Categoria: femminismi

è nata Orlando: lèggere leggère

Nel giorno del compleanno di Virginia Woolf nasce la nuova collana cui ho pensato giorno e notte per anni anche quando non ci ho pensato. Si chiama Orlando. Non ho avuto bisogno di cercare una stanza, quella stanza c’era già, e io avevo la straordinaria fortuna di condividerla con un manipolo di donne eccezionali che credono come me nel potere creativo e trasformativo della parola: Collettiva edizioni indipendenti. Da questa alleanza verranno alla luce nuove, bellissime storie.

cos’è Orlando

Orlando è una collana che ho ideato e che dirigerò con “Collettiva edizioni indipendenti”.

perché Orlando

Orlando è un tributo a una Virginia Wolf nella quale non rimanere intrappolate, che si nutre delle sue profondità per prendere il volo. Orlando è un’idea di mondo, ideato e creato dal potere della parola: terre e lune, foreste e deserti, metropoli e villaggi, singoli e moltitudini sono plasmati nel tempo e nello spazio dal fervore creativo che solo può risiedere in un corpo. Un corpo che sente, pensa e crea. Col corpo capiamo, col corpo elaboriamo. Col corpo viviamo in quel mondo fondato sulla parola. Orlando è l’infrazione sistematica dei confini. È romanzo e racconto, storia e saggio, donna e uomo, uno stile e cento. Orlando è la libertà come presupposto, l’ironia come metodo, la leggerezza come bandiera.

per chi Orlando

Orlando propone storie per chi non teme l’uso del femminile universale.

Orlando. lèggere leggère

Due titoli nel 2021 [notizie nelle prossime settimane].
Se sei una scrittrice, ti riconosci in questa collana e hai una proposta da farmi, contattami.

“Women in Zimbabwe”: cinque storie a partire da un’amicizia

Eleonora Aralla è una donna bellissima, di una bellezza come la intendo io, al di là di ogni stereotipo, fatta di corpo e mente, personalità, verve, orgoglio, capacità di azione e reazione, decisione e responsabilità. Ve la presento perché, attraverso la relazione tra noi, posso parlarvi di un Paese che non è nell’agenda dell’informazione quotidiana ma che meriterebbe d’esserlo: lo Zimbabwe.

Ex colonia britannica, si trova nell’Africa del Sud, al confine con il Mozambico e il Sudafrica, i suoi parchi conservano una natura straordinaria e sotto l’ufficiale dicitura “Repubblica” [non] si nasconde una dittatura durissima. Nei giorni in cui scrivo questo post, cercando notizie su Google, compaiono “Uomo divorato dopo essere stato aggredito in casa da branco di iene”, “Grave incidente in una miniera”, “Appello dei vescovi a riconciliazione e unità” e, sul sito di Amnesty international, “Authorities must use bail hearing to release journalist Hopewell Chin’ono”.

In shona (o meglio, nel dialetto karanga), lingua bantu tra le più diffuse nel Paese, Dzimba-dza-mabwe vuol dire “casa di pietra”; le spettacolari Victoria Falls segnano il confine tra Zambia e Zimbabwe; sono zim i genitori di Danai Gurira, attrice in “The Walking Dead”; alcune scene di “Cacciatore bianco, cuore nero” di Clint Eastwood sono state girate sul lago Kariba in Zimbabwe. Per dire.

Torno adesso a Eleonora.

Quando mi parlano male di Facebook, penso a cose come quella successa tra me e lei. Facciamo un salto indietro, al 2017, quando poco prima che nascesse mio figlio Giovanni mi imbatto un questo post del sindaco della mia città:

Un dubbio, un ricordo, due ricerche, e capisco che quella cittadina è lei. Perché anni prima, non so come, avevo scovato il suo blog “la chica con la maleta” (“la ragazza con la valigia”, adesso non è più visibile), e mi era piaciuto molto. Ma soprattutto perché, ancora prima, nei miei primi anni di lavoro, quando alcune colleghe giornaliste mi chiamavano affettuosamente “pulciotta”, l’avevo conosciuta di persona, femminista all’università, a Lecce, in tempi in cui non se ne parlava un granché. Almeno, non nei termini di oggi, così diffusi e semplici, come istanze che meritano l’attenzione generale. Stiamo parlando dei primi anni Duemila. Insomma, da lì il nuovo contatto su Facebook e i discorsi sulla linea Lecce – Harare (hanno lo stesso fuso orario) a proposito di figli e di libri, di politica e, a un certo punto, anche di Africa. Ecco, Eleonora è una delle donne che mi ha costretta a esprimermi come si deve quando si parla di Africa. L’Africa è un continente, un continente immenso a cui dobbiamo molto del nostro benessere. E quando si parla di Africa bisogna esprimersi bene, in modo preciso.

Dopo la laurea in Lettere con una tesi in Filosofia politica su “Diritti umani e giustizia senza frontiere”, un master in Sviluppo sostenibile, vari corsi su monitoraggio e valutazione, politiche di genere e sviluppo, la scelta. Come? Perché?

«Fremevo per andare a mettere in pratica quello che avevo imparato, volevo conoscere una cultura diversa, spostare il mio punto di vista sulla realtà e imparare qualcosa su me stessa e sul mondo che mi circondava. Più o meno a 17 anni, mi era capitato di leggere di Marianela Garcia Villas, “avvocata dei poveri, dei malati, dei lontani”, che scoprii molti anni dopo essere un simbolo della lotta agli abusi del governo in El Salvador. Quella donna, dalla storia tristemente tragica, è rimasta la mia ispirazione. Quando si è trattato di scegliere una destinazione, lo Zimbabwe è sembrato “naturale”: è il paese d’origine di quello che poi è diventato mio marito, che è zimba-inglese e che ormai è italiano d’adozione, oltreché di passaporto. E poi è un paese che, per chi si occupa di cooperazione, offre condizioni di vita adatte alla famiglia, un family posting, in gergo, perché ha livelli di rischio sanitari e sociali relativamente bassi rispetto a paesi come l’Afghanistan o il Sudan. Sono in Zimbabwe dal 2011 e ci rimango anche perché è un Paese che regala a me e alla mia famiglia, tra le altre cose, il privilegio della prospettiva».

E che cos’è il “privilegio della prospettiva”?

«La possibilità quotidiana di apprezzare l’essenziale, di vivere un’esistenza “semplificata”. In Zimbabwe non ci sono centri commerciali né arriva Amazon, al supermercato si trovano – per esempio – solo due tipi di yogurt, o di latte, o di formaggio. A volte, per settimane, non si trovano la farina o il pane (per chi, come noi, se li può permettere), allora si mangia più riso, patate, polenta, uova, quello che si trova. A volte manca l’acqua, una volta siamo stati 18 giorni senza elettricità perché è esploso un trasformatore. Nessuno ne fa una tragedia. Queste “scomodità”, che vivo appunto come un’opportunità, sono ripagate da spazi ampi e verdissimi, animali di ogni tipo che vengono a visitare il nostro giardino, come le blue headed lizards e i turacos (specie di lucertole e uccelli, ndr), da miriadi di stelle vicinissime che ti sovrastano mentre la notte africana ti avvolge, e ti ricordano quanto poche, semplici cose siano quelle che contano, e quanto noi essere umani siamo precari ospiti di passaggio».

