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il mio aneurisma e i tempi della sanità

In queste ore questo blog e la storia del mio aneurisma sono oggetto di un articolo/intervista di Antonello Cassano su Repubblica Bari. Cosa è accaduto e che cosa ho detto, in dettaglio, al giornalista (che ovviamente ha dovuto sintetizzare)?

Il 21 marzo 2016 alle ore 14.45 circa ci siamo incontrati in corridoio, al piano terra dell’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce, dov’ero per il mio controllo periodico nel reparto di Neuroradiologia. Antonello mi ha chiesto di commentare tempi e organizzazione dei controlli specialistici.

Gli ho chiesto prima di tutto per che testata lavorasse, quale fosse il suo nome. Forse l’ho spaventato. Mi sono fidata.

Gli ho raccontato questi fatti:

  • in occasione di due risonanze magnetiche di controllo (con e senza contrasto), effettuate nel novembre 2014 circa tre mesi dopo l’operazione di embolizzazione, i medici indicano sul referto la necessità di un nuovo identico controllo sei mesi dopo;
  • all’inizio di aprile 2015, convinta d’essere nel giusto margine di tempo, vado in reparto e chiedo informazioni su come prenotare le nuove risonanze;
  • l’infermiera dell’accettazione del reparto mi fa presente che è impossibile ottenere l’esame specialistico con così poco margine, perciò mi consiglia di passare attraverso l’Alpi (Attività libero professionale intra moenia), perché altrimenti l’esame sarebbe stato possibile in circa un anno;
  • non potendo permettermi di far slittare così tanto il controllo, vado allo sportello Alpi e in cinque minuti ottengo di fissare i controlli per maggio 2015 dietro un pagamento di oltre 300 euro;
  • in occasione del controllo (andato bene) di quel maggio 2015, sul referto i medici consigliano un nuovo controllo l’anno successivo;
  • chiedo subito al medico curante la ricetta, nel giugno 2015 vado al Cup (Centro unico di prenotazione) e ottengo che le risonanze vengano fissate, appunto, per il 21 marzo 2016;
  • ecco quindi che, con meno di 50 euro, posso effettuare i controlli nei tempi giusti e pagando una cifra ragionevole.

Così ho imparato a gestire la burocrazia, evitando che la burocrazia gestisca me.

Sarebbe necessario secondo me:

  • informare meglio e in dettaglio i pazienti sia sullo stato di salute che sui passaggi burocratici: ho dovuto e devo troppo chiedere e insistere per capire cosa succede, cosa è consigliabile e cosa non lo è, che cosa mi serve e che tipo di richieste devo far fare al medico; ho sempre la sensazione d’esser lasciata sola a districarmi in tutto; i pazienti sono persone e vanno presi in carico completamente;
  • diminuire i passaggi burocratici (che come paziente non capisco perché sono tenuta a conoscere): per esempio se in reparto dicono che serve un controllo annuo, perché questo controllo non può essere fissato automaticamente, e nei tempi giusti, senza passare nuovamente dal medico curante e senza sperare in una data utile per le specifiche esigenze?
  • ottimizzare l’uso delle risorse: perché nello stesso reparto pago con Alpi e faccio un esame in 15 giorni, pago il ticket e lo posso fare in un anno?, la differenza è incomprensibile, c’è qualcosa che non quadra.

Che ne dite?

[Never give up, never!]

per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (5/5)

Ho scattato questa foto pochi minuti dopo essermi sbucciata le ginocchia uscendo dall’ospedale. Un dolore… conosciuto, bello, “normale”. Altri 15 minuti ed ero seduta su un divano caro e familiare. Da quel momento e per molte settimane, per non essere lasciata mai sola, m’hanno fatto fare la spola tra casa mia e casa dei miei genitori. Sola mai per davvero, che fosse per mangiare, dormire e persino per andare in bagno. Era tangibile il terrore diffuso all’idea di un mio capogiro [o peggio], all’idea insomma che accadesse qualcos’altro di misterioso al mio cervello. Quelle settimane sono trascorse dormendo non meno di nove ore per notte e non meno di altre sei ore durante il giorno. Un sonno che pareva… storico.

