 6 mesi avevo già a portata di mano il mio giocattolo preferito: una penna. Dipingevo tutto quello che incontravo, da me stessa al solito foglio di carta.

particolare dell'illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo "il ballo di santa Lucia", all'interno del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021
particolare dell’illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo “il ballo di santa Lucia”, all’interno del romanzo “il posto di dio” di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021

Ma come e quando hai deciso che il disegno sarebbe diventato il tuo lavoro?

Penso che non sia stata una decisione, ma una chiamata. È quello che sono venuta a fare. Credo che la vita, se la lasci fare e la ascolti attentamente, ti fornisce mappe personalizzate, ti mette lungo i percorsi migliori per te. Devi solo avere il coraggio di percorrerli.

Mi hai detto di aver camminato attraverso molte terre con lingue e culture diverse. Dove hai vissuto? Quali sono i tuoi luoghi del cuore?

Ho vissuto in tanti posti: Venezuela, Italia, Spagna, Irlanda. Sono diventati tutti luoghi del cuore, poiché ne ho ricevuto accoglienza e ho dato loro quello che sono o quello che mi hanno chiesto. Siamo cresciuti assieme, una parte di loro è rimasta in me e io ho lasciato una parte di me in loro.

Quali sono le tue tecniche predilette?

Gli acquerelli e l’arte digitale, per il momento. Lavoro molto anche con la fotografia, poiché sono appassionata di luce.

Quali sono i lavori che, fino a oggi, ti è piaciuto di più realizzare?

Tutte le mie opere portano in sé qualcosa della mia anima. Ognuna mi ha insegnato qualcosa, mi ha dato la possibilità di esplorazione e di incontro con me stessa e il messaggio che voglio comunicare. Il mio lavoro preferito è quello che sto facendo in quel momento.

particolare dell'illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo "viaggio ad Assisi", all'interno del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021
particolare dell’illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo “viaggio ad Assisi”, all’interno del romanzo “il posto di dio” di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021

Dover lavorare con me, cioè in qualche modo non essere completamente libera di interpretare il mio romanzo, è stato un limite o uno stimolo in più?

È stato davvero stimolante lavorare con te, Loredana. È stato meraviglioso il modo che abbiamo trovato per descrivere la tua esigenza di stampare l’anima del libro in immagini evocative. Le immagini permetteranno a chi legge di navigare tra le storie, sia attraverso i colori della copertina che nell’avventura delicata, elegante e monocromatica delle illustrazioni interne che, all’improvviso, si aprono come finestre permettendo di vedere una parte dell’avventura.
Devo dire che lo stile del libro è molto più adulto di quello che sviluppo come stile personale, ma l’ho trovato artistico ed elegante. Mi ha portato alla mia parte più artistica di espressione evocativa.

Quali sono state le difficoltà principali incontrate nel tuo percorso?

Di solito non definisco i piccoli ciottoli della strada come difficoltà, penso che siano semplicemente piccole scorciatoie che portano al vero sentiero. Ringrazio tutte le apparenti “difficoltà”, perché da loro si impara a camminare saldamente dalla parte giusta.

Cosa consiglieresti a una giovane donna che volesse intraprendere la tua stessa strada?

Connettiti con te stessa, con la tua vera parte artistica, connettiti con il tuo messaggio e comunicalo al mondo in modo gioioso, vivace, rinnovato. Il mondo ha bisogno di messaggi ben pronunciati, le immagini sono sempre state i migliori driver, le migliori parole, il miglior linguaggio. Usalo sapendo che possiedi un grande potere e un grande potere è una grande responsabilità. Lungo la strada ricordati di sorridere, goditela e prenditi il tempo per esplorare il silenzio, il vuoto. Svuotati in modo da poter essere riempita di chi sei veramente.

la copertina del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, con un'illustrazione di Fabiola Berton

il 25 aprile esce “il posto di dio”

Il mio nuovo romanzo esce, finalmente, il 25 aprile. Insomma ci siamo: da domenica prossima “il posto di dio” si potrà acquistare sul sito di Collettiva, nella stanza di Collettiva in via Giusti 24 a Lecce (aperta tutti i giorni dalle 15 alle 18) e a richiesta nelle librerie indipendenti. Con mia profonda emozione, apre le pubblicazioni della collana Orlando, che ho ideato e curo per e con Collettiva.