In Zimbabwe lavori per il Cafod, definita ufficialmente “the Catholic international development charity in England and Wales”. In cosa consiste il tuo lavoro per l’organizzazione?

«Io faccio l’“operatrice umanitaria”, questa è la definizione corretta, non sono una volontaria e non mi piace “cooperante”. La gente in genere pensa che questo lavoro consista nello scaricare sacchi di grano o scavare pozzi a mani nude, mentre in realtà il lavoro umanitario e di cooperazione allo sviluppo è fatto di una miriade di stratificazioni. Ipersemplificando, lavoro all’intersezione tra la programmazione strategica dei donatori (UE, ONU, agenzie nazionali di cooperazione) e le visioni/programmi delle varie organizzazioni no-profit, internazionali e locali dei paesi in via di sviluppo. In questo momento mi occupo di supportare i ‘team di programma’ dei vari settori (agricoltura, wash che sta per water sanitation and hygiene, protezione sociale, diritti dell’infanzia) nell’identificare fonti di finanziamento istituzionale, coordinare il disegno e la scrittura delle proposte, assicurarsi che vengano rispettati tutti gli standard di qualità (da quelli finanziari a quelli sulla salvaguardia del benessere dei beneficiari) e le regole contrattuali (pena la perdita dei fondi). Mi occupo anche di rafforzare le competenze dei partner locali con cui la mia organizzazione lavora in termini di mobilitazione di risorse, scrittura di proposte di progetto, gestione delle sovvenzioni, in modo che, con il tempo, siano in grado di accedere ai fondi e di gestirli autonomamente, senza il nostro aiuto».

Scusa se banalizzo: fammi un esempio di giornata tipo.

«Arrivo in ufficio dopo aver evitato buche grandi quanto crateri, commuter omnibus (una sorta di piccoli autobus, ndr) gremiti di gente e che corrono come schegge, biciclette sgangherate, orde di bambini in uniforme sul ciglio della strada, venditori di piccoli lavori di artigianato, bambini che chiedono l’elemosina. Mi siedo e passo un sacco di tempo al computer. Leggo le mail, controllo scadenze, guardo il calendario. Abbiamo ricevuto una sovvenzione da UNICEF per un progetto di fornitura di acqua nelle scuole! Bene, faremo un workshop di lancio del progetto assieme ai partner, in cui io mi occuperò di familiarizzare il nostro team e quello del partner locale con i regolamenti e gli standard del donatore, assicurandomi che tutti abbiano chiara la logica e i contenuti della nostra proposta per poterla poi tradurre nella pratica sul campo, per far diventare le parole scritte su un foglio un’attività di scavo di un pozzo, un training su igiene e salute mestruale, una campagna di advocacy… A fine workshop, si torna a casa dai miei bambini».

Tutto questo in un contesto politicamente complesso. Che però non mi pare apparire di frequente nell’agenda dell’informazione internazionale.

«Nella geopolitica globale lo Zimbabwe non è una priorità strategica, né politica né economica».

Solo per fare due esempi, oltre al caso del giornalista citato sul sito di Amnesty, Hopewell Chin’ono, val la pena di leggere questa intervista di Al Jazeera alla scrittrice Tsitsi Dangarembga: https://www.aljazeera.com/features/2020/11/16/qa-tsitsi-dangarembga (e gli articoli correlati proposti).

Vogliamo entrare nel merito delle emergenze umanitarie?

«La crisi finanziaria è dilagante, con la valuta locale che continua a svalutarsi esponenzialmente gettando i lavoratori del settore pubblico di fatto nella povertà e facendo praticamente scomparire la classe media. Il cambiamento climatico sta esacerbando condizioni ambientali già difficili (soprattutto in alcune province del paese), con ricorrenti periodi di siccità, inondazioni e cicloni. Una stagione delle piogge sempre più erratica ha stravolto i pattern di coltivazione e raccolto, lasciando milioni di famiglie in balia dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione. Spesso i bambini, che percorrono anche svariati chilometri per raggiungere le scuole, svengono per strada perché, semplicemente, non mangiano a sufficienza. Sono frequenti gli abusi sui bambini e la violenza di genere, le gravidanze di bambine di dieci, dodici anni sono all’ordine del giorno. Il sistema sanitario è già ben oltre il collasso: negli ospedali pubblici manca tutto, dal paracetamolo alle cannule per le flebo, per non parlare di acqua potabile ed elettricità; i medici sono in sciopero quasi costante. Anche il settore dell’educazione è allo stremo, con gli insegnanti in sciopero da mesi e il livello di istruzione che si abbassa sempre di più».

Con conseguenze ancora più gravi per le donne.

«Come sempre. Ti faccio un esempio pratico. In Zimbabwe spesso le ragazze non hanno accesso agli assorbenti, di nessun tipo. Quando anche riuscissero ad averne, magari grazie al supporto di ONG o di agenzie delle Nazioni Unite, c’è il problema della biancheria intima: non ne hanno. Andiamo oltre e facciamo il caso della coppetta mestruale. Poniamo che ne fossero fornite. Beh, non hanno accesso all’acqua corrente, né a casa né a scuola. Il risultato è che, in media, perdono quattro, cinque giorni di scuola al mese, cosa che spesso aumenta l’abbandono scolare, e poi matrimoni, gravidanze e prostituzione in età molto giovane. In questo scenario, organizzazioni come la mia lavorano per supportare le categorie vulnerabili, fornire strumenti per generare ingressi finanziari e mezzi di sostentamento, ma ovviamente non basta. Penso che le donne e gli uomini dello Zimbabwe siano un esempio di tenacia ma, forse, anche di rassegnazione».

Come si lavora da non cattolica in un’organizzazione che lo è per statuto?

«Il Cafod è diretta espressione del cattolicesimo sociale, missionario e… progressista, che è l’ambiente in cui mi sono formata e che ha ispirato la mia scelta quando ero un’adolescente. Anche se non sono più cattolica, condivido i valori di solidarietà, dignità e compassione che ispirano l’operato del Cafod. L’organizzazione non fa proselitismo e non impone la propria visione né ai propri impiegati – ho colleghi di tutte le fedi – né tantomeno ai beneficiari degli interventi. I nostri partner d’elezione sono le Caritas locali, che hanno il vantaggio di essere in contatto capillare e continuativo con le comunità locali e di poter lavorare in contesti politicamente difficili, ma lavoriamo anche con moltissimi partner secolari nelle più svariate aree programmatiche».