La diplopia è andata avanti a lungo, ma meno di quel che m’avevano prospettato. Benda sull’occhio sinistro, camminando sottobraccio a qualcuno, costantemente sorvegliata, sono riuscita non so come a superare anche questa. L’occhio destro ha progressivamente ripreso a muoversi: ogni mattina Davide mi osservava tentare di ruotare sincronicamente gli occhi.

  • Si muove un po’ di più adesso.
  • E se faccio così?
  • Manca ancora qualche millimetro a destra.
  • Va bene.
  • Mi vedi ancora doppio?
  • Sì.

A un certo punto sono riuscita a far percorrere un giro completo di 360 gradi a entrambi gli occhi. Era fatta. Ho potuto ricominciare a guardarmi allo specchio [cosa difficilissima soprattutto i primi giorni], e il mondo ha ripreso l’aspetto che conoscevo. Niente più strade che finiscono su portoni o lampioni, niente doppie porte, doppi Davide e doppio tutto.

  • Oggi ti vedo uno. Sei uno!
  • Sono uno? Dai!
  • Sì!!

Mi hanno coccolato tantissimo le mie gatte Julia, Eleanor e Yoko, alle quali il mio pensiero correva spesso anche quand’ero in terapia intensiva.

  • Le piccole?
  • Stanno bene.
  • Hanno mangiato? La cacca?
  • Tutto bene, Loredana, le ho portate anche dal veterinario per i vaccini. Non ti preoccupare.

Mia madre Teresa, mio padre Vittorio, mia sorella Alessandra, mio fratello Francesco e Davide sono stati magnifici anche nell’affrontare il mio sempre più deciso rifiuto a essere trattata come un’incapace. Diciamo che posso diventare veramente molto… fastidiosa in certi casi! 😉

Ho ripreso a leggere, a scrivere al computer, a camminare da sola, a fare sforzi fisici [gradualmente sempre maggiori]. Sono queste le ultime [spero] settimane di riposo, impegnate nelle ultime [spero] analisi e verifiche varie di quali potrebbero essere le cause di una pressione arteriosa così poco gestibile. Il giorno in cui cavalcherò di nuovo la mia bicicletta sarà il giorno più bello di tutti.

Oltre al mio medico di base, che sorridendo ha concordato con mia madre sul fatto che siamo davanti a un miracolo [che tenerezza], mi hanno seguita la mia paziente e incredula oculista, il mio ginecologo, brevemente un dermatologo e da alcune settimane una bellissima nutrizionista con la quale lavoriamo per far venir giù la pressione in modo più naturale, con dosaggi più bassi di farmaci. E già con ottimi risultati.

Con quello che è diventato il mio cardiologo, e che seguiva già mio padre, gli aggiornamenti si scambiano adesso anche via sms. Il chirurgo che m’ha operata verificherà tra poche settimane com’è andata a finire nel mio cervello: sono necessari almeno tre mesi dopo un’operazione di embolizzazione come la mia.

Da dieci giorni a questa parte mi sento molto meglio. Anche per questo ho voluto e potuto raccontare questa storia. Per poterlo fare, ho riannodato i fili dei ricordi, ho chiesto di tutto a tutte e tutti, ho riletto messaggi e rivisto immagini. Ripenso ora con divertimento a molte delle cose accadute in questi mesi attorno a me e a questa faccenda.

Ripenso per esempio alla reazione di un amico ipocondriaco:

  • Hai saputo? Loredana sta male, aneurisma cerebrale!
  • Cosa? Ma se l’altra sera stava bene!
  • Che c’entra? Sono cose che accadono da un momento all’altro.
  • Come sarebbe da un momento all’altro? E quali sono i sintomi?
  • Nessun sintomo.
  • Cosaaaaaa?

Per esempio ad alcuni messaggi inconsapevolmente ironici:

  • Cara Loredana, mi è giunta voce di un problema di salute molto grave a cui saresti sopravvissuta. Sono sicura che si tratta di una notizia ingigantita dal passaparola, perciò rassicurami. Ti prego.
  • Cara M., aneurisma cerebrale. Sono viva, passa da casa quando vuoi.
  • Adesso.