Un lungo percorso

Lavoro a “il posto di dio” dal luglio 2012, da quando su un quadernino intonso presi i primi appunti: le caratteristiche di uno dei personaggi maschili, i passaggi principali della sua vicenda sentimentale. Erano ispirati a una storia vera, che mi era stata raccontata camminando per le strade della mia città. C’è stato poi il dono di un carteggio. Un carteggio contemporaneo, fatto di messaggi su varie piattaforme, tutti salvati e stampati perché potessi leggerli e farne ciò che volevo.

Ho cominciato a scrivere, a riscrivere, a correggere, a salvare, a buttare. Ci sono state discese e salite, letture e riletture, cambi di scenari e di personaggi. Accompagnata, per un tratto, dalla ‘mia’ writing coach Alessandra Minervini [per saperne di più su questo passaggio, trovate quattro live sul mio profilo Instagram].

Quando ho considerato la stesura terminata, più o meno nel gennaio 2019, ho lavorato per la pubblicazione approdando felicemente a Collettiva. Nei due video che seguono vi racconto perché.

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Collettiva è non la “casa” ma la “stanza” editrice con cui esce “il posto di dio”. Con la scrittrice Elisabetta Liguori facciamo una breve introduzione al “metodo” Collettiva e a due delle attività dell’editrice.
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Collettiva è stata ideata dalla scrittrice e femminista Simona Cleopazzo: ve la presento.

Di cosa parla il posto di dio?

Siamo a Lecce, alla fine anni Ottanta. O meglio: il clima è quello di Lecce, l’atmosfera pure, ma tutti i luoghi del romanzo sono inventati. Per Marta, la protagonista, è tempo di cresima e di dubbi esistenziali. Come citato nella quarta di copertina:

Non essere vergine procurava a Marta un serissimo motivo per dubitare dell’opportunità di diventare soldatodicristo.

Mentre ne parla con la sua amica Lucia durante le prove del coro nella parrocchia di San Paolo, una vecchia statua di Gesù crocifisso perde un piede. È un segno?

A proposito di questa scena, che si sviluppa in apertura del romanzo e nel corso del primo capitolo, scrive Sara Maria Serafini, direttrice di Risme, dove l’incipit è stato pubblicato (numero 9, pagina 76, con un’illustrazione di Emanuele Simonelli):

Le confidenze struggenti e un po’ spinte legate al primo amore si
possono fare in chiesa? Loredana De Vitis ci dà la risposta esatta.

Da qui una giostra di eventi comincia il suo giro. Ci salgono zia Roberta, con cui Marta è cresciuta fin da piccolissima, orfana dei suoi; la vicina di casa Olga, che la ragazza vorrebbe come madrina, e il marito Giuseppe; il primo amore Riccardo, principale causa di quei dubbi; e una piccola folla di altri personaggi che s’affacciano man mano nella storia. Tra bugie, sotterfugi, confessioni ed epifanie, Marta troverà la strada prima di tutto per non tradire se stessa.

Una storia normale

A proposito de “il posto di dio”, Collettiva scrive che

Ci vuole un gran coraggio per descrivere la normalità, e l’autrice lo fa con la sua penna pungente e ironica e con la sua voce sempre riconoscibile.

e che

Attraverso Marta, l’autrice racconta donne che parlano il linguaggio diretto della normalità, nominandola senza finzione: pene, verginità, aborto. E uomini alle prese con le proprie debolezze e pulsioni, nominate senza vergogna: l’inutilità del celibato sacerdotale, il sapore del sesso di una donna.

per concludere che

Su tutto e tutti vibra luminosa l’autentica registrazione di ciò che accade ogni giorno sotto i nostri occhi.

Ogni volta che mi si chiede quanta realtà e quanta immaginazione ci sono nelle cose che scrivo, dico sempre che la realtà è di gran lunga più incredibile della fantasia. La mia immaginazione è un tentativo di avvicinarmi alla realtà.