Da qualche mese sei tornata a Lecce, causa Covid.

«A fine marzo l’epidemia era scoppiata in Sudafrica e si prevedeva raggiungesse anche lo Zimbabwe. Gli esiti sarebbero stati devastanti, data la situazione sanitaria cui abbiamo accennato. Tutti i paesi del globo stavano cancellando i voli internazionali e così, assieme al Dipartimento di Sicurezza della mia organizzazione, abbiamo deciso di farci evacuare in via preventiva. Siamo saliti sull’ultimo volo che ha lasciato Harare prima che chiudessero tutto. Fortunatamente, e per ragioni che sono ancora parzialmente sconosciute anche agli addetti ai lavori, il Covid ha “risparmiato” l’Africa, o comunque l’ha colpita con molta meno violenza. È per questo che a fine anno torniamo a casa, nella speranza di poter riprendere, più o meno, la nostra vita di sempre».

Come è cambiata in questi anni la tua posizione politica?

«Negli anni dell’università, quand’ero nel comitato pari opportunità di un’associazione studentesca, non mi sarei forse nemmeno definitiva femminista. La parola femminismo faceva storcere nasi, noi cercavamo di rendere la questione di genere “accettabile” al pubblico degli studenti e anche di molte studentesse per le quali – ricordo bene – “non esistevano più” discriminazioni. E poi il mio attivismo era abbastanza improvvisato, di pancia, basato su mie esperienze dirette di discriminazioni e violenze subite, oltre che su un anelito più ampio di giustizia per la “categoria” a cui appartenevo. La mia vita professionale mi ha portata in quello che io pensavo fosse un “altrove”, salvo rendermi conto che la questione di genere è cruciale nel lavoro che faccio. E così adesso mi definisco femminista, ma in divenire. Studio e soprattutto imparo sul campo, in un contesto lontano dalla cultura occidentale dominante nel quale ho a che fare con persone di tutte le provenienze, geografiche e culturali».

Sei una delle persone giuste, credo, per parlare degli intrecci tra razzismo e femminismo.

«Il femminismo non può esimersi dal fare i conti con le disuguaglianze che si intersecano nelle esistenze di donne con diverse identità sociali e culturali. Per citare Kimberlé Williams Crenshaw, le disuguaglianze legate al colore della pelle non sono slegate da altre che riguardano la classe sociale o l’orientamento sessuale, e tutte queste non sono “solo la somma di tutte le parti”. Il vissuto personale di ognuna conta. Ecco perché, per me, il femminismo deve essere intersezionale. Come dice Fannie Lou Hamer, attivista di colore per diritti civili e delle donne, “Nessuno/a è libero/a finché tutti/e sono liberi/e”. È una visione molto vicina al mio sentire e alla mia esperienza. È fondamentale anche fare attenzione al modo in cui si affrontano certe questioni e si propongono “soluzioni”. Bisogna valutare accuratamente il contesto culturale in cui si opera, riconoscere posizioni diverse e fare attenzione a non ricadere nello stereotipo del white saviour. Le questioni di genere vanno affrontate nei diversi contesti e nel quadro delle diverse discriminazioni che si intersecano. Non ci sono “donne indifese” che vanno “salvate”, ma donne che sono al centro di un discorso, delle quali rispettare la cultura e valorizzare i punti di forza».

Coscienti d’essere in una posizione di privilegio, con “Women in Zimbabwe” (da gennaio 2021) io ed Eleonora abbiamo deciso di raccontare qualcosa di più delle donne che vivono e lavorano in Zimbabwe a partire da cinque storie che riteniamo significative. Alla fine di ogni storia, cercheremo di spiegare cosa possiamo fare e proporre modi per farlo. Perché possiamo dare un senso nuovo al nostro privilegio.

Artigianato e politica come trama e ordito: “Le Costantine” dal Salento a Dior, oltre la moda

Non solo stoffa: come trama e ordito, sui telai s’intrecciano artigianato e politica, tradizione e futuro, attraverso un’alleanza tra donne che si tramanda da generazioni. Nella collezione cruise 2021 di Dior presentata online al mondo da Lecce la scorsa estate, il laboratorio di tessitura artigianale della Fondazione salentina “Le Costantine” ha avuto un posto speciale: ne ho accennato in due post [ ogni sbaglio è un nuovo pinto / sputare [sempre meglio] su Hegel ], e come promesso ecco un primo approfondimento. Lo pubblico con orgoglio anche perché ho presentato parte di questo lavoro al mio esame per l’iscrizione all’elenco professionisti dell’Albo dei giornalisti: non solo è andato bene, ma mi ha anche portato nuovi interessanti contatti e spunti che, nelle prossime settimane, saranno oggetto di ulteriori post. Ma torniamo alle Costantine.

Se la direttrice creativa della moda femminile di Dior Maria Grazia Chiuri, di origini salentine per parte di padre, ha affidato alla Fondazione la produzione di molte delle stoffe utilizzate nella collezione, ne ha voluto il motto “cantando e amando” su diverse gonne e così, di fatto, l’ha rilanciata a livello internazionale, non è un caso. Vi racconto perché.

Fondazione Le Costantine, Casamassella (Uggiano La Chiesa). foto Loredana De Vitis

Immersa tra gli ulivi e la macchia mediterranea di Casamassella, frazione di Uggiano La Chiesa – poco più di 4.300 abitanti a circa sei chilometri da Otranto -, la Fondazione è nata dalla visione e dalla lungimiranza primonovecentesca delle nobildonne Carolina De Viti de Marco, sorella del noto economista Antonio, delle figlie Lucia e Giulia Starace, della cognata Harriet Lathrop Dunham (alias Etta De Viti de Marco, moglie di Antonio) e di sua figlia Lucia De Viti de Marco. Oggi è presieduta da Maria Cristina Rizzo, avvocata, già sindaca di Uggiano e da vent’anni sua instancabile sostenitrice, e si occupa di ospitalità, agricoltura biodinamica, formazione e, appunto, tessitura.

Per il laboratorio di tessitura, l’incontro con Dior ha significato aumentare la produzione fino a passare da sei artigiane part time a 24 full time, e destare l’interesse di testate italiane ed estere (per esempio www.vanityfair.it / fashionpress.it / elle.be) e, soprattutto, di altre case di moda. I tessuti studiati con Maria Grazia Chiuri ripropongono antichi disegni con combinazioni inedite di colori, e sono stati prodotti da donne tra i 35 e i 65 anni, qui formate nel tempo, su telai lignei di cui i più antichi sono della fine dell’Ottocento.

