Categoria: interviste

un incontro “personale” con Lea Barletti

avvertenza: in questo testo ho inserito numerosi riferimenti a cose/luoghi/persone che do per scontati, confido nella semplicità con cui si cerca su google

Seguo Lea Barletti come autrice. Autrice di testi, testi teatrali, testi narrativi, autrice di testi anche quando li recita. Non so distinguere le sue messe in scena dalla sua scrittura. Nei giorni scorsi ho visto a Lecce “Autodiffamazione”, “Parla, Clitemnestra!”, “Monologo della Buona Madre” e “Ashes to Ashes”, quattro spettacoli in tre giorni firmati dalla compagnia sua e di Werner Waas: attualmente vivono a Berlino e sono tornati brevemente qui, dove anni fa hanno tra l’altro contribuito a fondare le Manifatture Knos, per una “personale” al Teatro Koreja. La parola “personale” non l’ho scelta io, ma è mia l’associazione immediata con una mostra d’arte. E questa tre giorni per me lo è stata. Ecco perché.

Barletti/Waas lavora sulla parola-in-relazione, e su questo concetto costruisce l’universo del suo teatro: recitato, scene, costumi, musica. “Un discorso sul mondo” lo chiamano: «Non ci interessa parlare di noi, ci interessa parlare attraverso di noi, attraverso i nostri corpi, le nostre lingue, del mondo», scrivono per presentarsi, «Ci interessano testi attraverso i quali rendere possibile questo discorso, ci interessa farci portatori e testimoni di quei testi, essere strumento del testo e al contempo usare il testo come strumento».

ph. Luciano Onza

Autodiffamazione

Autodiffamazione parte da un testo di Peter Handke [peraltro co-autore della sceneggiatura de “Il cielo sopra Berlino”, credo uno dei miei film preferiti, ma non è rilevante – mi rendo conto]: lo ha scritto a 24 anni, 57 anni fa, Barletti e Waas l’hanno in parte ri-tradotto in italiano, considerando inefficace la traduzione più nota, e lo portano in scena da dieci anni. Circa ottanta le repliche. Entrano in scena nudi eccetto che per due dettagli: lei porta scarpe con tacchi alti, lui un cappello. Poi si vestono e continuano ad auto-diffamarsi parlando in due lingue, ciascuno nella sua lingua madre – italiano e tedesco, ciascuna delle due lingue viene alternativamente sovratitolata. Si auto-accusano di cose piccole, minuscole, di cose che diventano colpe anche se non lo sono, di cose che abbiamo fatto tutti/e o che, se non abbiamo fatto, ci riguardano lo stesso. Impressionante, per me, la scelta di tradurre un passaggio con l’espressione “ho violato il lockdown”. Ecco, in quel momento l’abbattimento del “confine” tra generi, tra attori e spettatori, tra passato e presente per me è stato totale. Passano i minuti e ti scordi che sei lì per osservare e ascoltare, sul palco ci sei salita, parli in italiano, parli in tedesco, sei donna, sei uomo, sei un/a vivente qualsiasi e in questa generalizzazione c’è tutta la bellezza e tutto il dramma della condizione umana. Alfa e omega dello spettacolo [e della vita, no?] sono in questa affermazione: “Io sono venuto al mondo”. In un breve dialogo col pubblico dopo lo spettacolo, Waas ha osservato: «L’io è sopravvalutato, e senza le regole resterebbe ben poco», rivelando un grande lavoro umano e artistico a partire da Handke. E poi Barletti: «(L’autodiffamazione) è un metodo, un congegno per pensare».

ph. Luciano Onza

Parla, Clitemnestra! Un’eterna tragedia in versi

Un congegno a mio parere chiaro anche in Parla, Clitemnestra! Un’eterna tragedia in versi, scritto da Lea Barletti, portato in scena assieme a Gabriele Benedetti, regia Barletti/Waas. Barletti-Clitemnestra accanto a Benedetti-Agamennone sul palco, pelle dipinta di bianco e coperta di panni bianchi, è un’icona: la sua scrittura si fonde con gesti e voce per ri-narrare il personaggio classico della moglie fedifraga e assassina e poi della madre assassinata. Una nuova storia si costruisce letteralmente illuminata dal pubblico, e quindi narrata anche in questa “relazione”: in 90 circondiamo la scena, quattro di noi illuminano i personaggi con piccole torce e sottolineano dettagli, creano ombre, ci condizionano, ci irritano a volte. Da principio Barletti-Clitemnestra parla lentamente, si “poggia” su ogni parola, la sottolinea muovendosi piano, rivendica una storia di dolore giocando coi registri. Il testo è in rima, “una gabbia che libera” la definisce l’autrice, alleggerisce il peso di una storia conosciuta eppure mai narrata. Poi la lingua e i gesti man mano di sciolgono, dal passato si giunge al presente, a quello di molte donne violate, a quello di tutte le donne che aderiscono coscienti o incoscienti a schemi dell’essere e dell’agire. Beh, da questa dinamica Agamennone – le cui colpe sono chiare, evidenti, ribadite – non esce come unico colpevole. Perché gli schemi reggono finché l’uno si regge sull’altro, finché si sostengono a vicenda, finché si gioca quel gioco che si conosce fin troppo bene e in cui è facile sentirsi, paradossalmente, al sicuro.

ph. Luciano Onza

Monologo della Buona Madre

In Monologo della Buona Madre il gioco dentro-fuori dagli schemi arriva al suo picco. Scritto e interpretato da Lea Barletti, regia Barletti/Waas, è punteggiato dalle musiche originali – perfette – di Luca Canciello. Chi parla in questo monologo? La donna, l’autrice, l’attrice? Che domande sono? Cosa significano? Nulla, zero. Quello che importa per me è l’energia che ti resta.

Cosa so fare io? So fare dolci, si chiede e si risponde Barletti-BuonaMadre, abito nero, tacchi, mani sulle ginocchia, seduta ad almeno tre metri da terra come una statua: sul piedistallo la scritta “Buona Madre, tecniche e materiali misti”. Waas passa tra gli spettatori offrendo biscotti e a me vengono in mente tanti dei dolci e biscotti postati da Barletti su Facebook. Mi viene in mente soprattutto il post per uno dei compleanni di uno dei loro figli [Hanno fatto due figli, insieme, scrivono sul loro sito]: una torta a forma di morte nera. Miodio, difficilissimo, avevo pensato.

[Continuo adesso col ricordo dello spettacolo, a braccio].

Cosa ho insegnato ai miei figli? A cucinare il sugo? Quello lo potevano imparare a fare anche da soli, come ho fatto io. Mi sono venute in mente le prime settimane, densissime, della mia esperienza di madre. Leggevo, leggevo molto [non mi ricordo però né quando né come], soprattutto cose che mi hanno aiutata a capire che tipo di madre non “volevo” essere, ma “sentivo” di essere. Non perfetta, questo no, nemmeno mi importava. Ma “abbastanza buona”, questo sì. Abbastanza. Coi miei limiti. Che mi danno grande bellezza, che mi rendono unica. Barletti-BuonaMadre scrive ed è questo il suo lascito perfetto. La gabbia della perfezione è la stessa del bisogno di sentirsi amata, ma per amarsi bisogna essere liberi, o almeno aspirare a esserlo, nei continui aggiustamenti del quotidiano. Liberi di dirsi le cose, dirle a sé e dirle agli altri. In certi passaggi dolorosi del monologo un pensiero leggero mi ha attraversata: lascia perdere, questa è una sciocchezza, una fesseria, lascia perdere, non è importante. A chi lo dicevo? Lo dicevo a me stessa, senza alcun dubbio.

«Il teatro è l’unica cosa che so fare», ha detto Barletti dopo lo spettacolo. Io avrei detto scrivere, ma non cambia niente. È abbastanza. È più che abbastanza.

ph. Paolo Costantini

Ashes to Ashes

La personale si è chiusa con la prima nazionale di Ashes to Ashes, cenere alla cenere, scritto da Lea Barletti, in scena Werner Waas, regia Barletti/Waas e, anche in questo caso, le ottime musiche originali di Luca Canciello. Il teatro è denso di fumo, prodotto all’inizio anche dal cappello del personaggio-pagliaccio-uomo-automa che percorre il palco a due e quattro zampe, che impugna un microfono e una banana, che siede tra il pubblico, che esce ed entra ricordandoci che la terra è in fiamme. Che tutto diventa cenere mentre discutiamo della pasta che scuoce, che brucia tutto fuori e anche dentro di noi. Brucia la nostra capacità di pensare, di agire, di decidere, di preoccuparci davvero di ciò che ci circonda, di distinguere il vero dal falso, il reale dall’immaginato. Torna pure l’ironia che però, questa volta, invece che alleggerire ci fa sprofondare nella disperazione. Li ho odiati, a un certo punto, per avermi costretta a ripensare all’impotenza che sento e che, a volte, non mi ha fatto dormire. Io voglio dormire, non voglio tornare a ricordare quanto ogni piccolo gesto può essere influente su ciò che accade al pianeta che mi fa vivere e al quale sono debitrice.

Parole politiche, insomma, programmaticamente proposte per richiamare al pensiero. Pensate, persone!, pensate. Come tutto il teatro, direte. Forse. Non ne sono sicura. Mi piace il fatto che Barletti/Waas non dia risposte, che faccia solo domande.

[pausa]

Ho chiesto a Lea Barletti di leggere questo testo e di rispondere a tre domande. Eccole.

io e Lea Barletti nel 2012 [link in fondo per altre info]

Tre domande a Lea Barletti

Ho provato a immaginarmi come e dove scrivi, è una questione che quasi mi ossessiona da quando mi sono resa conto che, anche avendo “una stanza tutta per sé”, questa non è sufficiente: perché devi avere anche il tempo e la calma di abitarla, quella stanza. Dopo aver letto i tuoi racconti in “Libro dei dispersi e dei ritornati” (Musicaos 2018), scritti a partire da foto trovate per caso, e questa immersione nella vostra personale a Lecce, vorrei proprio saperlo: dove e come scrivi? La domanda anela a una risposta che nutre aspettative verso la tua capacità di raccontare la materialità della vita senza perdere l’astrazione.

La prima “scrittura” la faccio per lo più in mente. Camminando all’aperto, possibilmente in luoghi vasti (ma mi adatto, l’importante è che si veda il cielo). Mi piace camminare, quasi quanto detesto invece andare in bicicletta. Esco e cammino, a volte anche per diversi chilometri. I pensieri, le parole, le frasi, seguono il ritmo del corpo in movimento e del respiro e ad un certo punto non c’è più distinzione tra parole e corpo, tra pensiero e movimento. Soprattutto molti testi in versi sono nati così. La mia è una scrittura che nasce soprattutto dal corpo, come se le sillabe o le parole si appoggiassero sul movimento e viceversa. Il ritmo, in questo senso, è in qualche modo più importante del senso. È il ritmo che guida, e nasce dal corpo.

Poi, a casa, trascrivo al computer quello che mi ricordo. A volte purtroppo alcune cose vanno perdute, ma pazienza, quelle fondamentali restano, come inscritte nella memoria del corpo. Trascrivendole, quindi ri-pensandole, possono cambiare, spesso scopro altre cose, è un procedimento vivo, non cerco di “fermarle” sulla carta, cerco piuttosto di continuare a sentirne  il movimento. A casa, più classicamente, scrivo al tavolo della cucina. Alla mia sinistra c’è la finestra che da sul giardino. Questo mi aiuta a vincere una leggera forma di claustrofobia: devo sempre avere la possibilità di vedere un pezzo di cielo, proprio come quando cammino. Ma anche al computer, è una questione di ritmo: anche qui è il ritmo, con il movimento e il rumore delle dita sui tasti, che mi guida.

Nei tuoi testi le parole mi paiono pesate [letteralmente], anche se non mancano la velocità e un certo… effetto “spontaneità”. È così? Perché?

Sì, in scena le parole sono pesate, perché le penso o ri-penso, dunque le peso, ogni volta che le pronuncio. È quasi lo stesso procedimento di “trascrizione” che faccio quando passo dal testo “pensato” a quello scritto, cercando di ascoltare il movimento delle parole e di trascriverlo. A loro volta, poi, le parole che ho scritto, passando nuovamente per il corpo per essere pronunciate sulla scena, vengono ri-pensate e ri-pesate e in questo modo ri-scoperte ogni volta diverse, nuove. E assumono un nuovo ritmo, un nuovo movimento, un nuovo senso, a volte vicino a quello che le ha originate, come delle “variazioni”, a volte stravolgendolo in una nuova visone. Le parole per me sono porte che si aprono su possibilità ogni volta diverse, e queste possibilità si rivelano solo se do loro la possibilità di rivelarsi, solo se mi pongo, io per prima, come autrice e come attrice, in una posizione di ascolto. Le parole sono vive, anche quelle scritte, perché leggendole, pensandole, ascoltandole e  dicendole rivelano sempre qualcosa di nuovo. Leggendo, lo stesso processo lo facciamo, da lettori, nella mente. O almeno: da lettori “attivi”. E lo stesso avviene negli spettatori. L’attore è in questo senso un tramite del testo, l’attore ascolta e lascia agire dentro di sé  il testo che arriva vivo allo spettatore che a suo volta lo ascolta e lascia agire dentro di sé e lo restituisce, con il suo ascolto, sguardo, presenza, all’attore. E così via. Il teatro è per me un pensare insieme, un circolo virtuoso.