La copertina e le illustrazioni

L’illustrazione di copertina e due illustrazioni interne, subito prima dei capitoli 6 – il ballo di santa Lucia – e 15 – viaggio ad Assisi – sono di Fabiola Berton.

La prima presentazione [online]

La prima presentazione [online, poi speriamo anche in una prima in presenza molto presto] è in programma sulla pagina Facebook di Collettiva sabato 24 aprile 2021 alle ore 19.30; con l’introduzione e il coordinamento di Teresa Musca, che fa parte della redazione di Collettiva, de il posto di dio discuteranno la travel blogger Sabrina Barbante e Luca Bandirali dell’Università del Salento.

è nata Orlando: lèggere leggère

Nel giorno del compleanno di Virginia Woolf nasce la nuova collana cui ho pensato giorno e notte per anni anche quando non ci ho pensato. Si chiama Orlando. Non ho avuto bisogno di cercare una stanza, quella stanza c’era già, e io avevo la straordinaria fortuna di condividerla con un manipolo di donne eccezionali che credono come me nel potere creativo e trasformativo della parola: Collettiva edizioni indipendenti. Da questa alleanza verranno alla luce nuove, bellissime storie.

cos’è Orlando

Orlando è una collana che ho ideato e che dirigerò con “Collettiva edizioni indipendenti”.

perché Orlando

Orlando è un tributo a una Virginia Wolf nella quale non rimanere intrappolate, che si nutre delle sue profondità per prendere il volo. Orlando è un’idea di mondo, ideato e creato dal potere della parola: terre e lune, foreste e deserti, metropoli e villaggi, singoli e moltitudini sono plasmati nel tempo e nello spazio dal fervore creativo che solo può risiedere in un corpo. Un corpo che sente, pensa e crea. Col corpo capiamo, col corpo elaboriamo. Col corpo viviamo in quel mondo fondato sulla parola. Orlando è l’infrazione sistematica dei confini. È romanzo e racconto, storia e saggio, donna e uomo, uno stile e cento. Orlando è la libertà come presupposto, l’ironia come metodo, la leggerezza come bandiera.

per chi Orlando

Orlando propone storie per chi non teme l’uso del femminile universale.

Orlando. lèggere leggère

Due titoli nel 2021 [notizie nelle prossime settimane].
Se sei una scrittrice, ti riconosci in questa collana e hai una proposta da farmi, contattami.

Artigianato e politica come trama e ordito: “Le Costantine” dal Salento a Dior, oltre la moda

Non solo stoffa: come trama e ordito, sui telai s’intrecciano artigianato e politica, tradizione e futuro, attraverso un’alleanza tra donne che si tramanda da generazioni. Nella collezione cruise 2021 di Dior presentata online al mondo da Lecce la scorsa estate, il laboratorio di tessitura artigianale della Fondazione salentina “Le Costantine” ha avuto un posto speciale: ne ho accennato in due post [ ogni sbaglio è un nuovo pinto / sputare [sempre meglio] su Hegel ], e come promesso ecco un primo approfondimento. Lo pubblico con orgoglio anche perché ho presentato parte di questo lavoro al mio esame per l’iscrizione all’elenco professionisti dell’Albo dei giornalisti: non solo è andato bene, ma mi ha anche portato nuovi interessanti contatti e spunti che, nelle prossime settimane, saranno oggetto di ulteriori post. Ma torniamo alle Costantine.

Se la direttrice creativa della moda femminile di Dior Maria Grazia Chiuri, di origini salentine per parte di padre, ha affidato alla Fondazione la produzione di molte delle stoffe utilizzate nella collezione, ne ha voluto il motto “cantando e amando” su diverse gonne e così, di fatto, l’ha rilanciata a livello internazionale, non è un caso. Vi racconto perché.

Fondazione Le Costantine, Casamassella (Uggiano La Chiesa). foto Loredana De Vitis

Immersa tra gli ulivi e la macchia mediterranea di Casamassella, frazione di Uggiano La Chiesa – poco più di 4.300 abitanti a circa sei chilometri da Otranto -, la Fondazione è nata dalla visione e dalla lungimiranza primonovecentesca delle nobildonne Carolina De Viti de Marco, sorella del noto economista Antonio, delle figlie Lucia e Giulia Starace, della cognata Harriet Lathrop Dunham (alias Etta De Viti de Marco, moglie di Antonio) e di sua figlia Lucia De Viti de Marco. Oggi è presieduta da Maria Cristina Rizzo, avvocata, già sindaca di Uggiano e da vent’anni sua instancabile sostenitrice, e si occupa di ospitalità, agricoltura biodinamica, formazione e, appunto, tessitura.