Fondazione Le Costantine, Casamassella (Uggiano La Chiesa). Telai. foto Loredana De Vitis

«Nell’immaginario collettivo, in quanto attività svolta da donne in contesti domestici, la tessitura era considerata di scarso pregio», mi ha raccontato Maria Cristina Rizzo, «Nella convinzione che l’emancipazione femminile passi dal lavoro, con creatività e una puntuale riorganizzazione siamo riuscite a produrre con crescente successo tappeti, arazzi, borse, sciarpe e molto altro utilizzando materie prime italiane di altissima qualità. Il 3 marzo la telefonata di Salvemini, che voleva passarmi Maria Grazia Chiuri».

Carlo Salvemini, sindaco di Lecce, era stato contattato dalla direttrice creativa di Dior per una vera e propria attività di scouting delle “eccellenze” territoriali: artigianato tessile, arti e musica popolare confluiti nella collezione e nell’evento-sfilata, d’un tale successo da spingerlo a proporre per l’artista la cittadinanza onoraria. «Conosco da anni la serietà, l’abnegazione e la grande qualità del lavoro della fondazione e della sua presidente, per cui è stato naturale indicare, tra le altre, questa realtà», mi ha spiegato Salvemini, «Sono felice che da quella telefonata sia nato un rapporto andato oltre l’evento di piazza Duomo (dove si è svolta la sfilata, ndr). Questi legami testimoniano le ricadute della sfilata, il valore delle produzioni tessili artigianali del Salento e le potenzialità che possono esprimere sul mercato mondiale».

In un’intervista al magazine del Financial Times “How To Spend It”, Chiuri ha spiegato (in inglese nell’originale): «Ho detto loro quanto fossi felice di poter collaborare. Era importante che la collezione rappresentasse un dialogo con questa comunità». I primi ordini sono arrivati subito dopo la visita di Chiuri al laboratorio di Casamassella. Perché questa immediata intesa? Maria Cristina Rizzo mi ha risposto: «Credo che abbia trovato la qualità tecnica che le serviva e una filosofia che condivide, condivide il nostro modo di interpretare il femminismo».

Fondazione Le Costantine, Casamassella (Uggiano La Chiesa, provincia di Lecce). Telaio. foto Loredana De Vitis

Per saperne di più su questa filosofia si può cominciare leggendo “Fili della trasmissione” (edizioni Grifo, 2018) di Elena Laurenzi, la ricercatrice dell’Università del Salento che per tre anni ha ricostruito la storia della Fondazione grazie a un progetto finanziato dalla Regione Puglia su fondi europei: «È una vicenda che ha implicazioni con la storia del Mezzogiorno, la storia economica e politica, la storia delle donne. Lo statuto riflette la visione illuminata di una genealogia di donne che nel corso del Novecento intrapresero iniziative avanguardiste sul piano sociale ed economico, incrociando idee e relazioni con i movimenti culturali e politici più interessanti del tempo: il femminismo e la filantropia politica, la pedagogia montessoriana e steineriana, l’ecologismo».

Fondazione Le Costantine, Casamassella (Uggiano La Chiesa, provincia di Lecce). Telaio. Nelle foto le fondatrici: da sinistra Lucia de Viti De Marco e Giulia Starace. foto Loredana De Vitis

Tutto cominciò con la scuola di merletto aperta a Casamassella nel 1901 da Etta e Carolina de Viti de Marco, consorziata con le “Industrie femminili italiane”, una cooperativa che fungeva da tramite per la promozione e la commercializzazione dei manufatti di oltre 400 laboratori. I prodotti di Casamassella vinsero premi alle esposizioni universali di Milano (1906) e Bruxelles (1910), vennero esibiti a Londra e in altre capitali europee, e altre scuole di merletto sorsero a New York e in Sudafrica. «In questa rete non si esportavano solo tecniche, ma un modello in cui la cittadinanza delle donne era promossa attraverso il riconoscimento del valore del loro sapere e del loro lavoro», mi ha detto Laurenzi. Una dinamica che si è ripetuta, ho suggerito. «Sì, si sono riannodati i fili della trasmissione: ancora una volta, è stata vincente un’alleanza tra donne basata sulla potenza e sulla creazione».

Lo riscrivo: “un’alleanza tra donne basata sulla potenza e sulla creazione”. Un’idea che mi guida da anni e sulla quale voglio continuare a lavorare. Appuntamento al prossimo post con un profilo di Maria Cristina Rizzo.

(ho scattato queste immagini nell’agosto 2020)

donne, matematica & politica

Nelle scorse settimane la matematica e scrittrice Chiara Valerio ha tenuto all’Università del Salento, dove lavoro ogni mattina da vari anni in qua, un seminario serio e faceto sulla politicità della matematica. Con le organizzatrici, docenti del dipartimento di Matematica e Fisica “Ennio De Giorgi”, l’avevano chiamato “Chiacchiere matematiche sul presente”, ed è stato esattamente questo. Ero lì, oltre che per il mio lavoro, per un profondo interesse personale per l’autrice e per le sue idee. M’è piaciuto ascoltare i matematici e i fisici (soprattutto i fisici) farle domande, m’è piaciuto come al solito anche il suo modo di esprimersi, di condire di colta ironia considerazioni molto serie, di mettersi sempre in discussione e di ripetere ogni volta che serviva “ci devo pensare”.

Tra acrobazie temporali che non hanno niente a che vedere col suo libro e la sua scrittura (e di cui poi vi racconterò), ho finito di leggere “La matematica è politica” (Einaudi), trovandovi una serie di spunti interessanti e motivi extra per il mio già convinto sostegno alla formazione scientifica (soprattutto per le ragazze).

L’autrice ha chiarito più volte che si tratta di una committenza, che l’ha scritto cioè su invito dell’editore, interessato a un altro libro d’argomento matematico dopo “Storia umana della matematica”, e che – dopo averne abbandonato da anni la ricerca (ha un dottorato in calcolo delle probabilità) e l’insegnamento – ha pensato di poter e voler scrivere sul tema solo un breve saggio sulla convinzione che la matematica aiuti a riconoscere la differenza tra autorità e regole. La prima imposta, le seconde oggetto di contrattazione. Di questi tempi, discrimine utile come l’acqua e il sole. Le sue argomentazioni mi convincono. Sì, sono d’accordo.

La matematica insegna che le verità sono partecipate, per questo è una disciplina che non ammette principi di autorità.

[p. 50]

In matematica alle superiori prendevo ottimi voti, ma a costo di una fatica indicibile, col relativo effetto respingente sull’idea di proseguire in questo tipo di studi. Il mio insegnante di matematica, e in fondo anche i miei genitori per un periodo, davano per ovvio che all’università avrei scelto ingegneria (da notare: non matematica, ingegneria), ma io pensavo solo alle decine e centinaia di esercizi che risolvevo di settimana in settimana per arrivare preparata ai compiti in classe o alle interrogazioni (leggi: cercavo di avere in tasca il maggior numero possibile di “casi” già visti) e speravo presto di lasciarmi alle spalle quelle frustrazioni. In breve, non mi ci sentivo “portata”. E invece…

Non è la matematica a scoraggiare […] ma il modo in cui essa è scritta e rappresentata. […] La matematica, a scuola, si insegna nel vuoto.