Per esempio ad alcune telefonate drammaticamente surreali:

Ah Loredana, non sai che paura. Per un cosa così, un’amica di un’amica è morta all’istante.

Per esempio alle “crisi” scatenate in chi, colpito da ciò che m’era accaduto, ha voluto condividere con me profonde riflessioni sulla vita, la morte e l’amore. E alle quali ho risposto puntualmente: Oh, l’aneurisma s’è rotto a me. E sono viva! Tranquilli, dai!

Siamo alla fine, è arrivato il momento di spiegare perché dico “per fortuna”. Perché? Questa è una storia che probabilmente avete ascoltato mille volte e che magari in molte e molti avete vissuto: un evento traumatico che cambia radicalmente, in meglio, la prospettiva. Ecco io, semplicemente, ho cambiato priorità. Perché mi pare ora di riconoscere in modo più veloce, semplice e chiaro quali sono le cose importanti. E poi desidero esercitare la forza del mio corpo, curare e coltivare la sua capacità di resistere, reagire e andare oltre.

A chi mi ha chiesto “Hai mai avuto un momento di sconforto? Di paura?”, ho sempre risposto “No, mai”. Lo ripeto ogni volta, ci penso e ci ripenso e la mia risposta non è mai cambiata e non cambierà. No, io non ho avuto paura. No. Never give up. Never.

per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (4/5)

Ci ho messo altri nove giorni per uscire dall’ospedale, principalmente a causa di un febbrone così resistente da richiedere un consulto in Virologia. Un possibile, temporaneo “rigetto” delle spirali di Guglielmi è stato pure ipotizzato. Di qualunque cosa si trattasse, al quarto cambio d’antibiotico ho immaginato i medici fare la ola: finalmente funzionava.

  • Il problema è la febbre, ci preoccupa la febbre. Se non scende quella… ma quanto ha oggi?
  • Stamattina 36.4!
  • Ah bene! Due/tre giorni così e può uscire.

La mia pressione arteriosa, poi, era imprevedibile. Faccenda non nuova, ma che alla luce dell’accaduto aveva preso una piega preoccupante. Necessario un consulto in Cardiologia:

  • Bisogna cambiare farmaco, lo scrivo sulla tua cartella.
  • Lo dovrò prendere per sempre?
  • Penso proprio di sì. È un problema?
  • Non credo di poter rispondere che lo è.

Nel frattempo, il recupero progressivo dell’autonomia. Mangiar da sola, sedermi più spesso, alzarmi e fare qualche passo fino al bagno [iuppi!].

  • Ha detto la dottoressa che devi fare con calma. Perché non aspetti domani per alzarti?
  • No, oggi.
  • Beh allora dobbiamo aspettare tuo padre e Davide, io da sola ho paura di non reggerti se ti gira la testa.
  • Va bene, ma io oggi mi alzo.

Quando le vene hanno proclamato lo sciopero permanente, dai medici per fortuna è arrivato l’ok a continuare la terapia farmacologica con gocce, pastiglie e punture. Il mio braccio sinistro era combinato come vedete nella foto, il destro in modo simile. Non ho voluto che vi venisse applicato alcun tipo di pomata: desideravo guardare quegli ematomi intensamente e godermeli scomparire.

L’occhio destro rimaneva fermo: paralisi del quarto nervo cranico. Mi hanno consigliato di bendare il sinistro per “costringere” il destro a sforzarsi, con grande paura di mio nipote.

Durante quelle nove notti, vegliata a turno da mia madre e da Davide, ho finalmente smesso di fare incubi. Persone e cose e oggetti di dieci o più anni prima mi avevano fino a quel momento perseguitata. Il sonno tuttavia non era tranquillo, anche se progressivamente il mal di testa diminuiva. Ero inquieta e mi sentivo tramortita dagli antidolorifici. La prima giornata senza ketorolac è stata una bellissima giornata. Avevo dolori solo vaghi e momentanei, e mi sentivo anche piuttosto lucida! Potevo finalmente chiedere a Davide, che aveva pazientemente aggiornato amiche e amici sull’andamento del ricovero, di leggermi le decine di messaggi nel frattempo arrivati. In qualche caso ho dettato una risposta. E appena il senso di nausea all’idea dell’uso di un qualunque apparecchio elettronico mi è passato, ho scritto su faccialibro “non solo vivo ma ho anche smesso di vegetare. never give up!”. Una grande mossa: le acque si sono acquietate, sono diminuiti telefonate e messaggi, mi sembrava di poter godere di più tranquillità. Avevo un assoluto bisogno di riposare.