Per il laboratorio di tessitura, l’incontro con Dior ha significato aumentare la produzione fino a passare da sei artigiane part time a 24 full time, e destare l’interesse di testate italiane ed estere (per esempio www.vanityfair.it / fashionpress.it / elle.be) e, soprattutto, di altre case di moda. I tessuti studiati con Maria Grazia Chiuri ripropongono antichi disegni con combinazioni inedite di colori, e sono stati prodotti da donne tra i 35 e i 65 anni, qui formate nel tempo, su telai lignei di cui i più antichi sono della fine dell’Ottocento.

Fondazione Le Costantine, Casamassella (Uggiano La Chiesa). Telai. foto Loredana De Vitis

«Nell’immaginario collettivo, in quanto attività svolta da donne in contesti domestici, la tessitura era considerata di scarso pregio», mi ha raccontato Maria Cristina Rizzo, «Nella convinzione che l’emancipazione femminile passi dal lavoro, con creatività e una puntuale riorganizzazione siamo riuscite a produrre con crescente successo tappeti, arazzi, borse, sciarpe e molto altro utilizzando materie prime italiane di altissima qualità. Il 3 marzo la telefonata di Salvemini, che voleva passarmi Maria Grazia Chiuri».

Carlo Salvemini, sindaco di Lecce, era stato contattato dalla direttrice creativa di Dior per una vera e propria attività di scouting delle “eccellenze” territoriali: artigianato tessile, arti e musica popolare confluiti nella collezione e nell’evento-sfilata, d’un tale successo da spingerlo a proporre per l’artista la cittadinanza onoraria. «Conosco da anni la serietà, l’abnegazione e la grande qualità del lavoro della fondazione e della sua presidente, per cui è stato naturale indicare, tra le altre, questa realtà», mi ha spiegato Salvemini, «Sono felice che da quella telefonata sia nato un rapporto andato oltre l’evento di piazza Duomo (dove si è svolta la sfilata, ndr). Questi legami testimoniano le ricadute della sfilata, il valore delle produzioni tessili artigianali del Salento e le potenzialità che possono esprimere sul mercato mondiale».

In un’intervista al magazine del Financial Times “How To Spend It”, Chiuri ha spiegato (in inglese nell’originale): «Ho detto loro quanto fossi felice di poter collaborare. Era importante che la collezione rappresentasse un dialogo con questa comunità». I primi ordini sono arrivati subito dopo la visita di Chiuri al laboratorio di Casamassella. Perché questa immediata intesa? Maria Cristina Rizzo mi ha risposto: «Credo che abbia trovato la qualità tecnica che le serviva e una filosofia che condivide, condivide il nostro modo di interpretare il femminismo».

Fondazione Le Costantine, Casamassella (Uggiano La Chiesa, provincia di Lecce). Telaio. foto Loredana De Vitis

Per saperne di più su questa filosofia si può cominciare leggendo “Fili della trasmissione” (edizioni Grifo, 2018) di Elena Laurenzi, la ricercatrice dell’Università del Salento che per tre anni ha ricostruito la storia della Fondazione grazie a un progetto finanziato dalla Regione Puglia su fondi europei: «È una vicenda che ha implicazioni con la storia del Mezzogiorno, la storia economica e politica, la storia delle donne. Lo statuto riflette la visione illuminata di una genealogia di donne che nel corso del Novecento intrapresero iniziative avanguardiste sul piano sociale ed economico, incrociando idee e relazioni con i movimenti culturali e politici più interessanti del tempo: il femminismo e la filantropia politica, la pedagogia montessoriana e steineriana, l’ecologismo».