[pp. 4-5]

Può darsi allora che se, come Valerio scrive, avessi potuto studiare la matematica in modo diverso, meno “sospeso”, più contestualizzato, le cose sarebbero andate diversamente? Chi lo sa? Non mi sono mai pentita di aver studiato filosofia: anche quella credo mi abbia dato strumenti per discernere tra autorità e regole, e per avere un’idea articolata del concetto di verità. Però questo saggio mi ha riconciliata con quella parte di me che era [ed è] attratta dalle scienze esatte, e mi ha convinta che è essenziale integrare sempre meglio con le scienze [esatte e non] la nostra formazione italiana d’impostazione così smaccatamente crociana / gentiliana. Soprattutto per le ragazze. Perché? Per gli stereotipi che pesano sulle nostre scelte, e per quelli che pesano sul nostro lavoro, e per quelli che pesano sulle nostre reazioni, e per quelli che – ancora prima – pesano sul nostro ragionamento.

Eccone un esempio, tornando al seminario. Di tutte le domande che le potevo fare, ho scelto di farle la più emotiva (per me), frutto di periodici scoramenti al pensiero (e alla consapevolezza) che dobbiamo, pare all’infinito, insistere su certi concetti [cos’è il sessismo, perché vogliamo la parità eccetera eccetera eccetera]. Scoramento che credo sia evidente nella foto qui sotto (scattata dalla collega Daniela Dell’Anna, che ringrazio).

Vanità a parte (scusate, non ho resistito: è la mia prima e unica foto con la mascherina indosso, non ne ho mai volute fare), torniamo alla domanda. In soldoni le ho chiesto: tu che sei matematica & scrittrice, e che ultimamente sei tanto impegnata sulle… “questioni di genere” [l’avete vista per esempio a “Erosive“?], suggeriscici un metodo. Che metodo dobbiamo usare per rendere più efficace il nostro lavoro politico?

E lei (sintesi mia, abbastanza fedele):

Non mi sono resa conto per molto tempo che ci fosse un problema di rappresentazione femminile: studiare matematica ti rende molto forte sulle categorie e molto labile sui generi.
Non vedevo il problema perché nella mia famiglia non c’erano state distinzioni di genere. E poi perché, nello studio della matematica, di nuovo non ho incontrato distinzioni di genere. Ricordo sempre che, dopo un’ora e quaranta d’esame, il professore Vittorio Coti Zelati mi chiese “Valerio è il nome o il cognome?”. Non mi voleva offendere, se l’era chiesto senza guardarmi. E questa è una grande liberazione quando sei ragazzo o ragazza. Vai lì come se fossi una specie di volume teorico in mezzo ai corridoi del dipartimento. Almeno, per me è stato così.
Poi arrivo nella realtà e capisco che c’è una questione. Ed è anche vero che se non avessi avuto l’impatto d’urto di Michela Murgia non ci sarei arrivata.
In effetti la rappresentazione culturale ha a che fare con la rappresentazione demografica. Se le donne sono la metà, perché non devono essere rappresentate? E poi un’altra questione. Le donne hanno cominciato a sviluppare quella parte di cervello che è relazionale con 1.300 anni di ritardo rispetto agli uomini. Dobbiamo avere coscienza che va incrementata quella parte del cervello. Perché le donne si sconvolgono quando ricevono una critica in pubblico? Perché sono meno abituate socialmente a farlo. Allora bisogna semplicemente appropriarsi di quell’abitudine sociale che è anche parlare in pubblico, essere contraddette, assumersi responsabilità, casomai le manette. Le funzioni vanno assunte, bisogna prendersele, non rifiutarle.

[sorvolo sulla “spiegazione” della foto scattata al libro: sono cose su cui sto lavorando, e sono certa che sapete di che si tratta]

La matematica, come spesso Valerio ripete, è una grammatica di relazioni. Esercitiamoci!

Vi lascio il link al video integrale del seminario. A presto!

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i “femminili singolari” di Vera Gheno

Da femmina singolare di mestiere scrittora, come mi definisco, mi sono letteralmente goduta il recente saggio di Vera Gheno “femminili singolari. il femminismo è nelle parole” (effequ). Come scrive l’autrice, sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer, il libro vuole contribuire

a divulgare le informazioni corrette riguardo la questione dei femminili, in modo che chi vuole o vorrebbe usarli sia informato a dovere […]

Con metodo scientifico, nel testo Gheno sostiene la correttezza e l’opportunità di utilizzo di parole come sindaca, architetta o avvocata che, a parer mio, dovrebbero ormai essere usate senza tante storie e che invece sono ancora materia di logoranti polemiche. Gheno smonta tutti gli argomenti a sfavore dei femminili, tra i quali quello “estetico” [i femminili sarebbero “cacofonici”], da sempre il mio preferito:

Il criterio estetico è perfettamente accettabile, anzi, estremamente importante, in letteratura o in poesia. Ma nella lingua dell’uso l’estetica è molto meno rilevante dell’utilità. […]
Io non uso i femminili per dimostrare alcuna parità. Li uso perché li reputo naturali.

Per non addentrarmi a ragionare di potere, mi limito a un’ultima utile citazione:

dal momento che la lingua può anche contribuire a modificare il nostro modo di vedere le cose, l’uso dei femminili può davvero servire per rendere più normale la presenza delle donne in certi ruoli.

E così credo di aver tracciato il percorso del saggio. Ma c’è un altro aspetto importante: nell’argomentare, Gheno sceglie di dare dignità a una serie di terribili commenti sul tema che riporta da Facebook o Twitter, rispondendo nel merito con ammirevole pazienza. Cosa che già faceva [e fa quotidianamente] sui suoi profili social e oltre. Certo, Gheno è una “sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer”, è il suo lavoro, ma la sua pazienza è davvero infinita. Davvero. Sento il bisogno di ringraziarla pubblicamente.

Tornando al mio godimento [che, come si vede dalla foto, si è chiuso al parco vicino casa, mentre i maschi della mia vita si divertivano a fare altro], questo aspetto è stato per me una zona d’ombra. Quel tipo di commenti mi disgustano, ed è stato un peso doverli leggere. Ma è giusto conoscerli, è giusto. E se tutte noi prima o poi arriviamo alla consapevolezza del meccanismo per il quale gli uomini ci spiegano le cose, Gheno in questo testo è capace di deliziare pure puntando il dito [a suo modo, molto educatamente] su alcuni pregevoli esempi di minchiarimento.