Ho letto sul vostro sito un testo di Werner a proposito di Autodiffamazione. Dice: All’inizio c’era l’entusiasmo di Lea, sempre di nuovo quel suo entusiasmo! per La notte della Morava. E poi c’era quel suo pluriennale insistere, ossessivo, ininterrotto, perché tirassi fuori un testo, un progetto sul quale lavorare e scappare così dalle contingenze quotidiane e dal vuoto che ci stava per inghiottire. In fondo non avevamo più fatto nulla di veramente degno di nota dalla nostra Anarchia in Baviera due anni prima. Io non avevo voglia di fare niente, non avevo nessun’idea in grado di mettere in moto qualcosa e assistevo impotente allo sgretolarsi del nostro rapporto.

Assistere alla vostra personale è stato anche un viaggio intimo, mi sono sentita destinataria del racconto di un’intimità condivisa, ché l’arte è il massimo dell’intimo possibile credo. Convergono nei tuoi testi, prodotti e resi in scena dalla vostra compagnia, fatti privati e questioni pubbliche senza che si possa distinguere una linea di confine. O c’è? In un caso e nell’altro, cosa c’è di confortevole e cosa di complesso nel vostro lavoro comune?

Su molte, moltissime, cose ci capiamo al volo. Abbiamo un vocabolario in comune. Ci fidiamo l’uno dell’altra, contiamo sulla reciproca capacità di ascolto e restituzione. Siamo come “allenati” a pensare insieme. E questo è confortevole e complesso allo stesso tempo.

Poi, come tutte le coppie artistiche e/o di vita, discutiamo, e anche litighiamo, spesso. Ma solo fuori dalla scena. In scena no, mai. In scena l’accordo, l’ascolto, il dialogo sono quasi sempre perfetti, il canale di comunicazione è aperto e sgombro da ostacoli, il maggiore dei quali è il proprio e altrui ego. In scena cerchiamo per quanto possibile di tenere l’ego da parte. Nella vita, come per tutti, a volte è più difficile, a volte il canale si chiude, l’ego si mette in mezzo e impedisce il vero reciproco ascolto, e quindi il dialogo. Forse in questo caso la vita avrebbe qualcosa da imparare dall’arte? Con Werner crediamo che un attore debba essere trasparente, e la trasparenza è possibile solo se l’ego non si mette per traverso impedendo allo spettatore di “vedere”, ATTRAVERSO l’attore, la propria storia, fare il proprio percorso, la propria esperienza. Ecco questo è quello che intendiamo noi per “fare teatro”: la possibilità di un dialogo. E perché ciò avvenga tra noi e gli spettatori, questo dialogo, vivo, attivo, deve avvenire innanzitutto all’interno di noi e tra di noi.

Per saperne di più sulla compagnia Barletti/Waas: https://barlettiwaas.eu/

una cosa che ho fatto con Lea Barletti

in copertina: Monologo della buona madre, ph. Luciano Onza

il metodo Liguori

“Il metodo Aquilani” è l’ultimo romanzo di Elisabetta Liguori, ma non si legge. Si ascolta soltanto. La storia è stata scritta – fin dal principio – per essere ascoltata, ed è uscita [per ora] solo su Storytel, nota piattaforma di audiolibri, podcast ed ebook. Ho cominciato ad ascoltarla un sabato mattina, a colazione, cercando di liberare la mente e il cuore dalle aspettative: Elisabetta è un’amica, più di un’amica [siamo assieme “dentro” l’editrice indipendente Collettiva ed è una delle persone che per prima ha saputo delle mie idee per Orlando, per intenderci], e avevo seguito anche se indirettamente la gestazione, l’entusiasmo e i dubbi di questo lavoro. Ho continuato ad ascoltare “Il metodo Aquilani” camminando, ho finito di ascoltarlo – credo – davanti allo specchio una domenica mattina.

Non sono mai riuscita a distrarmi, non ho potuto che tendere attentamente le orecchie a questa storia evidentemente ispirata al caso Francesco Bellomo. Mi colpisce che la recensione inizialmente più severa su Storytel [“Assolutamente inverosimile. Va bene l’invenzione letteraria, ma alla sospensione dell’incredulità c’è un limite”], sia finita con “Non conoscevo la vicenda. Vero che la realtà supera la fantasia. Mi spiace che non ci sia la possibilità di cambiare le recensioni”. All’ascoltatrice era stato suggerito, da un’altra utente, di cercare su internet i termini “dress code magistratura”. Se “Francesco Bellomo” non vi dice niente, fate anche voi questa prova.

La sinossi ufficiale esordisce così:
A Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato a Roma, è arrivato un esposto contro il magistrato Primo Aquilani. Un giovane magistrato alle primissime armi viene incaricato di redigere la relazione disciplinare sugli inquietanti corsi di formazione tenuti dal collega messo sotto accusa, che sembrano essere stati la causa della tragica morte della figlia dell’autore dell’esposto.

Elisabetta Liguori vive a Lecce [foto scattata in un pomeriggio piovoso]

Il romanzo mi ha colpito così tanto [le ragioni nelle prossime righe] che ho chiesto a Elisabetta di parlarne con me per scriverne qui, sul blog. La ringrazio di aver risposto a tutte le domande, svelandoci un po’ di sé e della sua scrittura, parlandoci un po’ del… “metodo Liguori”.

“Caso Francesco Bellomo”, dicevo. Elisabetta Liguori, cosa ti ha colpita della vicenda e perché hai deciso di tirarne fuori un romanzo? Quale il confine tra fatti e invenzione?

Il caso è stato la scintilla d’innesco per la mia storia. Mi colpì moltissimo, quando ne venni a conoscenza, proprio per il suo grande potenziale narrativo. Toccava tasti dolentissimi: la mancanza di futuro per i nostri giovani laureati, la fragilità emotiva che si nasconde dietro l’arte della seduzione, la capacità di immaginare mondi dove mondi non ci sono, i confini inafferrabili della manipolazione psicologica, la misura di ciò che siamo davvero disposti a fare per realizzare i nostri sogni. E, ovviamente, i giochi segreti nei palazzi del potere. Ho deciso di esplorare quei temi trasformandoli in fiction, perché non conosco altro modo per comprendere ciò che mi affascina e m’interroga.

Dal tuo lavoro quotidiano mi pare emergano anche altre ispirazioni per l’invenzione: la conoscenza della magistratura, ovviamente, ma anche le dinamiche dell’adozione. Come hai fatto convivere i tuoi saperi tecnici e le esigenze narrative?

Nelle scuole di scrittura americane viene chiamata expertice e non se ne può fare a meno. La conoscenza tecnica e concreta di ciò che vuoi raccontare, infatti, è un ottimo punto di partenza. Forse lo strumento che rende una scrittrice o uno scrittore più sicuri e saldi nel proprio mestiere. Per questa ragione, dopo aver scelto la forma del romanzo, ho cercato di mettere nella mia cassetta degli attrezzi ciò che, per lavoro, per esperienze professionali o per puro caso, conosco meglio. Da venticinque anni dirigo il Tribunale per i Minori di Lecce, un ambiente di provincia, soggetto a regole rigide posto al centro di un mondo difficile e vero; qui ne ho viste e ascoltate tante di storie come queste. È stato molto facile per me, quindi, far convivere sapere tecnico ed esigenze narrative; sarebbe stato più difficile se non avessi potuto farlo. Quello che volevo raccontare era la verità di tutti, la verità possibile. Nelle opere di fiction, di solito ci si spinge ben aldilà dei meri fatti di cronaca ed è esattamente ciò che ho fatto anche io, partendo dal dato reale a me noto per poi giocare con le probabilità, con il what if, spingendomi fin dove la mia mente riusciva a spingersi, senza mai perdere di vista la verità. Le cose nella realtà non sono ovviamente andate come ho le raccontate, ma sarebbe senza dubbio potuto accadere.

Elisabetta Liguori davanti al Tribunale per i Minori di Lecce, dove lavora

La storia nasce per essere ascoltata, a me sembra evidente dall’andamento della narrazione. Il protagonista conduce chi ascolta nei meandri dei suoi pensieri e sentimenti, goccia a goccia a volte. A tratti mi sono quasi sentita in imbarazzo, nell’entrare nella sua intimità. Sono certa che è anche conseguenza dell’efficacia della voce, in ogni caso la tua bravura di narratrice era nota e questa prova lo evidenzia ulteriormente. Quali sono le differenze tra scrivere per la carta e scrivere per l’audio?

Le differenze sono tante, ma non tantissime. Sicuramente nel caso di un romanzo letto a voce alta il rapporto con il lettore/ascoltatore deve essere oggetto di una cura più attenta e puntuale. La storia viene sussurrata direttamente nelle sue orecchie, parla alla sua pancia, produce suoni che devono restare nella sua mente e, possibilmente, creare una forma dolce di dipendenza. Il nemico è l’abbandono, il sonno, la mente che vaga altrove, la distrazione, lo sganciamento. Per questo scopo esistono tutta una serie di strumenti tecnici quali il cliffhanger [interruzione brusca in corrispondenza di un colpo di scena, ndr], la tenuta dei dialoghi, le durata delle pause descrittive, i respiri, il recapping, per acchiappare l’ascoltatore. Si tratta di ausili di scrittura tecnica che, diversamente dall’ispirazione letteraria, lo stile o la visione dell’autore, possono essere insegnati e dunque appresi. Ciò detto, il resto non cambia: si scrive per amore, per necessità, per rabbia, che sia fatto a voce alta o sulla pagina, le domande, le motivazioni, la sofferenza, la fatica, l’ostinazione e la gioia vitale di chi scrive sono le medesime.

Come è stato sentire la storia letta da un uomo? Nel leggerla e rileggerla, durante la stesura, te la immaginavi così?

Ascoltare il mio personaggio mi ha dato i brividi. Non avevo immaginato nulla di specifico prima, ma so di aver molto desiderato. Desideravo ascoltare il giovane uomo tormentato a cui aveva dato vita, mentre parlava, pensava e si muoveva nello spazio. Nello stesso tempo avevo molta paura di lui, come il dr. Frankenstein della sua creatura. In verità, ne ho ancora molta.

Come hai lavorato sul personaggio principale? Ci racconti qualcosa dell’immedesimazione che, immagino, sia stata da parte tua necessaria?

Credo di aver conosciuto personalmente il giovane magistrato, protagonista della mia storia, anzi credo di averne incontrati molti come lui tra i miei coetanei. Individui irrisolti, schiacciati dal bisogno di arrivare ed essere riconosciuti attraverso lo sguardo altrui, emancipandosi da modelli sociali o famigliari castranti o fortemente idealizzati. Il mio è un eroe che crede di intraprendere un certo tipo di viaggio, invece si ritrova a farne uno del tutto diverso, nella direzione opposta. Un eroe attratto dalla propria ombra che, come sempre accade in questi casi, pur essendo un uomo mi somiglia molto.

Per darvi un’idea della “voce” del protagonista, ecco un passaggio del romanzo:

Perché Aquilani aveva scelto la guerra di Antonino tra tutte le altre guerre possibili, con le quali far colpo sui suoi allievi? Non contava quanto fosse saldo il sistema fondato da Aquilani, la sua inattaccabilità, la sua immoralità, la forza delle sue costruzioni, era sempre nel singolo che si celava l’anello debole. Lui aveva scelto di raccontare quell’anello debole. Una sola persona capace d’inceppare un intero meccanismo. Sapevo quanto fosse importante, lo sapevo perché già molte volte, in altri contesti, in altri momenti, era stato io quell’anello. Ero stato anche io un bambino pieno di domande, un erede infelice con l’insana abitudine di complicare ogni cosa. Era stata l’infelicità a rendermi complesso e dunque vulnerabile, ma potenzialmente infinito. L’infelicità accelera il pensiero, lo rende imprudente, vischioso. Gli infelici hanno radici umide, che rammollano e infettano il terreno, possono distruggere le piante più vigorose. L’infelicità libera gli ormoni. Gli infelici sono anelli deboli. E Aquilani era infelice. Per la miseria, se lo era, nonostante il suo enorme successo. Talmente infelice da poter narrare la parabola che dall’infelicità porta alla felicità come nessun altro.

Un’altra sensazione provata nell’ascolto è stata quella di… soffocamento. La storia è capace di calarci in un ambiente (come tanti, certo, ma non cambia la sensazione) fatto di ipocrisie, non detti, caste chiuse per ceto ed età (non continuo). L’ambiente, lo sfondo, ci viene sempre dalle parole in prima persona del protagonista. Come hai lavorato sulla differenziazione tra “primo piano” e “scena”, considerato che tutto doveva essere narrato solo a voce?