Fondazione Le Costantine, Casamassella (Uggiano La Chiesa, provincia di Lecce). Telaio. Nelle foto le fondatrici: da sinistra Lucia de Viti De Marco e Giulia Starace. foto Loredana De Vitis

Tutto cominciò con la scuola di merletto aperta a Casamassella nel 1901 da Etta e Carolina de Viti de Marco, consorziata con le “Industrie femminili italiane”, una cooperativa che fungeva da tramite per la promozione e la commercializzazione dei manufatti di oltre 400 laboratori. I prodotti di Casamassella vinsero premi alle esposizioni universali di Milano (1906) e Bruxelles (1910), vennero esibiti a Londra e in altre capitali europee, e altre scuole di merletto sorsero a New York e in Sudafrica. «In questa rete non si esportavano solo tecniche, ma un modello in cui la cittadinanza delle donne era promossa attraverso il riconoscimento del valore del loro sapere e del loro lavoro», mi ha detto Laurenzi. Una dinamica che si è ripetuta, ho suggerito. «Sì, si sono riannodati i fili della trasmissione: ancora una volta, è stata vincente un’alleanza tra donne basata sulla potenza e sulla creazione».

Lo riscrivo: “un’alleanza tra donne basata sulla potenza e sulla creazione”. Un’idea che mi guida da anni e sulla quale voglio continuare a lavorare. Appuntamento al prossimo post con un profilo di Maria Cristina Rizzo.

(ho scattato queste immagini nell’agosto 2020)

donne, matematica & politica

Nelle scorse settimane la matematica e scrittrice Chiara Valerio ha tenuto all’Università del Salento, dove lavoro ogni mattina da vari anni in qua, un seminario serio e faceto sulla politicità della matematica. Con le organizzatrici, docenti del dipartimento di Matematica e Fisica “Ennio De Giorgi”, l’avevano chiamato “Chiacchiere matematiche sul presente”, ed è stato esattamente questo. Ero lì, oltre che per il mio lavoro, per un profondo interesse personale per l’autrice e per le sue idee. M’è piaciuto ascoltare i matematici e i fisici (soprattutto i fisici) farle domande, m’è piaciuto come al solito anche il suo modo di esprimersi, di condire di colta ironia considerazioni molto serie, di mettersi sempre in discussione e di ripetere ogni volta che serviva “ci devo pensare”.

Tra acrobazie temporali che non hanno niente a che vedere col suo libro e la sua scrittura (e di cui poi vi racconterò), ho finito di leggere “La matematica è politica” (Einaudi), trovandovi una serie di spunti interessanti e motivi extra per il mio già convinto sostegno alla formazione scientifica (soprattutto per le ragazze).

L’autrice ha chiarito più volte che si tratta di una committenza, che l’ha scritto cioè su invito dell’editore, interessato a un altro libro d’argomento matematico dopo “Storia umana della matematica”, e che – dopo averne abbandonato da anni la ricerca (ha un dottorato in calcolo delle probabilità) e l’insegnamento – ha pensato di poter e voler scrivere sul tema solo un breve saggio sulla convinzione che la matematica aiuti a riconoscere la differenza tra autorità e regole. La prima imposta, le seconde oggetto di contrattazione. Di questi tempi, discrimine utile come l’acqua e il sole. Le sue argomentazioni mi convincono. Sì, sono d’accordo.

La matematica insegna che le verità sono partecipate, per questo è una disciplina che non ammette principi di autorità.

[p. 50]

In matematica alle superiori prendevo ottimi voti, ma a costo di una fatica indicibile, col relativo effetto respingente sull’idea di proseguire in questo tipo di studi. Il mio insegnante di matematica, e in fondo anche i miei genitori per un periodo, davano per ovvio che all’università avrei scelto ingegneria (da notare: non matematica, ingegneria), ma io pensavo solo alle decine e centinaia di esercizi che risolvevo di settimana in settimana per arrivare preparata ai compiti in classe o alle interrogazioni (leggi: cercavo di avere in tasca il maggior numero possibile di “casi” già visti) e speravo presto di lasciarmi alle spalle quelle frustrazioni. In breve, non mi ci sentivo “portata”. E invece…

Non è la matematica a scoraggiare […] ma il modo in cui essa è scritta e rappresentata. […] La matematica, a scuola, si insegna nel vuoto.