Mi interesso di queste cose da almeno dieci anni, per impegno politico e per amore della mia lingua: il saggio di Gheno ne è un bel compendio, ben scritto, divulgativo, di cui consiglio la lettura. L’autrice mi perdonerà, spero, se essendo una fan di Alma Sabatini insisto con la desinenza zero e impongo [ma per me sola] scrittora.

Per chiudere, l’occasione mi è gradita per soffermarmi brevemente sulla gran quantità di feccia recentemente riversata sulla studiosa, a partire dal suo lavoro sullo schwa (leggi cos’è su Treccani: http://www.treccani.it/enciclopedia/sceva_(Enciclopedia-dell’Italiano)/, intervista a Gheno che sintetizza la polemica e fornisce ulteriori precisazioni: https://thesubmarine.it/2020/08/03/schwa-linguaggio-inclusivo-vera-gheno/).

Ho conosciuto personalmente Gheno anni fa a Lecce, quando Conversazioni sul futuro mi chiese di presentare il suo “Guida pratica all’italiano scritto”. Non ci siamo più viste, non siamo amiche. Quella che segue è una mia opinione, personale [ogni volta devo ripetere che è ovvio, ma non si sa mai, quindi lo ridico], basata su quello che ho letto.

Il pessimo stile e il cattivo gusto con i quali è stata attaccata sono tanto odiosi perché… s’attaccano a un suo “difetto” imperdonabile nel nostro mondo tenacemente patriarcale: ce l’ha tutte. È intelligente, preparata, cortese, ironica. Non scrive mai fesserie, non cede agli insulti. È giovane, è bella, è madre. Troppo. Rompe ogni stereotipo e il suo contrario.

Non ho tempo di aspettare il tempo galantuomo. Il mio appoggio pubblico lo pubblico adesso.

sputare [sempre meglio] su Hegel

“La differenza per le donne sono millenni di assenza dalla storia” è una citazione tratta da “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi, un classico [femminista. Lo metto tra parentesi perché è – o dovrebbe essere – un classico e basta. È del 1970]. Nella premessa al volume che contiene questo e altri testi, firmati da Lonzi personalmente o collettivamente con le donne di Rivolta Femminile, l’autrice spiega di averlo scritto perché

rimasta molto turbata constatando che quasi la totalità delle femministe italiane dava più credito alla lotta di classe che alla loro stessa oppressione.

Questa citazione è una di quelle inserite tra le luminarie allestite per la sfilata cruise di Dior: l’altro giorno milioni di persone in tutto il mondo l’hanno vista online in diretta da Lecce, la città dove vivo. Questo il video integrale.

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Dior Cruise 2021 show from Maria Grazia Chiuri in Lecce (Puglia, Italy).

Due [ovvie, ma non si sa mai] precisazioni, prima di continuare:

  1. Tutto quello che scriverò non vuole essere un’esegesi della performance collettiva orchestrata dalla direttrice creativa della maison francese, Maria Grazia Chiuri. Si tratta di mie opinioni e interpretazioni. Personali. Che nascono dall’interesse per quest’artista.
  2. Cercherò di procedere, come posso e come riesco, integrando in modo chiaro alle valutazioni generali alcuni riferimenti particolari, cioè che hanno a che vedere con il Salento. Perché ci vivo, quindi inevitabilmente la mia storia personale influenza la mia percezione.

Cominciamo.

Le modelle che hanno indossato gli abiti della collezione cruise 2021 ideati da Maria Grazia Chiuri [la quale, nell’incontro con la stampa che ho potuto seguire, ha tra l’altro chiarito di lavorare con un ufficio stile di 80 persone, oltre che ovviamente all’interno di una più complessa organizzazione aziendale], hanno sfilato in piazza Duomo. È chiusa su tre lati. Oltre all’ingresso principale, chi la conosce sa che un’altra “via di fuga” è solo attraversando la cattedrale. Bisogna entrarci e, inevitabilmente, passare “davanti” all’altare. La piazza è stata allestita come in una delle feste delle nostre, quelle dei santi patroni, circondata da luminarie e con, al centro, una cassa armonica, un palchetto anch’esso con luminarie dove ancora si esibiscono le “bande”. Dietro le luminarie i “monumenti” non scomparivano, si vedevano bene – tra l’altro – la sommità della facciata laterale del duomo con lo stemma della curia e, dietro la citazione di Lonzi, il “seminario vecchio”, come lo chiamiamo [ce n’è un altro “nuovo”, in periferia].

Per la progettazione di questo set, Chiuri ha coinvolto l’artista femminista Marinella Senatore. La sua viene definitiva giustamente “pratica artistica”, anche perché coinvolge “intere comunità intorno a tematiche sociali e questioni urbane quali l’emancipazione e l’uguaglianza, i sistemi di aggregazione e le condizioni dei lavoratori”. In un’intervista ad Artribune del novembre 2019 (questa: https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2019/11/intervista-marinella-senatore-stati-uniti/), Senatore spiega secondo me molto bene come lavora, cos’è la sua “School of Narrative Dance” e perché usa il termine “processione” per definire le sue performance.

Il che ci riporta alla sfilata, alla “processione” di modelle e alla danza che l’accompagnava [con il corpo di ballo della Fondazione La Notte della Taranta sulle note dell’orchestra diretta dall’attuale maestro concertatore Paolo Buonvino]. La coreografia – un mix ispirato alla pizzica, alla pizzica tarantata, alla danza delle spade – è stata curata da Sharon Eyal. Certo, forse è apparsa un po’ troppo sofferente, ma d’altra parte Chiuri ha detto chiaramente di aver studiato e fatto riferimento a “La terra del rimorso” di Ernesto De Martino, che è di fatto l’origine di tutto il “recupero” di questa “tradizione” per la quale il Salento è oramai piuttosto conosciuto [non solo in Italia]. Una donna a cui ho voluto un gran bene, purtroppo morta troppo giovane, mi diceva sempre che ballare la pizzica era per lei liberatorio. Liberatorio. Stiamo parlando della fine degli anni Novanta del Novecento, e non era stata morsa da alcun ragno, ovviamente.

Negli abiti erano evidenti i riferimenti ai colori, alle forme, ai manufatti, agli usi tipici di un territorio che, lo ricordo, è quello di origine del padre di Chiuri [che era di Tricase, ed è poi emigrato molto giovane]. Uno degli accessori che ha colpito di più è stato il fazzoletto ricamato usato a mo’ di copricapo, una reinterpretazione di qualcosa che personalmente ho visto solo in vecchie foto ma che amiche mi hanno detto di ricordare addosso alle proprie nonne. E ancora, diversi abiti sono stati realizzati con le stoffe che hanno intessuto le tessitrici della Fondazione Le Costantine [il cui motto, amando e cantando, è finito sul retro di alcune gonne], altri avevano dettagli realizzati al tombolo [è stata coinvolta la “nostra” Marilena Sparasci], i fiori di altri ancora non erano i classici dei “giardini Dior” ma quelli che si vedono nelle nostre campagne e spesso lungo le nostre strade.