Quello descritto è l’ambiente che il protagonista crede di conoscere meglio, perché ci è nato dentro. Si tratta dello stesso ambiente del padre, infatti. Le sue descrizioni, dunque, sono autentiche, tangibili, tattili, ma mentre nella prima parte del romanzo sono filtrate dal desiderio e dal senso di appartenenza, gradualmente cambiano colore. Quando il protagonista è costretto ad attribuire al suo mondo, e ai suoi abitanti, moventi inediti e imprevisti, al suo desiderio si aggiunge lo stupore. Lentamente subentra la vergogna, intesa come emozione secondaria, che deriva cioè proprio dalla scoperta di essere dissimili dal gruppo sociale a cui si credeva di appartenere o a cui si desiderava appartenere.

La scrittura di questa storia ha un’origine laboratoriale, giusto? Ci racconti qualcosa di questa esperienza?

Durante la stesura di questo testo, ho avuto la fortuna d’incontrare un editor molto abile, Leonardo Patrignani: è stato lui a fornirmi gli strumenti tecnici specifici di cui ti parlavo, strumenti che io non utilizzavo abitualmente. Leonardo ha giocato con me, mi ha messo sotto pressione, ha lottato in un costante corpo a corpo con i miei personaggi, mi ha provocato, ha rotto molti dei pattern che tendevo a ripetere scrivendo, aprendo scenari alternativi. Questa cosa ha funzionato, soprattutto poiché si trattava di un testo lungo e articolato in episodi, per il quale era necessario sforzarsi di tenere sempre alta la tensione narrativa e resistere.

Elisabetta Liguori ha scritto qui “Il metodo Aquilani”

Cosa desidereresti per questa storia? Un destino sulla carta te lo auguri?

Oh, sì, assolutamente sì. Datemi la carta, vi prego, non posso farne a meno. Un eroe che non finisce anche sulla carta non può durare per sempre.

Non voglio svelare il finale, ma te lo chiedo: amor vincit omnia?

No, non credo purtroppo, credo che la verità sia più forte dell’amore, ma neanche quella vince su tutto.

Francesco Bellomo è stato di recente assolto dalle accuse di stalking e molestie. Rispondimi solo se vuoi: le sentenze stabiliscono la verità o rispondono semplicemente a codici interpretabili?

Non c’è nulla di più difficile da provare in un processo della manipolazione, del plagio, e quella di Bellomo è stata una storia di manipolazione. Dal mio punto di vista, ovviamente solo dal mio, resta più interessante capire come sia stato possibile, e come lo sia ancora, che degli individui preparati, intelligenti, colti, maturi, in perfetta salute, abbiano potuto accettare, e forse ancora oggi accettino, metodi di studio e di lavoro tanto manipolatori. Questa, in sintesi, è la domanda che mi ha spinto a scrivere un’opera di totale fantasia come è “Il metodo Aquilani”.

Elisabetta Liguori ha scritto anche “Il credito dell’imbianchino” (Argo), in cinquina al premio Berto, “Il correttore” (Pequod), “La felicità del testimone” (Manni); cura laboratori di scrittura e lettura creativa, è responsabile della collana Le sagge per Collettiva edizioni indipendenti.

Il suo profilo Instagram: @elisabetta.liguori68

“Women in Zimbabwe”: cinque storie a partire da un’amicizia

Eleonora Aralla è una donna bellissima, di una bellezza come la intendo io, al di là di ogni stereotipo, fatta di corpo e mente, personalità, verve, orgoglio, capacità di azione e reazione, decisione e responsabilità. Ve la presento perché, attraverso la relazione tra noi, posso parlarvi di un Paese che non è nell’agenda dell’informazione quotidiana ma che meriterebbe d’esserlo: lo Zimbabwe.

Ex colonia britannica, si trova nell’Africa del Sud, al confine con il Mozambico e il Sudafrica, i suoi parchi conservano una natura straordinaria e sotto l’ufficiale dicitura “Repubblica” [non] si nasconde una dittatura durissima. Nei giorni in cui scrivo questo post, cercando notizie su Google, compaiono “Uomo divorato dopo essere stato aggredito in casa da branco di iene”, “Grave incidente in una miniera”, “Appello dei vescovi a riconciliazione e unità” e, sul sito di Amnesty international, “Authorities must use bail hearing to release journalist Hopewell Chin’ono”.

In shona (o meglio, nel dialetto karanga), lingua bantu tra le più diffuse nel Paese, Dzimba-dza-mabwe vuol dire “casa di pietra”; le spettacolari Victoria Falls segnano il confine tra Zambia e Zimbabwe; sono zim i genitori di Danai Gurira, attrice in “The Walking Dead”; alcune scene di “Cacciatore bianco, cuore nero” di Clint Eastwood sono state girate sul lago Kariba in Zimbabwe. Per dire.

Torno adesso a Eleonora.

Quando mi parlano male di Facebook, penso a cose come quella successa tra me e lei. Facciamo un salto indietro, al 2017, quando poco prima che nascesse mio figlio Giovanni mi imbatto un questo post del sindaco della mia città:

Un dubbio, un ricordo, due ricerche, e capisco che quella cittadina è lei. Perché anni prima, non so come, avevo scovato il suo blog “la chica con la maleta” (“la ragazza con la valigia”, adesso non è più visibile), e mi era piaciuto molto. Ma soprattutto perché, ancora prima, nei miei primi anni di lavoro, quando alcune colleghe giornaliste mi chiamavano affettuosamente “pulciotta”, l’avevo conosciuta di persona, femminista all’università, a Lecce, in tempi in cui non se ne parlava un granché. Almeno, non nei termini di oggi, così diffusi e semplici, come istanze che meritano l’attenzione generale. Stiamo parlando dei primi anni Duemila. Insomma, da lì il nuovo contatto su Facebook e i discorsi sulla linea Lecce – Harare (hanno lo stesso fuso orario) a proposito di figli e di libri, di politica e, a un certo punto, anche di Africa. Ecco, Eleonora è una delle donne che mi ha costretta a esprimermi come si deve quando si parla di Africa. L’Africa è un continente, un continente immenso a cui dobbiamo molto del nostro benessere. E quando si parla di Africa bisogna esprimersi bene, in modo preciso.

Dopo la laurea in Lettere con una tesi in Filosofia politica su “Diritti umani e giustizia senza frontiere”, un master in Sviluppo sostenibile, vari corsi su monitoraggio e valutazione, politiche di genere e sviluppo, la scelta. Come? Perché?

«Fremevo per andare a mettere in pratica quello che avevo imparato, volevo conoscere una cultura diversa, spostare il mio punto di vista sulla realtà e imparare qualcosa su me stessa e sul mondo che mi circondava. Più o meno a 17 anni, mi era capitato di leggere di Marianela Garcia Villas, “avvocata dei poveri, dei malati, dei lontani”, che scoprii molti anni dopo essere un simbolo della lotta agli abusi del governo in El Salvador. Quella donna, dalla storia tristemente tragica, è rimasta la mia ispirazione. Quando si è trattato di scegliere una destinazione, lo Zimbabwe è sembrato “naturale”: è il paese d’origine di quello che poi è diventato mio marito, che è zimba-inglese e che ormai è italiano d’adozione, oltreché di passaporto. E poi è un paese che, per chi si occupa di cooperazione, offre condizioni di vita adatte alla famiglia, un family posting, in gergo, perché ha livelli di rischio sanitari e sociali relativamente bassi rispetto a paesi come l’Afghanistan o il Sudan. Sono in Zimbabwe dal 2011 e ci rimango anche perché è un Paese che regala a me e alla mia famiglia, tra le altre cose, il privilegio della prospettiva».

E che cos’è il “privilegio della prospettiva”?

«La possibilità quotidiana di apprezzare l’essenziale, di vivere un’esistenza “semplificata”. In Zimbabwe non ci sono centri commerciali né arriva Amazon, al supermercato si trovano – per esempio – solo due tipi di yogurt, o di latte, o di formaggio. A volte, per settimane, non si trovano la farina o il pane (per chi, come noi, se li può permettere), allora si mangia più riso, patate, polenta, uova, quello che si trova. A volte manca l’acqua, una volta siamo stati 18 giorni senza elettricità perché è esploso un trasformatore. Nessuno ne fa una tragedia. Queste “scomodità”, che vivo appunto come un’opportunità, sono ripagate da spazi ampi e verdissimi, animali di ogni tipo che vengono a visitare il nostro giardino, come le blue headed lizards e i turacos (specie di lucertole e uccelli, ndr), da miriadi di stelle vicinissime che ti sovrastano mentre la notte africana ti avvolge, e ti ricordano quanto poche, semplici cose siano quelle che contano, e quanto noi essere umani siamo precari ospiti di passaggio».

In Zimbabwe lavori per il Cafod, definita ufficialmente “the Catholic international development charity in England and Wales”. In cosa consiste il tuo lavoro per l’organizzazione?

«Io faccio l’“operatrice umanitaria”, questa è la definizione corretta, non sono una volontaria e non mi piace “cooperante”. La gente in genere pensa che questo lavoro consista nello scaricare sacchi di grano o scavare pozzi a mani nude, mentre in realtà il lavoro umanitario e di cooperazione allo sviluppo è fatto di una miriade di stratificazioni. Ipersemplificando, lavoro all’intersezione tra la programmazione strategica dei donatori (UE, ONU, agenzie nazionali di cooperazione) e le visioni/programmi delle varie organizzazioni no-profit, internazionali e locali dei paesi in via di sviluppo. In questo momento mi occupo di supportare i ‘team di programma’ dei vari settori (agricoltura, wash che sta per water sanitation and hygiene, protezione sociale, diritti dell’infanzia) nell’identificare fonti di finanziamento istituzionale, coordinare il disegno e la scrittura delle proposte, assicurarsi che vengano rispettati tutti gli standard di qualità (da quelli finanziari a quelli sulla salvaguardia del benessere dei beneficiari) e le regole contrattuali (pena la perdita dei fondi). Mi occupo anche di rafforzare le competenze dei partner locali con cui la mia organizzazione lavora in termini di mobilitazione di risorse, scrittura di proposte di progetto, gestione delle sovvenzioni, in modo che, con il tempo, siano in grado di accedere ai fondi e di gestirli autonomamente, senza il nostro aiuto».

Scusa se banalizzo: fammi un esempio di giornata tipo.

«Arrivo in ufficio dopo aver evitato buche grandi quanto crateri, commuter omnibus (una sorta di piccoli autobus, ndr) gremiti di gente e che corrono come schegge, biciclette sgangherate, orde di bambini in uniforme sul ciglio della strada, venditori di piccoli lavori di artigianato, bambini che chiedono l’elemosina. Mi siedo e passo un sacco di tempo al computer. Leggo le mail, controllo scadenze, guardo il calendario. Abbiamo ricevuto una sovvenzione da UNICEF per un progetto di fornitura di acqua nelle scuole! Bene, faremo un workshop di lancio del progetto assieme ai partner, in cui io mi occuperò di familiarizzare il nostro team e quello del partner locale con i regolamenti e gli standard del donatore, assicurandomi che tutti abbiano chiara la logica e i contenuti della nostra proposta per poterla poi tradurre nella pratica sul campo, per far diventare le parole scritte su un foglio un’attività di scavo di un pozzo, un training su igiene e salute mestruale, una campagna di advocacy… A fine workshop, si torna a casa dai miei bambini».

Tutto questo in un contesto politicamente complesso. Che però non mi pare apparire di frequente nell’agenda dell’informazione internazionale.

«Nella geopolitica globale lo Zimbabwe non è una priorità strategica, né politica né economica».

Solo per fare due esempi, oltre al caso del giornalista citato sul sito di Amnesty, Hopewell Chin’ono, val la pena di leggere questa intervista di Al Jazeera alla scrittrice Tsitsi Dangarembga: https://www.aljazeera.com/features/2020/11/16/qa-tsitsi-dangarembga (e gli articoli correlati proposti).

Vogliamo entrare nel merito delle emergenze umanitarie?

«La crisi finanziaria è dilagante, con la valuta locale che continua a svalutarsi esponenzialmente gettando i lavoratori del settore pubblico di fatto nella povertà e facendo praticamente scomparire la classe media. Il cambiamento climatico sta esacerbando condizioni ambientali già difficili (soprattutto in alcune province del paese), con ricorrenti periodi di siccità, inondazioni e cicloni. Una stagione delle piogge sempre più erratica ha stravolto i pattern di coltivazione e raccolto, lasciando milioni di famiglie in balia dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione. Spesso i bambini, che percorrono anche svariati chilometri per raggiungere le scuole, svengono per strada perché, semplicemente, non mangiano a sufficienza. Sono frequenti gli abusi sui bambini e la violenza di genere, le gravidanze di bambine di dieci, dodici anni sono all’ordine del giorno. Il sistema sanitario è già ben oltre il collasso: negli ospedali pubblici manca tutto, dal paracetamolo alle cannule per le flebo, per non parlare di acqua potabile ed elettricità; i medici sono in sciopero quasi costante. Anche il settore dell’educazione è allo stremo, con gli insegnanti in sciopero da mesi e il livello di istruzione che si abbassa sempre di più».

Con conseguenze ancora più gravi per le donne.