[pp. 4-5]

Può darsi allora che se, come Valerio scrive, avessi potuto studiare la matematica in modo diverso, meno “sospeso”, più contestualizzato, le cose sarebbero andate diversamente? Chi lo sa? Non mi sono mai pentita di aver studiato filosofia: anche quella credo mi abbia dato strumenti per discernere tra autorità e regole, e per avere un’idea articolata del concetto di verità. Però questo saggio mi ha riconciliata con quella parte di me che era [ed è] attratta dalle scienze esatte, e mi ha convinta che è essenziale integrare sempre meglio con le scienze [esatte e non] la nostra formazione italiana d’impostazione così smaccatamente crociana / gentiliana. Soprattutto per le ragazze. Perché? Per gli stereotipi che pesano sulle nostre scelte, e per quelli che pesano sul nostro lavoro, e per quelli che pesano sulle nostre reazioni, e per quelli che – ancora prima – pesano sul nostro ragionamento.

Eccone un esempio, tornando al seminario. Di tutte le domande che le potevo fare, ho scelto di farle la più emotiva (per me), frutto di periodici scoramenti al pensiero (e alla consapevolezza) che dobbiamo, pare all’infinito, insistere su certi concetti [cos’è il sessismo, perché vogliamo la parità eccetera eccetera eccetera]. Scoramento che credo sia evidente nella foto qui sotto (scattata dalla collega Daniela Dell’Anna, che ringrazio).

Vanità a parte (scusate, non ho resistito: è la mia prima e unica foto con la mascherina indosso, non ne ho mai volute fare), torniamo alla domanda. In soldoni le ho chiesto: tu che sei matematica & scrittrice, e che ultimamente sei tanto impegnata sulle… “questioni di genere” [l’avete vista per esempio a “Erosive“?], suggeriscici un metodo. Che metodo dobbiamo usare per rendere più efficace il nostro lavoro politico?

E lei (sintesi mia, abbastanza fedele):

Non mi sono resa conto per molto tempo che ci fosse un problema di rappresentazione femminile: studiare matematica ti rende molto forte sulle categorie e molto labile sui generi.
Non vedevo il problema perché nella mia famiglia non c’erano state distinzioni di genere. E poi perché, nello studio della matematica, di nuovo non ho incontrato distinzioni di genere. Ricordo sempre che, dopo un’ora e quaranta d’esame, il professore Vittorio Coti Zelati mi chiese “Valerio è il nome o il cognome?”. Non mi voleva offendere, se l’era chiesto senza guardarmi. E questa è una grande liberazione quando sei ragazzo o ragazza. Vai lì come se fossi una specie di volume teorico in mezzo ai corridoi del dipartimento. Almeno, per me è stato così.
Poi arrivo nella realtà e capisco che c’è una questione. Ed è anche vero che se non avessi avuto l’impatto d’urto di Michela Murgia non ci sarei arrivata.
In effetti la rappresentazione culturale ha a che fare con la rappresentazione demografica. Se le donne sono la metà, perché non devono essere rappresentate? E poi un’altra questione. Le donne hanno cominciato a sviluppare quella parte di cervello che è relazionale con 1.300 anni di ritardo rispetto agli uomini. Dobbiamo avere coscienza che va incrementata quella parte del cervello. Perché le donne si sconvolgono quando ricevono una critica in pubblico? Perché sono meno abituate socialmente a farlo. Allora bisogna semplicemente appropriarsi di quell’abitudine sociale che è anche parlare in pubblico, essere contraddette, assumersi responsabilità, casomai le manette. Le funzioni vanno assunte, bisogna prendersele, non rifiutarle.

[sorvolo sulla “spiegazione” della foto scattata al libro: sono cose su cui sto lavorando, e sono certa che sapete di che si tratta]

La matematica, come spesso Valerio ripete, è una grammatica di relazioni. Esercitiamoci!

Vi lascio il link al video integrale del seminario. A presto!