Il 29 luglio le dimissioni, con ulteriori raccomandazioni di riposo, una lista di farmaci da assumere e, nel salire un gradino, due ginocchia sbucciate.

per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (3/5)

L’operazione è andata bene: l’aneurisma è stato efficacemente embolizzato con due spirali di Guglielmi. La miglior procedura, la più opportuna in un caso come il mio, quello di un “soggetto giovane, in salute, con un’emorragia contenuta [e sottocorticale]”. Una serie di fortune, forse, o forse – almeno per mia madre – il segno di uno sguardo ultraterreno benevolo e protettivo. So che diverse mie amiche e persone a me care, credenti, hanno pregato per me. Le ringrazio infinitamente. Da parte mia, invece, nessuna forma di… misticismo, né in quei giorni né in quelli successivi, ho capito solo che avevo bisogno di sentire per bene lavorare il mio corpo. La presenza della mia famiglia, delle mie amiche e dei miei amici era fondamentale, il sapere medico era indispensabile, ma sentivo chiaramente di poter contare solo su di me. Avevo bisogno di concentrarmi su me stessa, percepire in modo nitido cosa mi facesse stare bene e cosa no: chi sentire o vedere e quando [cioè per molti giorni praticamente nessuno], come e quando muovere la testa [il collo cominciava a sciogliersi], come e quando girarmi su quel letto antidecubito, se insistere perché si sospendesse un certo tipo di antidolorifico che mi faceva sentir peggio.

Rientrata in terapia sub-intensiva con una stretta medicazione nella zona dell’inguine, avevo infatti continuato ad avere un forte fortissimo mal di testa.

  • Tieni la gamba ben stesa.
  • Posso avere del ghiaccio?
  • Del ghiaccio?

Potevo avere del ghiaccio. L’ho messo sulla testa finché ho praticamente smesso di sentirla. L’infermiere era perplesso:

  • Loredana, se tieni così quel ghiaccio finirai col rimbambirti.
  • Se continuo ad avere questo mal di testa rimbambisco lo stesso.

Ho retto così. E con fiumi, appunto, di antidolorifici. Quando l’effetto dell’anestesia è passata ho ricominciato ad aver fame. Ho voluto sedermi, mi hanno pazientemente imboccata. Non percepivo alcun sapore, mi bastava avere qualcosa nello stomaco. Pastina, verdura lessa, frutta cotta. I liquidi con la cannuccia.

No, niente carne, grazie. Non mangio carne. No, non è che sono vegetariana. Il pesce lo mangio, non mangio carne. Non importa, lasciamo perdere.

Erano tutti ottimi segni. Il 20 luglio, alle prime luci del mattino, ho aperto gli occhi e mi sono sentita più osservata del solito. Una donna con occhiali d’osso e capelli neri – ho scoperto poi che era l’unica donna nello staff medico – era lì a sfogliare la cartella clinica e a osservarmi:

  • Non vorresti uscire da qui? Andare in reparto?
  • Sì, vorrei tanto. Mi piacerebbe.
  • Facciamola uscire.

Mi hanno sistemata in una stanza con un solo letto [e un altro per un “assistente”], raccomandandomi di non stare alla luce, di non veder più di due/tre persone per volta e per poco tempo, ma comunque di non restare mai sola. Il 20 luglio, il giorno del mio compleanno. A mia madre è parsa una vera rinascita: 36 anni prima era stata ricoverata nello stesso giorno del mio aneurisma, e nello stesso giorno della mia nascita rinascevo uscendo dall’acquario e tornando nel mondo.