«Come sempre. Ti faccio un esempio pratico. In Zimbabwe spesso le ragazze non hanno accesso agli assorbenti, di nessun tipo. Quando anche riuscissero ad averne, magari grazie al supporto di ONG o di agenzie delle Nazioni Unite, c’è il problema della biancheria intima: non ne hanno. Andiamo oltre e facciamo il caso della coppetta mestruale. Poniamo che ne fossero fornite. Beh, non hanno accesso all’acqua corrente, né a casa né a scuola. Il risultato è che, in media, perdono quattro, cinque giorni di scuola al mese, cosa che spesso aumenta l’abbandono scolare, e poi matrimoni, gravidanze e prostituzione in età molto giovane. In questo scenario, organizzazioni come la mia lavorano per supportare le categorie vulnerabili, fornire strumenti per generare ingressi finanziari e mezzi di sostentamento, ma ovviamente non basta. Penso che le donne e gli uomini dello Zimbabwe siano un esempio di tenacia ma, forse, anche di rassegnazione».

Come si lavora da non cattolica in un’organizzazione che lo è per statuto?

«Il Cafod è diretta espressione del cattolicesimo sociale, missionario e… progressista, che è l’ambiente in cui mi sono formata e che ha ispirato la mia scelta quando ero un’adolescente. Anche se non sono più cattolica, condivido i valori di solidarietà, dignità e compassione che ispirano l’operato del Cafod. L’organizzazione non fa proselitismo e non impone la propria visione né ai propri impiegati – ho colleghi di tutte le fedi – né tantomeno ai beneficiari degli interventi. I nostri partner d’elezione sono le Caritas locali, che hanno il vantaggio di essere in contatto capillare e continuativo con le comunità locali e di poter lavorare in contesti politicamente difficili, ma lavoriamo anche con moltissimi partner secolari nelle più svariate aree programmatiche».

Da qualche mese sei tornata a Lecce, causa Covid.

«A fine marzo l’epidemia era scoppiata in Sudafrica e si prevedeva raggiungesse anche lo Zimbabwe. Gli esiti sarebbero stati devastanti, data la situazione sanitaria cui abbiamo accennato. Tutti i paesi del globo stavano cancellando i voli internazionali e così, assieme al Dipartimento di Sicurezza della mia organizzazione, abbiamo deciso di farci evacuare in via preventiva. Siamo saliti sull’ultimo volo che ha lasciato Harare prima che chiudessero tutto. Fortunatamente, e per ragioni che sono ancora parzialmente sconosciute anche agli addetti ai lavori, il Covid ha “risparmiato” l’Africa, o comunque l’ha colpita con molta meno violenza. È per questo che a fine anno torniamo a casa, nella speranza di poter riprendere, più o meno, la nostra vita di sempre».

Come è cambiata in questi anni la tua posizione politica?

«Negli anni dell’università, quand’ero nel comitato pari opportunità di un’associazione studentesca, non mi sarei forse nemmeno definitiva femminista. La parola femminismo faceva storcere nasi, noi cercavamo di rendere la questione di genere “accettabile” al pubblico degli studenti e anche di molte studentesse per le quali – ricordo bene – “non esistevano più” discriminazioni. E poi il mio attivismo era abbastanza improvvisato, di pancia, basato su mie esperienze dirette di discriminazioni e violenze subite, oltre che su un anelito più ampio di giustizia per la “categoria” a cui appartenevo. La mia vita professionale mi ha portata in quello che io pensavo fosse un “altrove”, salvo rendermi conto che la questione di genere è cruciale nel lavoro che faccio. E così adesso mi definisco femminista, ma in divenire. Studio e soprattutto imparo sul campo, in un contesto lontano dalla cultura occidentale dominante nel quale ho a che fare con persone di tutte le provenienze, geografiche e culturali».

Sei una delle persone giuste, credo, per parlare degli intrecci tra razzismo e femminismo.

«Il femminismo non può esimersi dal fare i conti con le disuguaglianze che si intersecano nelle esistenze di donne con diverse identità sociali e culturali. Per citare Kimberlé Williams Crenshaw, le disuguaglianze legate al colore della pelle non sono slegate da altre che riguardano la classe sociale o l’orientamento sessuale, e tutte queste non sono “solo la somma di tutte le parti”. Il vissuto personale di ognuna conta. Ecco perché, per me, il femminismo deve essere intersezionale. Come dice Fannie Lou Hamer, attivista di colore per diritti civili e delle donne, “Nessuno/a è libero/a finché tutti/e sono liberi/e”. È una visione molto vicina al mio sentire e alla mia esperienza. È fondamentale anche fare attenzione al modo in cui si affrontano certe questioni e si propongono “soluzioni”. Bisogna valutare accuratamente il contesto culturale in cui si opera, riconoscere posizioni diverse e fare attenzione a non ricadere nello stereotipo del white saviour. Le questioni di genere vanno affrontate nei diversi contesti e nel quadro delle diverse discriminazioni che si intersecano. Non ci sono “donne indifese” che vanno “salvate”, ma donne che sono al centro di un discorso, delle quali rispettare la cultura e valorizzare i punti di forza».

Coscienti d’essere in una posizione di privilegio, con “Women in Zimbabwe” (da gennaio 2021) io ed Eleonora abbiamo deciso di raccontare qualcosa di più delle donne che vivono e lavorano in Zimbabwe a partire da cinque storie che riteniamo significative. Alla fine di ogni storia, cercheremo di spiegare cosa possiamo fare e proporre modi per farlo. Perché possiamo dare un senso nuovo al nostro privilegio.

una carota bellamente intagliata. sul Leonardo in cucina di Maurizio Raselli

Le curiosità, gli interessi, le intuizioni, ma anche l’umanità di un genio che è stato pur sempre figlio del suo tempo sono stati al centro della giornata di studio “Leonardo dall’Officina alla Cucina”, organizzata all’Università del Salento come appuntamento del ciclo di iniziative “Leonardo Da Vinci e la Puglia, tra passato e futuro” promosse per il cinquecentenario della morte dell’inventore, artista e scienziato italiano. L’iniziativa è stata curata dai professori Giulio Avanzini e Paolo Bernardini, del comitato scientifico delle celebrazioni che hanno visto lavorare assieme l’Accademia Pugliese delle Scienze, l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, il Politecnico di Bari, l’Università del Salento, l’Università della Basilicata, l’INFN – Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il Museo Leonardo da Vinci di Galatone (Lecce), Sitael SpA e l’Autorità Portuale di Bari. Il 7 giugno 2019, nella sala conferenze del Rettorato, si è parlato di idraulica, macchine, osservazione dell’infinitamente piccolo e, appunto, di cucina, una delle passioni meno note di Leonardo, sulla quale si è soffermato Maurizio Raselli, “cuoco e piemontese, in quest’ordine”, come ama definirsi.

Maurizio, per parlare di Leonardo proviamo a partire da te. Il tuo ristorante, 3Rane a Lecce, lo racconti come l’approdo di un lungo peregrinare alla ricerca di te stesso. E il nome di questo approdo è ispirato alle esperienze culinarie del Genio. Perché?
Sarebbe bello, forse, raccontare di come possa essere stato illuminato dalla creatività di Leonardo, ma pure se così in qualche modo può esser stato, di certo il lato del Genio che più ci ha entusiasmato è stato quello strettamente terreno, più umano diciamo, meno idealizzato. Il fatto che la leggenda, sotto forma dell’irraggiungibile Codex Romanoff, racconti dell’esperienza di un giovane Da Vinci alle prese con le dinamiche che ben conosciamo alla taverna delle 3 Rane sul Ponte Vecchio a Firenze ci ha fatto sorridere, e forse sentire meno soli. Come dire, nel caso dovesse andarci male, beh potremmo sempre ripiegare sull’Arte (si riferisce, oltre che a se stesso, anche alla compagna Dodo, “partner concettuale” del progetto di ristorazione, ndr).

Leonardo è una delle tue fonti di ispirazione? Il limite tendente a infinito irraggiungibile ma necessario per darsi ogni giorno nuovi obiettivi?
A volte risulta difficile trovare l’origine di un’ispirazione. Alcuni piatti saltano fuori dalle mani come se fossero sempre esistiti, per altri invece il processo è più lungo e macchinoso. Certo quello su cui si può sempre contare è l’ispirazione concettuale, il filo rosso che dovrebbe legare ogni cosa che ruota intorno all’idea di ristorazione che ci si propone. In questo senso l’idea di Leonardo è stata fondamentale.
Dopo anni spesi nella ristorazione cosiddetta di lusso, il fine-dining tanto celebrato e oramai svuotato di ogni dignità, c’era qualcosa che non permetteva al mio meccanismo interiore di scorrere libero. Serviva un punto di rottura. Qui è dove si colloca il genio di Leonardo nel nostro sistema concettuale. A Lecce esisteva da sempre il cibo tradizionale, preparato con più o meno onestà, così come la ristorazione di alto livello. A noi è interessata l’idea di dare a tutti la possibilità di poter godere di un piatto cucinato con competenza a un prezzo trasversale. Così sono nate le 3 Rane, una trattoria gourmet, un piccolo rifugio per amanti del cibo e del vino lontano dall’apparire e dagli stereotipi. Solo piccoli produttori, zero grande distribuzione, vini naturali, contatto diretto e quotidiano con la materia, ambiente informale ma curato, alleggerito. La rottura che vede Leonardo protagonista nella storia del pensiero è stata, con le dovute proporzioni, ispirazione per il nostro concetto trainante di accessibilità.

Per il tuo intervento all’Università del Salento sei partito da un libro che hai raccontato esserti molto caro: “Note di cucina di Leonardo da Vinci”, di Jonathan e Shelagh Routh (edizioni Voland, 2005). Come l’hai scoperto e perché ti ha colpito così tanto?
Immagina una piccola casa, sviluppata in altezza, su tre piani minuscoli con il Mar Ligure che sbatte forte le onde quasi contro i vetri delle finestre. Siamo a Pegli, un minuscolo paesino appoggiato per sbaglio allo sdraiarsi di Genova, dove ho vissuto per anni. Immagina ogni centimetro di questa casa ricoperto di libri, e un pianoforte. Immagina una cucina piccolissima dove sempre qualche capolavoro era in procinto di nascere. Era la casa di Clara e Lello, iperattiva meraviglia lei, grandissimo cuoco lui, come solo un appassionato gourmet può essere. Non uno chef, sia chiaro. Un cuoco. I genitori della moglie di mio fratello, una casa che ho molto frequentato.
Un pomeriggio, tra le migliaia di titoli, ho visto il libriccino. Non ho smesso fino all’ultima riga. Leonardo da Vinci era un uomo. Non una divinità scesa dall’Olimpo, un’Idea astratta e inafferrabile. Passioni, e soprattutto errori. Il genio al servizio del quotidiano, le altitudini del pensiero piegate alle esigenze di tutti così come parti del mondo vero. E poi simpatico, reale. Questo cambio di prospettiva ha scardinato in me, come mille altre volte è successo, un dogma pre-esistente. L’infinitamente grande è anche infinitamente piccolo, come in alto così in basso, come più tardi ho appreso dalla filosofia ermetica. Quella è stata la scintilla. Ci sono voluti più di 10 anni, ma ora cerco di ricordarmelo ogni giorno.

Nella tua relazione era evidente una grande emozione, assieme a un sincero schermirti per essere tra tanti accademici che, al contrario di te, erano in quel momento nel “loro” ambiente. D’altra parte definisci le tue 3Rane come un “ristoro” che propone “cucina artigiana di ricerca”. Insomma, qualche punto di contatto con il mondo dell’università è evidente. Come è arrivata la proposta a intervenire del professor Giulio Avanzini? Cosa ti ha entusiasmato di più dell’idea?
Era difficile non farsi coinvolgere dall’entusiasmo del professor Avanzini. Lui ha dato davvero molto per la riuscita delle giornate leonardesche. Abbiamo un’amica in comune che ha fatto da filo conduttore attraverso le nostre passioni. Oltre la cucina e la mia famiglia, non necessariamente in quest’ordine, ho sempre amato leggere. Si può dire che io sia un piccolo lettore compulsivo, leggo di tutto, da sempre, e appena posso. Mi capita spesso di leggere più libri in un giorno solo, iniziati e finiti, a patto di averne il tempo.
Ho un diploma classico e una laurea in Scienze della Formazione, ma cerchiamo di capirci: sono sempre un cuoco, mediocre per giunta, non un accademico. La proposta di Giulio mi ha lusingato e certo anche un poco preoccupato. Sono avvezzo a parlare in pubblico, nei miei viaggi ho spesso affrontato grandi situazioni sociali in cui mi si chiedeva di intrattenere, anche in inglese, diverse persone. Ma l’argomento era sempre la cucina, la mia cucina. Più comfort di così… invece l’idea di affrontare un tema con un così alto profilo mi ha imbarazzato. Confesso di aver vissuto il mio intervento piuttosto male. Mi sono sentito impacciato e fuori luogo. Certo finché il calore dei professori coinvolti non mi ha sostenuto. Di questo conservo un meraviglioso ricordo, e un grande senso di supporto. Del resto aiutare le menti a evolvere credo sia uno dei traguardi dell’Università.