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i “femminili singolari” di Vera Gheno

Da femmina singolare di mestiere scrittora, come mi definisco, mi sono letteralmente goduta il recente saggio di Vera Gheno “femminili singolari. il femminismo è nelle parole” (effequ). Come scrive l’autrice, sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer, il libro vuole contribuire

a divulgare le informazioni corrette riguardo la questione dei femminili, in modo che chi vuole o vorrebbe usarli sia informato a dovere […]

Con metodo scientifico, nel testo Gheno sostiene la correttezza e l’opportunità di utilizzo di parole come sindaca, architetta o avvocata che, a parer mio, dovrebbero ormai essere usate senza tante storie e che invece sono ancora materia di logoranti polemiche. Gheno smonta tutti gli argomenti a sfavore dei femminili, tra i quali quello “estetico” [i femminili sarebbero “cacofonici”], da sempre il mio preferito:

Il criterio estetico è perfettamente accettabile, anzi, estremamente importante, in letteratura o in poesia. Ma nella lingua dell’uso l’estetica è molto meno rilevante dell’utilità. […]
Io non uso i femminili per dimostrare alcuna parità. Li uso perché li reputo naturali.

Per non addentrarmi a ragionare di potere, mi limito a un’ultima utile citazione:

dal momento che la lingua può anche contribuire a modificare il nostro modo di vedere le cose, l’uso dei femminili può davvero servire per rendere più normale la presenza delle donne in certi ruoli.

E così credo di aver tracciato il percorso del saggio. Ma c’è un altro aspetto importante: nell’argomentare, Gheno sceglie di dare dignità a una serie di terribili commenti sul tema che riporta da Facebook o Twitter, rispondendo nel merito con ammirevole pazienza. Cosa che già faceva [e fa quotidianamente] sui suoi profili social e oltre. Certo, Gheno è una “sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer”, è il suo lavoro, ma la sua pazienza è davvero infinita. Davvero. Sento il bisogno di ringraziarla pubblicamente.

Tornando al mio godimento [che, come si vede dalla foto, si è chiuso al parco vicino casa, mentre i maschi della mia vita si divertivano a fare altro], questo aspetto è stato per me una zona d’ombra. Quel tipo di commenti mi disgustano, ed è stato un peso doverli leggere. Ma è giusto conoscerli, è giusto. E se tutte noi prima o poi arriviamo alla consapevolezza del meccanismo per il quale gli uomini ci spiegano le cose, Gheno in questo testo è capace di deliziare pure puntando il dito [a suo modo, molto educatamente] su alcuni pregevoli esempi di minchiarimento.

Mi interesso di queste cose da almeno dieci anni, per impegno politico e per amore della mia lingua: il saggio di Gheno ne è un bel compendio, ben scritto, divulgativo, di cui consiglio la lettura. L’autrice mi perdonerà, spero, se essendo una fan di Alma Sabatini insisto con la desinenza zero e impongo [ma per me sola] scrittora.

Per chiudere, l’occasione mi è gradita per soffermarmi brevemente sulla gran quantità di feccia recentemente riversata sulla studiosa, a partire dal suo lavoro sullo schwa (leggi cos’è su Treccani: http://www.treccani.it/enciclopedia/sceva_(Enciclopedia-dell’Italiano)/, intervista a Gheno che sintetizza la polemica e fornisce ulteriori precisazioni: https://thesubmarine.it/2020/08/03/schwa-linguaggio-inclusivo-vera-gheno/).

Ho conosciuto personalmente Gheno anni fa a Lecce, quando Conversazioni sul futuro mi chiese di presentare il suo “Guida pratica all’italiano scritto”. Non ci siamo più viste, non siamo amiche. Quella che segue è una mia opinione, personale [ogni volta devo ripetere che è ovvio, ma non si sa mai, quindi lo ridico], basata su quello che ho letto.

Il pessimo stile e il cattivo gusto con i quali è stata attaccata sono tanto odiosi perché… s’attaccano a un suo “difetto” imperdonabile nel nostro mondo tenacemente patriarcale: ce l’ha tutte. È intelligente, preparata, cortese, ironica. Non scrive mai fesserie, non cede agli insulti. È giovane, è bella, è madre. Troppo. Rompe ogni stereotipo e il suo contrario.

Non ho tempo di aspettare il tempo galantuomo. Il mio appoggio pubblico lo pubblico adesso.

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