Non sono riuscita a essere lucida con tutte e tutti, ma c’erano, erano lì e io me li ricordo bene. Per il mio compleanno erano lì e sorridevano. Fiori e regali, come il gatto che vedete in questa foto scattata tre o quattro giorni dopo. Ho ricordi particolarmente nitidi delle mie più care amiche, onnipresenti e bellissime. Di mio padre super-positivo, di mia madre sorridente, di mia sorella con suo figlio in braccio e un altro nel pancione urlarmi ma che cacchio fai???

E poi di Davide che mi prende la mano e dice con la sua solita lucida sintesi:

Sono contento che sei viva. E che sei sana.

Sì, ero viva. La parte sinistra del corpo era debole ma si muoveva. Mi davano fastidio luce, rumori, odori, ma parlavo piuttosto chiaramente e… avevo fame. Molti tubi, quasi come dentro matrix (cit. Milena A. C.), ma solo temporanei. E per l’occhio destro, che era vitreo e non voleva saperne di muoversi per bene, beh…

Beh, Loredana, è… strabismo di Venere.

per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (2/5)

Ed eccomi su un’altra ambulanza, velocissima verso Lecce alle quattro di notte. Allertata immediatamente Neurochirurgia dal medico giovane-alto-sicuro-di-sé, al mio arrivo era tutto pronto: mi ci hanno ricoverato letteralmente di corsa. In terapia sub-intensiva flebo a fiumi e monitoraggio costante dei parametri vitali. Mi sentivo malissimo. Un dolore così forte alla testa che avevo voglia di svitarmela e poggiarla da qualche parte. Dove avrei potuto non saprei dire, anche perché continuavo a veder solo ombre. Forte miopia [si sa], a cui si era aggiunto [me l’hanno spiegato in seguito] un problema di diplopia: l’occhio destro aveva smesso di muoversi. Per il resto, non ero in grado di far nulla da sola. E soprattutto avevo sonno. Come però hanno più volte ripetuto medici e infermieri, sono stata sempre “cosciente, vigile, collaborativa”. Col senno di poi, questo era un ottimo segno.

Dopo poco più di 24 ore, il 18 luglio, sarei stata operata con “approccio endovascolare”, ma in quel momento non capivo cosa stesse accadendo. Il 17 luglio, al rientro in reparto da una angiotac che aveva il compito di identificare con esattezza il problema, dalla barella sulla quale mi trasportavano ero riuscita a leggere “Neurochirurgia. Terapia sub-intensiva” e avevo detto all’infermiera:

Terapia intensiva? Sono in terapia intensiva! Ehi, non c’ero mai stata!

L’infermiera aveva riso. E aveva riso pure qualche ora dopo, chiedendomi che diavolo di eye-liner indossassi, capace di reggere tanto scompiglio. Questo lo ricordo bene: mi sono sforzata di ricordare il negozio, l’esatta circostanza in cui l’avevo acquistato. Forse avevo bisogno di capire se il cervello fosse ancora al solito posto. Anche se era debole, la parte sinistra del corpo la sentivo, si muoveva. Le parole venivano fuori un po’ meglio, meno a scatti. Qualche “contatto” aveva ricominciato a funzionare.

  • Ehm, un attimo. Ehm… sephora! Ecco!
  • Fantastico. Ancora lì, fantastico!

L’infermiera aveva riso di nuovo. E anche io. Ridevo e dicevo d’aver fame. Fame e sonno.

In terapia sub-intensiva le visite hanno limitazioni precise. Solo un familiare per volta, dotato di càmice verde e cuffia, mezz’ora in tarda mattinata e mezz’ora nel tardo pomeriggio. Gli altri rimangono fuori. Sollevata una tendina, possono guardarti da una finestra. La sensazione è di essere un pesce in un acquario. Mia madre e il mio uomo, Davide, sono entrati a turno per tre giorni in quell’acquario, anche per raccontarmi chi c’era dall’altra parte del vetro. Io annuivo, sorridevo e… salutavo come il papa (cit. Francesco P.).

  • Ci sono tutti, Loredana. Abbiamo riempito l’ospedale.
  • Bello.

C’erano davvero tutte e tutti, mi sono sentita amata. Meraviglia e sorrisi. Anche perché non avevo capito che la faccenda fosse così grave.