Tra i piatti consigliati della tua cucina leggo “Ravioli del plin ripieni di fegatini di pollo, sedano rapa in crema e bollito, battuto di podolica pugliese”. Ma Leonardo non era vegetariano? Scusami la battuta, mi interessa parlare del tuo approccio alle materie prime.
Beh, se l’alternativa fossero le folaghe molto frollate o i testicoli di montone al latte credo che considererei l’alternativa vegetariana anch’io… o forse almeno per la colazione, venerando da piemontese ogni singola vena di grasso della carne ben marezzata! A parte le battute, si discute ancora sull’etica alimentare di Leonardo. Non credo fosse completamente vegetariano, almeno non nella concezione moderna del termine dove il Principio viene sempre più spesso posposto rispetto alla moda. Certo amava il bello e il buono, in ogni loro forma, dunque credo non amasse il cruento attimo proprio della macellazione ma era sempre un uomo del XV secolo. Il sangue era piuttosto comune, certo più del tofu.
L’ingrediente esige rispetto, competenza e tecnica, oltre a un’immensa dose di amore.Conosco macellai che amano in un modo viscerale le bestie che poi diventano il medium del loro lavoro. Persone spinte da un’etica integerrima, che offrono più amore agli animali che sanno poi se ne andranno, perché questo è quello che sono, di quanto non facciano vegetariani di ora che magari non mangiano il pesce ma ostentano cinture di pelle di vitellino senza nemmeno soffermarsi sul significato delle parole. Dignità e coerenza sono sempre più importanti, nella scelta dell’ingrediente, del piatto e nella vita in generale.
Io conosco personalmente tutte le persone che aiutano la natura a produrre ciò di cui mi servo per cucinare. Conosco chi spreme le olive per il mio olio, chi pigia l’uva per i vini che amo, chi zappa la terra per le verdure che compro e chi macella gli animali che cucino e mangio. L’ingrediente principale è l’etica del cuoco.

Le recensioni sulla tua cucina e il tuo ristorante dicono di una capacità di tenere assieme gli opposti – lato cucina – e di una grande gentilezza e ospitalità – lato accoglienza. Come sei arrivato a questa formula? A guidare ogni passo sembra essere essenzialmente la tua personalità.
Anthony Bourdain scriveva che le cucine tendono ad assomigliare agli chef che le guidano. Credo sia una grande verità estesa poi al ristorante tutto, se il cuoco è anche il gestore o il proprietario della struttura. È vero, le 3 rane mi assomigliano, moltissimo. C’è molto di imperfetto, ma non di lasciato al caso. L’idea della perfezione occidentale è un concetto limitante. Lo scintillio preconfezionato da discount della creatività. Il perfetto non include il suo opposto, il manchevole. L’imperfetto è necessario. Le crepe delle porcellane in Asia valgono più dei vasi stessi, perché li rendono vivi, con una storia. Da noi questo problema non si pone. Le 3 rane sono un bel posto, ma restano un’osteria, una trattoria. Dove l’oste o il trattore sono quelli che decidono, ma che anche mettono in gioco tutto il loro essere.
Io ho costruito il locale, fisicamente. Mi sono costruito da solo i banconi, ho messo io il pavimento, gli impianti, mi sono montato da solo la cucina che era stata lasciata sul marciapiede da uno zelante corriere. Ho disegnato il locale, la cucina. Ho abbattuto pareti e costruite di nuove. Ho dipinto, rasato, avvitato, tolto e messo quasi tutto quello che si vede. Ho sanguinato, fisicamente, ho pianto in alcuni momenti e riso in altri. La mia fidanzata Dodo stava aspettando il nostro bimbo, nato a fine dicembre del 2017 mentre io costruivo il locale. Ci ho messo 5 mesi. Un bambino è nato a dicembre, Martino. L’altro nel marzo successivo, le 3Rane.
Credo che questo abbia influito molto nel creare l’atmosfera di reale identità che ora si respira tra inostri 6 tavolini. Io mi sentirei di consigliarlo a chi dovesse essere così pazzo da ascoltarmi. Costruite il vostro locale con il sangue e il sudore, ogni goccia versata tornerà come nutrimento per la nascita della sua propria identità.

Leggendo la tua biografia sembra che tu abbia lavorato praticamente ovunque. Quali credi siano state le esperienze più importanti, e perché?
Ma no, quale ovunque! È vero, ho viaggiato. Ho sacrificato molto per imparare. Ma molti altri hanno fatto il mio stesso percorso. La vita di uno chef può sembrare folle a chi non è del mestiere. Orari impossibili, fatica sovrumana, calore insopportabile, anni e anni di apprendistato alle corti di chef spesso bipolari, aggressivi, egotici e violenti senza alcuna dignità riconosciuta se non rapportata alla capacità di sopportare tutto questo. Io ho cominciato molto presto: 16 anni, nei fine settimana, quando magari il sabato mattina sarei stato interrogato al Liceo nell’ora di Greco, la sera prima stavo lavando bicchieri alle due di notte. La cosa strana è che non lo facevo per necessità. La mia famiglia ha sempre provveduto ai miei bisogni di ragazzo. A volte addirittura mentivo per andare a lavorare. Forse sono sempre stato cosciente del processo di costruzione della mia competenza. Sapevo di dover sacrificare.
Poi l’Europa, l’Inghilterra e la Scozia, le Maldive, l’India, la Russia, in Siberia… più di dieci anni di solitudine e ricerca di qualcosa. Ogni esperienza è stata propedeutica a quella successiva. Ora sono un cuoco, è vero, ma soprattutto sono un marito e un padre. Ringrazio ogni istante di solitudine e sacrificio se mi hanno permesso di guardare dormire il nostro bambino la notte, quando rientro.

Lecce è il tuo approdo e la tua base. L’amore è la tua guida in ogni scelta, in cucina come nella vita? Quali progetti hai per il futuro?
Il rapporto tra la mia compagna e me è basato su una reciproca comprensione, una grande complicità. Ci assomigliamo molto, anche se lei non lo ammetterebbe mai!Entrambi con radici solide, ma anche con rami aerei, per così dire. Lecce è il presente, il futuro verrà da sé. A me basta stare con loro, poi il mestiere è nelle mani come dicono i Maestri.
Se ho cucinato un risotto per Sua Maestà Luminosa il Re del Ladack, nel palazzo reale di Leh, al confine tra Himalaya e Cina, su un buco in terra dove avevo acceso un fuoco con le sterpaglie trovate in terra, a quasi 3500 metri di altitudine sotto una tempesta di pioggia dell’autunno del Karakorum, credo di poter, ripeto credo, cucinare qualcosa quasi ovunque. Per ora, però, il presente ha ancora molto da dare.

Consigliaci un menu leonardesco da provare, magari, proprio nel tuo ristorante.
Menù leonardesco? Riporto quello che Leonardo, allora maestro di cerimonia alla corte degli Sforza, propose a Ludovico il Moro in occasione di una festa tenutasi in onore di una nipote del Signore:
un involtino d’acciuga in cima a una rondella di rapa scolpita a mo’ di rana
un’altra acciuga, avvolta attorno a un broccolo
una carota, bellamente intagliata
un cuore di carciofo
due mezzi cetrioli su una foglia di lattuga
un petto di uccello
un uovo di pavoncella
un testicolo di pecora freddo alla panna
una zampa di rana su una foglia di tarassaco
uno stinco di pecora cotto sull’osso
…e io, piccolo cuciniere ignorante, che mi ostino a fare i ravioli!

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino” (settembre/ottobre 2019)
la foto di Maurizio Raselli è di Sonia Gioia (per gentile concessione)

segni particolari: discalculico

Una bella storia di tenacia, di fiducia in se stessi, di passione per lo studio. Una storia divenuta “virale” oltre ogni aspettativa: l’abbiamo costruita assieme a Matteo Notarnicola, comunicando come all’Università del Salento un talentuoso studente discalculico sia riuscito a laurearsi in Matematica grazie all’aiuto di servizi dedicati e soprattutto alla propria energia e capacità di mettersi alla prova.

Matteo ha 25 anni, è originario di Veglie (Lecce) e il 25 ottobre scorso è riuscito a raggiungere il suo primo traguardo accademico dopo un inizio non proprio semplice. L’immatricolazione nel 2014, e nel secondo semestre il primo stop: nonostante nel percorso delle scuole superiori Matteo non avesse incontrato particolari difficoltà, all’Università ogni prova parziale scritta sostenuta va male e non riesce a sostenere alcuna prova orale. È qui che entra in scena Eliana Francot, docente di Geometria e Delegata del Rettore alla Disabilità, con una particolare competenza in tema di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). In aula Francot parla ai suoi allievi di questi disturbi, di cosa sono, di come si manifestano e del fatto che dal 2010 esiste una legge, ancora poco conosciuta, che tutela i diritti degli studenti che li presentano. Un campanello suona nella mente di Matteo, ed eccolo rivolgersi al “Servizio di Consulenza – Sportello BES/DSA”, attivo presso il Dipartimento di Storia Società e Studi sull’Uomo. Qui avvia l’iter diagnostico, e nel luglio 2015 il responso: “Disturbi misti delle capacità scolastiche”.

Secondo la diagnosi, Matteo possiede elevate abilità di ragionamento, ma “la decodifica degli stimoli verbali scritti non è automatizzata e la loro elaborazione risulta particolarmente laboriosa e lenta”: in pratica Matteo legge molto più lentamente dei suoi coetanei. Riguardo la capacità di scrittura, viene evidenziato che “in condizioni di compiti simultanei, come il prendere appunti o comporre un testo scritto, compare disortografia e lentezza esecutiva”. E ancora, sulle abilità di calcolo: “La prestazione di Matteo non è sufficiente riguardo il parametro rapidità del calcolo a mente” e “nelle prove che prevedono risposte a scelta multipla Matteo, potendo confrontare il risultato da lui ottenuto, riesce a individuare e correggere l’eventuale errore commesso. In assenza di scelta multipla Matteo mostra molta incertezza sui calcoli e malgrado imposti correttamente il procedimento, sbaglia 5 problemi su 10”.

Matteo non si scoraggia, anzi: ha finalmente capito il motivo per cui lo studio della matematica non va bene come vorrebbe. Ricomincia tutto da capo e, grazie al supporto dell’Ufficio Integrazione, comincia a utilizzare “strumenti compensativi” appositamente concordati per svolgere le prove scritte, in modo da “alleggerire” la fatica dello scrivere e del fare i conti a mente; usufruisce inoltre di altre opportunità dedicate, come quella di poter non rispettare i tempi di consegna delle prove. E così Matteo comincia a “volare”.

Questa storia a lieto fine, assieme alla voglia di Matteo d’esser d’aiuto ad altri studenti dislessici, l’abbiamo raccontata “fuori” dall’Università, col risultato di decine di articoli su testate locali e nazionali generaliste e specializzate, servizi televisivi e tanti post sui social.
«La professoressa Francot e la dottoressa Paola Martino mi avevano proposto di raccontare il mio percorso, con lo scopo sia di incoraggiare studenti universitari e delle scuole superiori a scommettere su se stessi», racconta Matteo, «sia di provare che è possibile per un ragazzo con disturbi dell’apprendimento riuscire a raggiungere – a patto di mettesi in gioco e lavorare sodo – un traguardo come la laurea. Non avevo alcun desiderio o ambizione a mettermi in mostra, né tantomeno la pretesa di avere un plauso particolare, ma solo la voglia di portare alla luce come un piccolo esempio di fatica e passione, accettazione di sé e voglia di superarsi, lavoro e coraggio possano renderci capaci di cose “belle”».

E ci sei riuscito Matteo, a giudicare dall’attenzione ricevuta. Come ti spieghi tanto riscontro?
«Non lo so, non mi aspettavo una tale eco. Forse sembra quasi… folle che un discalculico voglia (e riesca) a laurearsi proprio in matematica, considerata dalla maggior parte della gente una sorta di “mostro incomprensibile”. Forse si tratta di quel pizzico di follia che è capace di rapire l’attenzione di tanti. Un altro aspetto chiave è probabilmente che si è trattato della conferma che il duro lavoro ripaga: soprattutto oggi si desidera e si ha bisogno di sperare che qualsiasi investimento (di tempo, talenti, capacità…) porti a un risultato soddisfacente. Infine, un altro motivo di tanto “successo” probabilmente sta nella genuinità di una storia che racconta il realizzarsi di un sogno attraverso l’impegno, la costanza, la caparbietà e la continua ricerca di andare oltre i propri limiti».

Sui social network anche qualche commento un po’ “cattivo”. Ti è dispiaciuto?
«Non più di tanto: ciascuno commenta secondo quanto crede giusto e vero, è inevitabile. Le persone che mi conoscono e mi sono state accanto in questi anni di studio sanno come stanno davvero le cose, i miei amici mi supportano e mi stimano, i miei docenti non mi hanno trattato in modo differente rispetto ai miei colleghi e questo è ciò che conta per me, il resto è superfluo. Mi dispiace solo che abbiano criticato tanto i miei docenti per aver applicato le regole e avermi dato ciò che meritavo, nulla di più, nulla di meno (Matteo si è laureato con 109/110, ndr): sono docenti esemplari e tutto quello che ho imparato è in parte grazie al loro lavoro e alla loro disponibilità».