Nel nostro incontro, Chiuri ha rivelato tra le altre cose che, pur di realizzare un abito che avesse delle rose realizzate al tombolo, sarebbe stata disposta a sacrificare qualcuno dei pezzi che fanno parte del suo “corredo”, e che con questo stile vorrebbe progettare l’abito da sposa di sua figlia. Sua figlia si chiama Rachele Regini, è dottoranda in gender studies e lavora con lei per “studiare come incorporare le sue idee sul femminismo e le donne all’interno delle collezioni e della sua visione del brand”. Parole sue, traduzione mia. Qui sotto il video in cui lo spiega.

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Ma soprattutto in quell’incontro Chiuri ha detto che ciò che viene realizzato al telaio o al tombolo [come pure le luminarie, ma in un altro contesto], va considerato una “espressione artistica”, non un “lavoro domestico femminile”. Non siamo davanti a qualcosa di originale. La mia non è una critica, anzi sto dicendo che secondo me la direttrice creativa di Dior conosce molto bene chi è, da dove viene e il suo personale/politico, e che ha studiato. Questo svilimento dei domestic handicrafts è già stato ampiamente denunciato dalle artiste e studiato dalla storia dell’arte.

https://www.instagram.com/p/CCYOsx5Kdlm/

Sono stata un po’ lunga. Scusate. Giungo a conclusione [tralasciando altri dettagli].

Io credo che Maria Grazia Chiuri sappia sputare su Hegel, che lo sappia fare molto bene, che sia se stessa e che usi liberamente gli strumenti che ha. E parlo di mezzi economici ma non solo.

I “corredi”, quelli che tante di noi hanno ancora, potremmo usarli per farci abiti di ottima qualità ed eterni. Gli orecchini e altri gioielli indossati dalle modelle, ispirati a pezzi custoditi nel museo MArTA di Taranto, ce li potremmo costruire, lo fanno già alcune giovani artiste che conosco. Chiunque di noi può essere una “guerriera saracena” – come hanno definito il “modello” ideato da Chiuri per questa collezione – indossando lunghe gonne e corsetti che non stringono più, stivali e sandali, capotti che ci possiamo dipingere da sole, ma soprattutto usando la nostra arte. Agendo. Appropriandoci del nostro passato [in senso collettivo, di donne]. Lavorando per affermare la nostra idea di mondo, condividendola con donne e uomini che la pensano come noi e occupando – con “leggerezza” [so che posso evitare di precisare l’accezione in cui uso la parola] – i luoghi del patriarcato.

Chiuri lo fa nel suo lavoro. Lo ha fatto a Lecce come lo aveva fatto in altri luoghi e contesti. E il marketing fa parte del suo lavoro [del lavoro di Dior], è una leva per vendere. Trentamila lampadine sulle luminarie, Giuliano Sangiorni che canta Modugno e il video di Winspeare col pasticciotto fanno parte di questa leva, in una dimensione globale in cui bisognava anche “giocare” con l’immagine dell’Italia, della Puglia e del Salento. E questo gioco servirà anche, ne sono più che certa, all’economia dell’Italia, della Puglia e del Salento.

[inciso] Il paragone è azzardato, ma pure io quando ho ideato “messinscena d’affanni” e ho coinvolto artiste/i che apprezzavo, volevo [anche] vendere i miei libri. E ne avrei venduti volentieri molti di più, naturalmente! [sto ridendo].

Può piacere o meno, quel che personalmente trovo interessante è che Chiuri sia un’artista femminista che si muove molto bene nello spazio che si è conquistata. Una donna che non chiede il permesso, che non chiede scusa, che non si sente in colpa, che non vuole piacere per forza, che progetta le sue opere avendo un’idea forte di sorellanza e amando la sua storia, personale e collettiva, e puntando sulla bellezza che molte/i di noi condividono.

Il “progetto” della sfilata mi è piaciuto per questo. Mi è piaciuto molto. Per farla breve, per un messaggio che sintetizzo così:

Amiche mie!, sputiamo [sempre meglio] su Hegel. Be brave, stay feminist and never give up!


La foto di Maria Grazia Chiuri è mia, gliel’ho scattata nel corso dell’incontro con la stampa a Lecce, il 21 luglio 2020.

ogni sbaglio è un nuovo pinto

Ero all’incontro con la stampa nel quale Chiuri – presente il sindaco Carlo Salvemini – ha raccontato il suo “progetto”, non una semplice presentazione d’abiti, né un “evento”, piuttosto una performance che anche questa volta è “collettiva”: potremo vederla domani online (la sfilata è “chiusa” per le ovvie misure anti-Covid), alle 20.45 in diretta da Piazza Duomo (link: https://www.dior.com/it_it/moda-donna/sfilate-pret-a-porter/collezione-cruise-2021). Credo che l’incontro fosse stato organizzato per “chiarire” alcune “questioni” che in questi giorni hanno tanto… appassionato alcuni mei conterranei. Tipo: le luminarie stanno bene in piazza Duomo?, una sfilata di moda non offende Dio in piazza Duomo? E altre faccende del genere, nelle quali non mi addentro perché Chiuri e questa sfilata mi interessano per altri motivi.

Da quando è in Dior, seguo con interesse il lavoro di Chiuri, ma la moda c’entra poco. C’entra invece il gusto di rintracciare i suoi riferimenti – quali artiste cita, quali coinvolge, o approfondire le sue iniziative – un talk sul femminismo o un progetto per lo sviluppo locale, nel contesto di un lavoro che ha una ribalta mondiale e che parla di femminismo come fosse la cosa più naturale del mondo. Roba che – converrete – per un’italiana (intendo: io) non è una banalità. Dopo la famosa maglietta con la scritta “We Should All Be Feminists” che citava Chimamanda Ngozi Adichie, mi ha letteralmente conquistata lavorando con Judy Chicago.

A Lecce, per la cruise, ha coinvolto l’artista femminista Marinella Senatore, alla quale ha fornito, più che un set, un palcoscenico: viene definita a multidisciplinary artist whose practice is characterized by a strong participatory dimension and a constant dialogue between history, popular culture and social structures. E in questa dimensione di partecipazione sono entrate le luminarie dei fratelli Parisi, i tessuti realizzati dalle tessitrici della Fondazione Le Costantine e la perizia al tombolo di Marilena Sparasci, l’orchestra e il corpo di ballo de La Notte della Taranta assieme all’attuale maestro concertatore Paolo Buonvino e molto altro di cui pian piano vi racconterò. In un video firmato dal regista Edoardo Winspeare, da poche ore pubblicato sui canali social di Dior, un mega spot della città (dell’altro mega spot firmato Chiara Ferragni parlerò poi, promesso).