  • Come ti senti?
  • Mal di testa. E sonno. Scusami, io ho bisogno di dormire.

Sono stata operata – dicevo – il 18 luglio. La notte era passata tentando di tener testa al mal di testa. Ero imbottita di antidolorifici, eppure la testa sembrava esplodere. Quella mattina il chirurgo [un neuroradiologo] non è stato esattamente tranquillizzante con la mia famiglia:

Non è un’operazione semplice. E se succede qualcosa di imprevisto, non la salviamo. Se siete credenti, pregate. Se non lo siete, vi consiglio di rimanere in silenzio.

Con me, tutta un’altra pasta. Già parzialmente anestetizzata, ho avuto il tempo e la forza di scambiarci due battute:

  • Ha capito che cosa le stiamo facendo?
  • Entrerete con una piccola sonda dall’arteria femorale e arriverete alla testa.
  • Esatto.
  • Scusi, ma con questo cosa pensate di fare?
  • Beh, ecco…
  • Volete vedere esattamente cos’è successo?
  • Sì.
  • Ok.

Ahahah, come le chiamano? Bugie bianche?

per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (1/5)

Il 16 luglio scorso, intorno alle 19.30, un aneurisma congenito mi si è rotto nel cervello all’altezza della nuca. Non sapevo che si trattasse di questo, naturalmente. Mi bastava sapere che mi sentivo malissimo. I sintomi si leggono online con una ricerca di pochi secondi. Per me è andata così: mi pareva d’aver ricevuto un colpo di mazza, e che per questo la testa si fosse girata dall’altra parte e al contrario. Poi i classici perdita di coscienza [qualche secondo, il cardiologo l’ha definita “sincope”], nausea e vomito, rigidità del collo. In più, io ho avuto subito problemi di vista, di parola, di movimento del lato sinistro del corpo e di controllo degli sfinteri.

Al mio uomo che aveva appena chiamato il 118 ho detto [in piena emorragia cerebrale]: Vo-gli-o cam-bi-a-re vi-ta.

La storia è cominciata così, dopo una doccia. La giornata era stata molto impegnativa, ma io ero rilassata. Nessun sintomo. Nessuno. Si è rotto così, senza preavviso. Il personale del 118 l’ha catalogato come “dolore cervicale con vomito” e mi ha chiesto:

Che vuole fare? Vuole approfondire?

Il mio uomo era incredulo: Dev’essere certamente qualcosa al cervello. Vede, parla e si muove male. Com’è possibile che sia solo dolore cervicale?

Niente, mi hanno chiesto se volevo approfondire. Mi sentivo malissimo. Completa perdita del mio granitico senso di me.

Ho alzato la testa e annuito: Sì, an-di-a-mo in os-p-e-dale.

Sono finita al pronto soccorso di Galatina. A tutti i medici sembrava qualcosa di molto banale, “dolore cervicale con vomito”. Da qui ricovero precauzionale nel reparto di Medicina, codice verde. Verde. Nel frattempo i miei genitori mi avevano raggiunta, e mia madre aveva voluto rimanere con me. Mi ha raccontato che quella notte, verso le tre, un giovanissimo medico ha finalmente capito. Un medico molto giovane, molto alto, molto sicuro di sé.

Signora, non mi piace questa rigidità del collo, facciamo una Tac urgente.

Teresa, così si chiama mia madre, l’ha sentito insistere al telefono, mobilitare i colleghi con veemenza. Serviva una Tac urgente.

No, non domani mattina, adesso.

E finalmente la diagnosi: rottura di un aneurisma cerebrale. Mia madre non capiva.

  • Che cosa significa? Che cosa succede a mia figlia?
  • Signora, sua figlia ha un’emorragia cerebrale.
  • Cosa? Ma mia figlia ha 36 anni!
  • L’età non conta signora. Senta, il rianimatore ci assicura che la possiamo spostare senza pericolo. Dobbiamo correre a Lecce, qui non siamo attrezzati.

La foto che vedete è stata scattata qualche ora prima del fattaccio. Coincidenze? Ci credete?

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