Ora sei a Roma per il percorso specialistico, quali sono i tuoi progetti a lungo termine?
«Il progetto migliore che potrei avere (e che effettivamente sto perseguendo) è quello di non smettere mai di imparare, di avere la consapevolezza che ho tanto da apprendere e che devo lavorare sodo per diventare un “bravo matematico”. Vorrei poter proseguire gli studi fino al dottorato e poi… chissà, magari fare della mia passione il mio lavoro».

Nell’Università del Salento la presenza degli studenti dislessici dichiarati tali è in aumento: siamo passati dall’iscrizione di 6 studenti dislessici nell’Anno Accademico 2015/16 ai 25 dell’Anno Accademico 2017/18. «È una realtà che non può essere trascurata», sottolinea la professoressa Francot, «e a cui l’esempio di Matteo ha tanto da insegnare. La legge 170 del 2010 parla di interventi specifici che la scuola deve mettere in atto per individuare precocemente i casi sospetti di dislessia e/o discalculia. La prima può essere diagnosticata già alla fine del secondo anno della scuola primaria, mentre la seconda alla fine del terzo anno. La valutazione diagnostica può essere fatta esclusivamente da specialisti quali psicologi e/o neuropsichiatri infantili e non dagli insegnanti che, stando a quanto previsto dalla normativa, hanno invece il compito di segnalare alla famiglia eventuali difficoltà manifestate dall’alunno e non superate neanche a seguito di attività didattiche di recupero messe in atto ad hoc. Con una diagnosi precoce e con l’adeguato supporto specializzato, uno studente può imparare a utilizzare gli strumenti compensativi e le strategie di studio più adatte al suo specifico disturbo e procedere così nel percorso di studi alla pari dei suoi coetanei. Diversamente, con il passaggio da un grado di scuola al successivo e quindi con l’aumentare delle richieste, in termini di impegno di studio, il rischio di fallimento scolastico, con tutto quello che ciò comporta a livello psicologico, diventa estremamente più alto», avverte la docente, «L’esempio di Matteo ci dimostra come questa eventualità non sia poi così remota. È infatti arrivato a iscriversi all’Università senza avere la piena consapevolezza del suo disturbo, il suo impegno nello studio gli aveva consentito di compensare abbastanza bene le difficoltà incontrate fino a quel momento, contribuendo così a ‘mascherare’ il disturbo stesso. Nel momento in cui si è trovato a dover fare i conti con le notevoli richieste di studio previste in un corso di laurea in Matematica, ecco che il suo impegno non è stato più sufficiente. La possibilità di veder tutelati i suoi diritti attraverso l’applicazione della legge e il supporto fattivo dell’Ufficio Integrazione hanno fatto sì che, dopo un primo momento di smarrimento, Matteo riprendesse in mano la sua vita e con coraggio e determinazione portasse a termine quanto aveva iniziato. Ora sa bene quali sono i suoi punti di debolezza», conclude Francot, «ma cosa ancora più importante sa quali sono i suoi punti di forza. È su questi ultimi che deve far leva per realizzare i suoi sogni».

questo articolo è stato originariamente realizzato per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

Fulvio Tornese L'ingegno collezione privata Loredana De Vitis

Fulvio Tornese o de “L’ingegno”: dialogo a proposito di una testa spaccata

Con una casa più grande e soprattutto più soldi avrei di certo comprato più quadri, ma probabilmente sarebbero stati meno importanti. Meno importanti per me. Non si dovrebbe collezionare quadri, solo cercare ciò in cui ci si può rispecchiare. A me è successo anche con “L’ingegno”, un olio su tavola infinitamente attraente: il colore ha delle crepe, il protagonista sembra venuto da un altro pianeta ma indossa una giacca che sceglierei se la vedessi in un negozio della Terra, nell’occhio aperto sembrano muoversi microscopici esseri, il paesaggio sullo sfondo è familiare e immaginifico, ferma un momento in un tempo sospeso tra passato presente e futuro. Ma è quella testa spaccata la cosa più significativa: sono certa d’aver voluto questo quadro perché ho capito che ciò che stavo vivendo in quel momento m’aveva… aperto la testa.

L’autore si chiama Fulvio Tornese, è un architetto, un pittore, un illustratore, un allestitore, un artista capace di fare grandi cose con piccoli mezzi e piccole cose con grandi mezzi. Lo vedo quasi ogni giorno per lavoro, abbiamo parlato praticamente di tutto, abbiamo molti punti di vista in comune e altrettanti diametralmente opposti. Ho scritto di lui, una volta, per presentare i suoi “libri d’artista”, volevo scriverne ancora ma come altro avrei potuto se non come potrei fare in un giorno qualunque, incontrandolo per lavoro?

  • Ciao, Fulvio.
  • Ciao Loredana.
  • Giura di dire la verità tutta la verità nient’altro che la verità.
  • Tuttatutta? […] Vabbè, lo giuro.
  • Scrivi “lo giuro”.
  • Di nuovo? […] Lo giuro. “È già il test?” (cit. Blade Runner, l’interrogatorio a Leon).
  • Sì, è già il test.

Fulvio Tornese ha quasi sessant’anni ma gliene dareste molti molti meno, indossa cravatte nere sui jeans e scarpe comode che gli rendono più agevole camminare, per le riunioni di lavoro s’infila spesso una giacca scura, si distrae se gli viene in mente qualcosa che vorrebbe dipingere. E allora apre un quadernino, prende una matita o un pennarello a punta fine, da un paio d’anni a questa parte capita che accenda l’iPad. Poi torna all’architettura.

  • Hai studiato architettura.
  • Sì.
  • Com’era a Firenze?
  • Perfetto.
  • Hai iniziato a dipingere prima ancora.
  • Ho studiato al Liceo Artistico e dipingo da quando avevo 15 anni.
  • Perché? Come è accaduto?
  • In realtà devo aver cominciato prima, credo di avere ancora a casa dei miei qualcosina fatta intorno ai 13 anni. Credo dipendesse dalla voglia di raccontare storie, storie epiche, fantastiche. Credo.

Ne ha raccontate parecchie dipingendo, ha costruito personaggi d’ogni foggia, negli anni sono cambiati e da qualche tempo gli vedo dipingere anche alcune donne. Molti uomini popolano i suoi paesaggi, parecchi in passato sono stati giganti, poi sono arrivati poeti equilibristi danzatori sognatori. I miei preferiti sono i guerrieri.

  • Com’è stato tornare a Lecce?
  • Avventuroso, avevamo un vecchio camion da cantiere, che un mio amico mi aveva prestato, lo abbiamo riempito all’inverosimile, coperto con un telone, quando siamo arrivati eravamo contenti di avercela fatta.
  • Com’è vivere a Lecce?
  • Si vive bene.
  • Com’è lavorare a Lecce?
  • Si lavora bene: piccola città, distanze umane. Riesci a fare un sacco di cose, in una giornata di lavoro.
  • Com’è dipingere a Lecce?
  • Perfetto.
  • Cos’è la perfezione?
  • Una cosa ben fatta.

Fulvio ne ha fatte diverse, alcune delle quali in giro per l’Europa, l’Asia e il Medio Oriente. Non è diplomatico, non è politicamente corretto, ma nemmeno dice le cose come farei io tirandoti un pugno in faccia.

  • Il bello di viaggiare (per l’arte).
  • Ti riferisci alle mostre in giro per il mondo? È bello e interessante certo, ma non mi fa impazzire.
  • E cosa ti fa impazzire, invece?
  • Nel senso che mi piace da morire? Nella mia personale classifica una le batte tutte: un piatto di spaghetti a ottobre in un localino sul mare, con qualcuno che amo.
  • Il bello di restare (per quello che ti pare).
  • È che puoi avere tempo per finire quello che stai facendo.
  • E che cosa stai facendo adesso?
  • Dipingo carte.

Fulvio Tornese dipinge continuamente. Tutto è pittura: quello che legge che ascolta che dice che progetta che descrive persino che mangia che cucina assume inesorabilmente l’aspetto d’un dipinto. Basta osservare e quelle origini le puoi rintracciare.

  • Il rapporto tra architettura e arte nella tua vita.
  • Se ti riferisci al fare, ti potrei rispondere che sono entrambe cose che faccio e con le quali ho la dimestichezza del mestierante.
  • Ok, potresti rispondermi così. E in che altro modo potresti?
  • Potrei parlarti di due fasi, due momenti della mia vita… hai una quarantina d’anni a disposizione?
  • Non ne sono sicura, quindi passiamo ad altro. Descrivi che rapporto pensi ci sia tra architettura e arte, in generale.
  • Nel fare architettura hai delle regole, quasi dei protocolli, che scandiscono tutto il processo creativo. Dall’idea iniziale fino alla realizzazione finale, ogni passaggio è codificato e la corretta esecuzione di ognuno di questi è garanzia di giusta riuscita del passo successivo. Per l’arte è diverso, almeno per la pittura. Puoi intervenire e correggere e adattare fino a che non ti liberi del quadro. Talvolta ci sono opere con date di esecuzione di due, tre anni. Però questo non significa che fare architettura sia limitante per la creatività. Anzi, essendo una forma complessa del fare, pone sfide talvolta più affascinanti, specie di trappole davanti alle quali un bravo architetto non si tira mai indietro. I risultati magari sono altra cosa.
  • Ti liberi di un quadro come di un demone? O di chi o cos’altro? Un parassita? Un ospite sgradito?
  • Una cosa è realizzare un lavoro, altra è il suo possesso materiale, può tranquillamente goderne qualcun altro.

Anche se è un po’ diverso per la scrittura, capisco il sentimento.

  • Progetti per dipingere?
  • Il mio fare pittura si è modificato nel corso del tempo e a causa del tempo a disposizione. Dalla fase di trance/smarrimento davanti alla tela (ero quasi un bambino) sono approdato al lavoro per fasi. Visualizzo, prendo appunti, schizzo su block notes o su Ipad, metto da parte, recupero, collaziono il tutto in testa e poi comincio il lavoro finale. Che poi come ho detto prima non finisce mai.
  • Dipingi per progettare?
  • Avendo cominciato con soggetti urbani, talvolta all’inizio mi è venuta la tentazione di fare architettura partendo dalle sghembe costruzioni che dipingevo. Fare piante prospetti e sezioni di cose che apparentemente non potevano stare in piedi, il tutto senza il supporto del computer… certi mal di testa. Ma erano virtuosismi, ho pensato. Poi qualche hanno fa a Pechino ho visto la sede della China Central Television di Rem Koolas, e mi sono divertito a immaginare come sarebbe una città fatta di linee verticali che se ne fregano della gravità e di linee orizzontali che si dissociano dalle regole prospettiche.
  • E l’hai dipinta.
  • Ci provo qualche volta.

Fulvio Tornese ci è anche riuscito, qualche volta. Puoi metterti davanti a certi quadri e lasciare che il disequilibrio ti faccia provare una qualche vertigine. Devi starci davanti, piuttosto vicino.

  • Cosa significa “allestimento”?
  • Sicuramente il momento in cui la progettazione diventa veramente “mettersi al servizio”. È una forma di progetto che però deve essere preceduta dalle scelte del curatore, alle quali tu dai sostanza fisica e spaziale.

Il più bell’allestimento che gli ho visto realizzare e che ho potuto vedere da vicino è stato per Randy Klein: ha dato il senso del movimento a decine di piccole sculture che quel senso ce l’avevano dentro.

  • Tre modi per scegliere il formato e tre per il supporto.
  • Formato e supporto sono scelte interconnesse strettamente: se voglio fare una cosa piccola scelgo quasi sempre il legno, se devo fare una cosa grande o grandissima scelgo la tela, se mi voglio rovinare la vita scelgo il legno e cerco di dargli una trama, se voglio perdere il sonno scelgo la tela e ne irrigidisco la superficie.
  • Tre modi per scegliere un titolo.
  • Ne esiste uno solo e lo scopri la mattina tra le 5.45 e le 6.15, prima stai ancora dormendo e dopo sei ormai già con un miliardo di cose sceme e inutili in testa.

I titoli dei quadri di Fulvio Tornese sono quasi storie a sé: Il signor Giovanni, Facilitazioni per campeggiatori, Legittima soddisfazione, L’opinione degli altri, Il lanciatore di nuvole, Vorrei che tu, Un amore inadatto. M’è venuta spesso la tentazione di scriverle, ma non è una cosa che farei con leggerezza.

  • Quanto conta la tecnica?
  • Come l’aria: te ne accorgi quando manca, eccome se te ne accorgi.
  • Esiste l’ispirazione?
  • Credo di sì.
  • Il senso delle [s]proporzioni.
  • Devi essere equilibrato per gestire la sproporzione e so che certe volte è meglio che non mi ci metto.
  • Il senso della serialità.
  • Per me è una scelta creativa, mi permette di lavorare sulle modifiche di uno stesso tema per essere più chiaro ed esplicito.

Delle ultime serie la mia preferita si chiama “catalogo di acconciature per giovani alberi”.