Nell’incontro Chiuri ha parlato di sé con grande emozione: di suo padre, sua madre e sua figlia, di una zia che – guarda caso – lavorava nel castello dei Winspeare a Depressa (una frazione di Tricase, dove il regista vive ancora), della gratitudine che prova per aver potuto imparare il mestiere a contatto con i fondatori delle aziende di moda – le sorelle Fendi e Valentino, e di quella per Dior che l’appoggia nel suo percorso, della sorpresa della stampa per il suo incarico francese, della bellezza e dei talenti dell’Italia che desidera promuovere e valorizzare. Tutte cose che, in qualche modo, troveranno sintesi nella sfilata di domani, per la quale ha ringraziato della collaborazione tante delle persone coinvolte. A cominciare dal sindaco e dal vescovo. Il sindaco. E il vescovo.

“La sua narrazione femminista sfilerà di fatto nel cuore del patriarcato. Lo ha fatto apposta?”, le ho chiesto. Ha sorriso e mi ha risposto di no. Mi ha risposto che – come io stessa avevo premesso alla domanda – essere femminista per lei è “naturale” (sintesi mia): per i suoi genitori era “solo Maria Grazia”, e il femminismo inteso nella sua dimensione internazionale farà il bene dei nostri figli.

Ogni sbaglio è un nuovo pinto, aveva citato qualche minuto prima parlando della tessitura al telaio: alle Costantine le hanno fatto notare che ogni errore è un nuovo punto da cui partire, e dal quale magari potrà venir fuori un disegno originale e inaspettato. Un’idea che mi piace condividere, assieme alla descrizione di quest’altra scena: mentre le campane di sant’Irene interrompevano l’incontro e qualcuno quasi se ne scusava (eravamo nel chiostro dei Teatini, proprio accanto alla chiesa), Chiuri alzava gli occhi al cielo e sorrideva commossa.

E ora vediamo che succede domani.

Nelle foto (mie), alcuni momenti dell’incontro con la stampa.
Il profilo IG di Maria Grazia Chiuri: https://www.instagram.com/mariagraziachiuri/

Robin vs Merida

Leggo con molto interesse thePeriod, la newsletter ideata e curata da Corinna De Cesare [a proposito, iscrizione consigliata: https://mailchi.mp/505bb0466c3a/theperiod). Questa settimana, nel pezzo “Le femministe che odiavano Melissa P.”, in un passaggio Melissa Panarello scrive qualcosa che mi ha dato da pensare:

da Biancaneve a The Brave è cambiato moltissimo

Intendiamoci: il mio è un pensiero che in parte devia dall’argomento del pezzo, e il passaggio “mi ha dato da pensare” nel senso che mi ha fatto mettere a fuoco una faccenda. Ma non perdiamoci in precisazioni e andiamo al sodo.

Da Biancaneve a The Brave è cambiato moltissimo, ma per chi?

Per me sì, certo, per me femmina quarantenne, che vengo da un certo contesto, da certe letture, da certi pre-giudizi e stereotipi diffusi. Per me Merida, la protagonista di “The Brave”, è un personaggio femminile che finalmente non si realizza trovando l’amore ma esprimendo se stessa, ed è per questo non dico entusiasmante ma almeno positivo. Leggendone la storia a mio figlio Giovanni, ho capito che però questo non ha nessuna importanza. Non ha nessuna importanza per lui.

Fin da quando aveva tre mesi, leggo a Giovanni tanti, tanti libri, tanti e di diverso genere. Da qualche tempo (ora ha poco meno di tre anni), ho pensato di proporgli anche storie che in qualche modo sono legate ai miei ricordi di bambina, e di affiancarle ad altre più “contemporanee”. Ho scoperto che gli piace ascoltarle, gli piacciono i disegni, e gli piace ritrovarle nei film d’animazione. Della stessa editrice e formato, gli ho proposto anche “Robin Hood” e “Ribelle. The Brave”: li vedete nell’immagine, sono Giunti, i volumi di questa serie costano meno di dieci euro (a seconda delle edizioni). Giovanni mi ha fatto notare molto presto che sia Robin Hood che Merida sono “molto bravi a usare l’arco”, ma a parte questo… a Giovanni ascoltare “Ribelle” non piace, o meglio… lo annoia.

Non voglio dilungarmi sulle tante differenze tra le due storie, né fare un’analisi puntuale delle possibili interpretazioni. Io, semplicemente, penso che abbia ragione. Merida è noiosa. Merida non fa “niente”. Robin Hood combatte un usurpatore, ruba ai ricchi per donare ai poveri, è simpatico, è scaltro. Merida si libera da un destino che pare predefinito e… non si sposa. E allora? Che cosa significa per un bambino? [E che cosa dovrebbe significare per una bambina?]

Voglio proporre a Giovanni storie di donne nelle quali non si parla di matrimoni, di necessità di emanciparsi dalle… solite cose, voglio protagoniste interessanti che fanno cose interessanti. Nelle quali potrebbe aver voglia d’identificarsi. Ve ne vengono in mente? Suggeritemele, se vi va.

150+1

Simona Cleopazzo sa di cosa parla e sa come parlarne.

Nell’assenza nella presenza della vicinanza della lontananza.

Di quanto si possa vivere + pensare.

Della scrittura che non è cura.

Così si parla netto diretto negli alti nei bassi nei rivoli nei risvolti.

La scrittura – ha ragione lei – è il fulcro di tutto. Ma io le devo soprattutto d’aver sputato su di lui come aveva fatto su Hegel.

Simona Clepazzo, 150+1 appunti sull’amore e sulla scrittura, Collettiva edizioni indipendenti

ho letto “sedici” di Milena A. Carone

Checché ne scriva in quarta di copertina, Milena A. Carone intreccia in questo libro soprattutto eventi privati [quelli pubblici fanno da sfondo: alcuni sono molto gradevoli da ricordare, altri sarebbe ora fossero ricordati anche ‘storicamente’], e sfata molti ‘miti’ sulle relazioni e lo stile di vita delle femministe [almeno di alcune].

In un italiano ben tenuto, Sedici è scritto quasi come fosse un codice da decifrare. Una volta “dentro”, è difficile uscirne, e sul finale la sensazione d’esserne trascinate si fa più forte [Milena, sbrigati a pubblicare il secondo volume, vogliamo leggere come va a finire].

I concetti di privato e politico, di forma e sostanza, s’applicano a vicende nelle quali l’autrice scava profondamente con leggerezza e ironia, fino a metterne in discussione i confini. Personalmente apprezzo molto la capacità di narrare il dolore, e l’idea dell’arte come possibilità salvifica.

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