  • Tra “dentro” e “fuori”.
  • Scelgo il dentro.
  • Tra “pubblico” e “privato”.
  • Non esiste questa distinzione, esiste il diritto al privato per chiunque.

Sua moglie Carla Pinto è una direttrice artistica e una curatrice molto attiva e brillante, suo figlio Pietro è così importante per lui che ogni volta che lo nomina, fosse anche la centesima, lo chiama Pietro-mio-figlio.

  • Chi è Carla?
  • Mia moglie.
  • Ho letto che “continui a dipingere” “sostenuto” dalla sua “complicità”.
  • Infatti. Non credo ci sia una parola più adatta, che forse dovrebbe essere accompagnata alla parola “risata”.
  • Chi è Pietro?
  • Mio figlio.
  • Ho letto che è il tuo paziente selezionatore di musica.
  • Conosce i miei gusti e mi guida all’ascolto delle novità. Non solo di dischi, ma quando è possibile anche ai concerti. Chiarisco sempre che di pogare non se ne parla neanche.

Si prende molto sul serio e pochissimo sul serio, non alterna questi atteggiamenti ce li ha in contemporanea. Porta con una certa eleganza le sue contraddizioni di vivente pensante. Si capisce osservando il suo “misuratore del mondo”.

  • Il misuratore del mondo funziona?
  • Solo se è spinto da una forte convinzione interiore.
  • Quanto c’entra la politica?
  • Per me c’entra sempre, mi piace pensare che la facciamo tutti anche quando siamo convinti di subirla.

Michela la Lupa

[Avvertenza. Questo non è uno scritto sull’autismo. Questo è uno scritto su Michela. Michela Del Tinto.]

Michela si firmava Mollaian quando l’ho conosciuta, scura e riccia, oppure rossa e liscia, oppure bionda e mossa, ma sempre densa e intensa [come adesso], pittrice autodidatta, nata lupa, cresciuta lupa e lupa ritrovata. Avevo diciannove anni, coi soldi messi da parte con le ripetizioni di fisica [fisica, ho scritto fisica, intendevo fisica, sì] ho comprato due suoi quadri. A rate. Non erano accanto quando li ho visti, ma accanto li ho sempre tenuti: uno rosso e uno azzurro, in cornici grezze dipinte degli stessi colori e tenute insieme usando una sparapunti, trattati da tutti con sospetto per anni finché, finalmente, li ho appesi trionfanti al centro della scena quando ho potuto decidere in casa mia.

“Quando ci siamo conosciute avevo un rapporto molto stretto col colore, un rapporto in cui mi sono concessa il lusso di essere primitiva, anarchica, senza disciplina orari e istruzioni. A pelle ti sentivo libera e diretta, non cambiavi con le persone a seconda di chi c’era. Questo di te mi piaceva molto”.

Michela Del Tinto è una lupa e corre coi lupi, Clarissa Pinkola Estés ne avrebbe potuto raccontare, dipingeva e a volte lo fa ancora, vende tappeti orientali col marito lupo pure lui, e dà un nome che non ho mai sentito dare a nessun altro all’universo di suo figlio Teo: lo chiamano “autismo”, lei lo chiama Altrove. Un posto dov’è stata pure lei, racconta, un posto dove forse siamo stati/e in molti/e, dico io.

“Se non la guardi dal punto di vista che è tuo figlio è molto interessante, però è tuo figlio e sei nella merda”.

Teo era piccolo, io me lo ricordo.

“Teo spegneva l’interruttore e io ero sola. Sola. Ero sola e me la dovevo cavare da sola. C’è stato un lunghissimo periodo in cui non avevo mezzi per comunicare con lui, perché il suo autismo di allora non consentiva usuali connessioni. Ne ho cercate altre, ma non sono state sufficienti. E allora, visto che non potevo andare avanti, sono tornata indietro, alla mia parte animale. La Lupa”.

A Michela non piace l’autismo per come lo raccontano, e per come lo trattano le fa schifo. Michela s’è fatta lupa e un altro lupo ha imparato ad allevare provando ad accompagnarlo nell’Altrove, volendo che Teo fosse libero autonomo indipendente, con una dignità sua una dignità normale normalissima, in cui l’autismo è solo “una delle sue caratteristiche, quella neurobiologica”.

“Quando sento dire ‘ragazzi speciali con genitori speciali’ mi sento impazzire, mi sento soffocare. Che significa? Siamo tutti speciali, ognuno a modo suo. E gli autistici non sono più speciali degli altri e non sono tutti speciali allo stesso modo. È un’etichetta più invalidante dell’autismo stesso. Li vedi i ragazzi disabili che vanno a passeggio tutti assieme con gli ‘educatori’? Che pena. Li trattano da deficienti e li fanno guidare da gente deficiente davvero. No, mio figlio mai. Mai l’ho messo in condizioni di essere umiliato, e mai lo farò. Non ha senso farli interagire solo tra di loro, bisogna integrarli nella realtà quotidiana, dalla quale possono apprendere qualcosa. Isolandoli in un contesto protetto rischiano la decrescita, l’involuzione. A scuola, per esempio, i momenti della vera integrazione sono la merenda, l’educazione fisica, l’ora di religione. Bisogna creare una vera, duratura, rete d’amicizie. Non servono mezzi, manca spesso la voglia di sedersi e lavorare”.

Michela-la-Lupa aiuta Teo a far comunicare questo mondo e il suo Altrove, impiega energie straordinarie perché questa comunicazione sia il più possibile paritaria. Perché anche l’Altrove ha una sua dignità.

“Quindici anni di trincea. Sono un canale da cui quotidianamente mio figlio attinge informazioni vitali. Faccio tutto quello che è necessario perché sia autonomo e questo, mentre mi dà la possibilità di offrigli degli strumenti, me ne fa conoscere direttamente l’essenza. Provo spesso stupore, meraviglia, perché in questo viaggio ho modo di conoscere, osservare, studiare, sperimentare e creare continuamente”.

Michela ti guarda ti squadra ti penetra, non ti lascia modo di chiudere le imposte di dissimulare di rimanere sospesa di prendere tempo. O ci sei fino in fondo o ci sei fino in fondo, l’alternativa è scappare. Ma come fai a scappare davanti a quegli occhi quelle labbra quei seni, quel modo di muoversi di ridere di parlare, quella forza potenza energia che vengono fuori anche nel silenzio e nell’immobilità? Quei quadri a diciannove anni m’avevano smosso le viscere e ancora quando li guardo mi guardo dentro, mi ci fotografo davanti e scrivo “periodo rosso” o “periodo blu”.

“Mi frequento per conoscermi bene, vivo molto intensamente la mia vita sia in discesa che in salita. Credo nella legge dell’attrazione, bisogna prendere quello che fa bene. Adesso è molto facile, tutti vogliono bene a Teo, ma io ho il cuore in riserva e l’anima che non parte. Ci sono dei limiti che vengono superati troppo facilmente, e che invece devono essere rispettati, come quelli di tutti”.

Michela s’è fatta Lupa e ha recuperato l’istinto. Sull’istinto s’è basata e ha fatto quello che ha creduto capito voluto. Lo fa ancora, e nel seguire quell’istinto che le ha “salvato la vita” si incazza risponde spiega insiste. Lo fa anche quando sembra inutile assurdo improduttivo.

“Mi hanno detto che era autistico, io l’ho guardato e gli ho detto: noi ce la caveremo, ma ti farò il culo. Ho fatto così. Ho letto tutto, so cosa dice la scienza, ma devo la mia vita agli scrittori, non ai medici. Niente psicofarmaci per Teo, niente schifezze. Non parlo in generale, parlo della mia esperienza personale: non sono tutti uguali. Non esiste un’‘autistica persona’, ci sono ‘persone autistiche’. Devi conoscere bene tuo figlio, e per conoscere tuo figlio devi conoscere te stesso. A quattro anni volevano sedarlo, ma noi volevamo prima conoscerlo. Non devi delegare, devi essere in prima linea come genitore, usare la scienza nel modo più adatto al caso specifico. Ecco perché dico che devo la mia vita agli scrittori, non ai medici. Gli stimoli emotivi che m’hanno ispirato salvato guidato sono venuti dalla letteratura”.

L’autonomia di Teo.

“La sua autonomia è la mia priorità assoluta. E la vedo all’orizzonte, albeggia, cresce in proporzione alle risorse che pian piano scopre di avere, che acquisisce di giorno in giorno”.

No, non si preoccupa del dopo-di-noi.

“Come fai a occuparti del dopo-di-noi se non conosci cosa accade mentre-noi? Io non sono concentrata sul mondo, io sono concentrata su Teo”.

Non ho voluto leggere un granché sull’autismo, non prima d’aver scritto di Michela. Michela che una volta al telefono con Teo s’è fatta una risata: “I calzini sono nel tuo cassetto. Senti, ma che vuoi da me?”. Molta tenerezza ma nessuna indulgenza, molta comprensione ma nessuno sconto. Tutte le madri di uomini dovrebbero puntare all’autonomia.

“I prossimi saranno anni cruciali. Seguiremo lezioni di teatro. Basta vocine acide poco attraenti. Dizione, postura. E poi danza. Dev’essere un uomo attraente”.

Un programma che consiglierei a tutti gli uomini. Ciao, Michela. Al prossimo caffè, alla prossima cena. “Saluti a tutti. Autistici e non”.

la chiamo Francesca, si chiama Speranza

Neri i capelli neri gli occhi olivastra la pelle lento il parlare pesate le parole, la chiami Francesca ma si firma Speranza. Come a scuola, prima il cognome? No, le piace proprio “speranza”. Speranza Francesca è la sua firma, continua a firmarsi così oltre ogni obiezione. Ferme le mani acuto l’osservare quasi violento lo scattare. Necessario indulgere nella prima sensazione di lievità, così da poter provare con tutto lo spaesamento del caso quanto Francesca sia d’una bellezza abissale: le sue foto ritraggono l’aldilà della realtà. Nata nel ‘78 a Cisternino (Brindisi), ha studiato Architettura d’interni all’Istituto Europeo di Design a Roma e decorazione dell’Accademia di Belle Arti a Lecce, vive e insegna tra il Salento e Mantova. «Utilizza il digitale senza mai abbandonare la pellicola», racconta di sé in terza persona, «continuando a lavorare in camera oscura. Predilige i forti contrasti, sia nella scelta dei soggetti che nella tonalità cromatica della sue fotografia. Ama la sperimentazione, sia nell’acquisizione che nella stampa delle immagini, in alcuni suoi lavori recenti ha proposto installazioni realizzate con stampa d’affissione in grande formato, in cui la fotografia si relaziona con lo spazio e dialoga con l’ambiente». In “Domestic landscapes”, questo dialogo con l’ambiente racconta le donne, l’interiore conflitto dei ruoli, l’ironia che spesso suscita il tentativo di adeguarsi agli stereotipi della femminilità.

La fotografia è il “tuo” mezzo, anzi tu e la fotografia forse siete la stessa cosa. Ma quando hai detto a te stessa: “sono una fotografa”?
Sono curiosa e un po’ nomade, la fotografia si sposa bene con questo mio modo di essere. È sempre stata presente nella mia vita, a livello intimo, domestico. La memoria fotografica mi affascinava, le immagini aprivano nella mia mente sconfinate fantasie. Poi il momento del distacco, quando sono diventata unica responsabile di quello che accadeva sotto ai miei occhi. Ho iniziato a fotografare in viaggio, tra la gente, le cose della mia vita e le cose della vita degli altri. La fotografia è diventata una parte del mio essere, il mio linguaggio e parte del mio modo di comunicare. È fedele compagna e testimone delle storie della mio presente. È trovarmi in situazioni a volte drammatiche a volte inaspettate, e sentire la necessità di usare la macchina fotografica per congelare quel momento. È una passione forte che invade i miei sensi e che mi porta a tradurre in immagini il reale.

“Forza” e “fotografia”. Racconta che legame ci vedi.
Quando si decide di aprire il proprio archivio a qualcuno si sceglie di svelare una parte della propria identità. Questo è rischioso, può non essere inteso oppure criticato. La forza è quella parte del carattere che si deve coltivare per consolidare la propria identità, ciò che ti permette di esprimere con determinazione e senza filtri le costruzioni visive.

Donne e uomini: cosa accade nell’atto del fotografare?
Percepisco differenze in alcune relazioni, vedo sguardi diffidenti. Quando fotografo questa sensazione è più forte. In alcuni contesti la figura di una donna è “fuori luogo”, e lo sguardo degli altri diviene arma inibitoria da cui difendersi. Quando scegli di continuare a fotografare, magari in una situazione pericolosa, oppure drammatica, quell’essere “spudorata” è una trasgressione alle regole di comportamento.

Quali sono le tue fotografe di riferimento?
Difficile tracciare una genealogia esclusivamente al femminile. La fotografia italiana è stata il mio punto di partenza: Gardin, Migliori, Scianna, autori e artisti dallo stile semplice e puro. Poi la fotografia internazionale, quella delle donne: Diane Arbus, Margaret Bourke White, Sarah Moon, Nan Goldin. Poi ci sono le autrici di riferimento: Francesca Woodman, di cui amo la fotografia, lo stile, la scelta dei dettagli e la sensibilità fragile; Ellen Kooi, fotografa olandese che ho scoperto un po’ per caso, in una mostra a Parigi. Nelle sue fotografie ho scoperto un legame forte con il mio linguaggio.

Se dovessi dare un consiglio a te Francesca di qualche anno fa, quella degli “inizi”, quale sarebbe?
Con il tempo ho scoperto che un buon equilibrio e tanta determinazione ti porta a ottenere quello che desideri. Le direi di affermare se stessa senza timore, di essere testarda e di dare il giusto peso alle critiche degli altri. È fondamentale credere nelle proprie capacità e lavorare per ottenere i migliori risultati, ciò che ti circonda spesso ti mette in crisi, ma l’essere in crisi è l’inizio della rinascita.

Che mi dici del confronto con altri “ambienti” artistici, fuori della Puglia?
Non è cosa semplice, è un po’ ricominciare tutto dall’inizio. Ti espone alle critiche, può mettere in discussione il tuo modo di fare e di essere, ma è indispensabile per rafforzarsi e per far maturare il tuo lavoro.

A cosa stai lavorando adesso?
Negli ultimi due anni alcuni eventi hanno cambiato la mia vita. Vivo in Lombardia e mi trovo spesso in giro tra varie città dell’Italia settentrionale e dell’Europa. Il mio essere curiosa e viaggiatrice mi permette di trovarmi in luoghi e in situazioni nuove, a volte border-line. Cerco adesso, al Nord, elementi del territorio con caratteristiche geografiche e antropologiche che soddisfano il mio linguaggio. La serie “Landscapes” si è arricchita di nuovi elementi e di nuove forme espressive. Poi, oltre a continuare a fotografare e cercare nuovi spunti per la mia fotografia, mi concentro sulla post-produzione dell’archivio degli ultimi due anni, per tracciare un percorso omogeneo e coerente della mia ricerca. Continuo a utilizzare il digitale ma, negli ultimi tempi, sono ritornata alla fotografia analogica. Amo lavorare in camera oscura, mi piace la sperimentazione con la luce, l’interazione con i materiali, la sovrapposizione delle discipline, senza regole o cliché. Questo mi permette di portare avanti un percorso puramente estetico, legato al fascino dell’immagine e alla potenzialità del segno.

Ilaria Seclì diafana e feroce

T’appare diafana, sorriso largo di piccoli denti, risata acuta e lieve, ricci capelli tenuti assieme da mille mollette, sigarette frequenti. La leggi, poi, di ferocia attraversata. Ilaria Seclì, salentina nata a Ginevra, poeta di energia stra-ordinaria dentro voce e passi lievissimi, da anni errante tra il nord e il sud di un’Italia che le piace sempre meno, l’ho scoperta e amata per “Destino al mercato”, una poesia divenuta naturalmente uno dei manifesti di “io sono bellissima”.

Ilaria, il “grande pubblico” – così pare che si dica – ti ha conosciuta per aver scritto “Lo zoo dei proletari”. Una poesia incredibile in sé, figurarsi scritta a 19 anni. Ma ti rendi conto?
Lo zoo dei proletari è un grido, un’alternativa a un atto violento. Nasceva dalla rabbia, dalla volontà di abbattere argini e costrizioni che ammanettano la libertà individuale. Mi riferivo a certi schemi educativi che tendono a “recintare sperando di salvare”, che negano, impediscono, per evitare di. Un processo alle intenzioni di vivere. Pensavo al potere che un individuo esercita nei confronti di un altro individuo limitandone potentemente la libertà. Prima forma astratta di proprietà privata da ostacolare, denunciare, la più subdola, pervicace, pericolosa, i cui effetti sono molteplici e duraturi. Insomma, la storia di una diciannovenne di un’estrema e arretrata provincia che a 11 anni leggeva Leopardi, le Confessioni di Rousseau e I fiori del male di Baudelaire. Ricordo bene che lo scrissi in meno di un’ora, un pomeriggio di primavera. Rileggendolo, penso alla forza, alla ferocia, al coraggio.

Quella è stata la tua prima poesia?
No, la prima poesia credo di averla scritta a 9, 10 anni. Ero sola in casa, fui “presa”. Uno stato di percezione alterata, caotica pienezza. Caos armonico. E l’urgenza di trasferire su carta quel vortice, quell’estasi, quell’ubriacatura, quelle visioni che mi attraversavano e che mi portavano, ricordo, nel “bosco”, una parola che evocava ciò che avrei amato e che avrei visto, per la prima volta, molti anni dopo. Sentivo che c’era altro, altrove, che nessuno aveva educato alla familiarità con un regno invisibile in cui i sensi si affinano, si espandono per esplorare modi, mondi, sentieri misteriosi, sconosciuti. Tutto ciò che nessuno si affrettava a farti sapere, a trasmetterti, a insegnarti. Ciò che è nel prodigio non passa dalla pedagogia, dall’educazione. E ciò che deve compiersi trova sempre il modo, ti trova se ti deve trovare.

La più classica delle domande, te l’avranno fatta mille volte. Rispondi anche questa volta, ma in tre parole: cos’è la poesia?
Una visitazione. La Poesia è l’Inizio, un eterno primo sguardo. Il miracoloso. Più di tre parole, ho sforato. In verità a questa domanda bisognerebbe rispondere col silenzio.

E che cosa ti dà?
Ogni risposta sarebbe riduttiva, come per la domanda cosa ti dà il respiro, aprire gli occhi, stare al mondo?

C’è forza nella poesia?
Sì, una forza di grazia. Ho posto la mia fiducia nel vivo che non muore.

C’è differenza secondo te, nel fare poesia (o nel creare, in generale), fra donne e uomini?
Non mi interessa il genere di chi scrive ma l’onestà con cui si fa guidare nella scrittura, la ricerca e lo sforzo di perfezionamento, l’assenza di smania di arrivare da qualche parte. Conta l’atteggiamento, che dovrebbe essere di umiltà, come di chi ha la facoltà di ricreare il mondo nello spazio bianco consapevole di essere uno strumento, un medium.

Quali sono i tuoi riferimenti di poetesse e/o scrittrici? Perché?
Amelia Rosselli per la scomposta viscerale grazia, eleganza, per la disperazione fatta bouquet di margherite e chiodi, e offerta. Ecco, Alejandra Pizarnik, figlia dell’insonnia: “Sono stata tutta un’offerta, un puro vagare di lupa nel bosco”. Sua voce di selva e silenzio perfetto. Silvia Molesini, sguardo che vortica spietato sull’ordine imperfetto delle cose. Sonda ruvida tra le fughe del com’è, del cos’è stato e del cosa avevamo pre-visto, canto barbaro di grazie perdute e assenze. E altre a cui penserò tra un secondo. Ah, ecco, Antonia Pozzi, denso dialogo con la natura e il mistero che indica, armonico conversare tra l’assente e il maestoso. Catherine Pozzi la cui conoscenza devo a un libro di Marco Dotti. Catherine, il buio d’oro.

Dovessi dare un consiglio a te Ilaria di qualche anno fa, quella degli “inizi”, quale sarebbe?
A me piccola direi di non prestare orecchio a ciò che sembra più facile, che crea apparenti agi, comodità, di resistere al processo di conformazione che pratica strade meno impervie, di continuare ad avere cura di quello sguardo e di ascoltare ciò che tace e che per altre vie si rivela. Mi direi di non cedere all’ambizione che fa spesso delle cose di poesia palchi da bagaglino. Consigli inutili perché non mi sono tradita, almeno nella poesia.

Il confronto con altri “ambienti” artistici, fuori della Puglia: cosa hai notato?
In qualche caso una maggiore attitudine a fare rete, collaborare. E poi una maggiore valorizzazione anche economica del lavoro artistico.

Hai tre raccolte poetiche nel cassetto. Pensi troverai un modo di tirarle fuori?
Ah, gli inediti… tra cui la creatura più amata e riuscita, “L’impero che si tace”, prose poetico-geografiche scritte viaggiando. Non ho fretta, evidentemente. Aspetto l’occasione/proposta migliore, magari quella che si sottrae al costume imperante di chiedere soldi per la pubblicazione. È un’impresa, lo so, ma non è impossibile. Bisognerebbe trovare modi per entrare nel “sistema”, dice qualcuno, crearsi varchi, anelli, ponti, farsi strada. Ecco, non ne ho né il tempo né la voglia né l’attitudine. Credo ancora nei rapporti umani guidati dalla schiettezza, dalla gratuità, accadono casualmente per rivelarsi poi necessari.

Ilaria Seclì ha pubblicato “D’indolenti dipendenze” (Besa 2005), “Chiuderanno gli occhi” (con Antonio Diavoli, Quaderni di Cantarena, Genova, 2007), “Del pesce e dell’acquario” (LietoColle 2009). Nel 2007, con l’attore e regista Adamo Toma, ha inscenato lo spettacolo teatrale tratto dalla raccolta inedita “La sposa nera”. Sillogi in antologie: “Poeti Circus, i nuovi poeti intorno ai trent’anni” (a cura di Giuseppe Goffredo, Poiesis edizioni 2006), “Il Segreto delle fragole” (a cura di Giampiero Neri e Fabiano Alborghetti, LietoColle 2006), “Sud del Sud dei Santi” (a cura di Michelangelo Zizzi, LietoColle 2013).

Ilaria Guidantoni tunisina italiana [e anche il contrario]

Un’amica di un’amica cercava una giornalista che presentasse “un libro sulla Tunisia in cui c’è attenzione per le donne”. È così che ho conosciuto Ilaria Guidantoni. L’ho vista due volte e ci siamo scritte alcune decine di e-mail, ho letto tre dei suoi libri e lei uno dei miei. Ho chiesto di lei, sbircio le sue foto. Il fatto che la trovi sempre ben vestita e pettinata, che porti borse e occhiali firmati, che indossi pellicce e che abbia un piglio sempre piuttosto formale normalmente mi farebbe passare ogni desiderio di approfondimento. Invece Ilaria mi incuriosisce terribilmente: trovo irresistibile il suo innamoramento per la Tunisia. La rende trasparente.

Insomma chi è Ilaria? Dimentica il contesto, qualunque contesto. Definisci chi sei.
«Una donna del Mediterraneo, una specie di apolide. Non lo dico per vezzo: raccontando del Mediterraneo trovo, adesso, il mio riconoscimento maggiore. Culturale ma anche di orizzonte, visione dell’esistenza, complesso di valori morali e religiosi. Vi è una confluenza di anime diverse che è anche nella mia formazione. Amo la sponda a sud del Mediterraneo».

Non riesco a definire “reportage” quello che scrivi.
«No, è una scrittura un po’ di confine. So che è un rischio: assieme alla ricchezza delle differenze che si mescolano, c’è la possibilità del limbo. C’è però una traccia chiara, e cioè il tema dell’“incontro con l’Altro”, presente fin dal primo saggio sulla sicurezza stradale. Certo nell’ultimo – “Chiacchiere, datteri e the. Tunisi, viaggio in una società che cambia” – la scrittura si fa più chiara. È un reportage “caldo”, tutto in prima persona e legato anche a pensieri ed emozioni personali».

Racconti della Tunisia e sei – come si dice in gergo – sempre sulla notizia. Eppure io continuo a trovare più rilevante, più evidente, il dato “personale”. È questo che mi pare definisca il tuo attaccamento a questo Paese.
«Me ne sono innamorata attraverso un incontro personale. Ecco, la vita privata a volte ci porta ad aprire delle porte, poi non è detto che si rimanga nella stessa casa o si esca dalla stessa porta. Io nel frattempo mi sono legata a questo mondo: una vicenda personale mi ha aperto le porte su una vicenda collettiva. Frequentavo la casa di una persona che si occupava (e si occupa) di diritti umani sotto la dittatura: questo ha spalancato un mondo insospettabile. È stato viverlo da dentro, con le preoccupazioni di chi vive una vicenda personale, che probabilmente mi ha portato a scriverne col cuore».

È una storia che continua, insomma, anche se in modo diverso.
«Sai cosa mi succede, adesso? Che frequento molti italiani di Tunisi, italiani nati a Tunisi o che vi vivono in parte o che hanno sposato tunisini. E poi studio arabo e tunisino. Da due anni, anche se con scarsi risultati (sorride, ndr). Il problema è che è molto difficile imparare a parlarlo, vorrei intanto imparare a capirlo. È il passo che voglio arrivare a fare entro un anno. Adesso, scherzando, dico che potrei giocare a nomicosecittà. Conosco, insomma, molte parole. Però l’ultima volta a Tunisi sono andata in un quartiere popolare, ho visto un’insegna, ho riconosciuto che era un ristorante e sono riuscita a leggere il menu in arabo. Mi sono sentita dentro il Paese. Adesso in Italia mi fanno i complimenti per il mio italiano, è buffissimo, mentre a Tunisi la gente mi parla in arabo in qualunque modo io sia vestita. Mi emoziona».

Sei innamorata. Raccontamene i sintomi.
«La malinconia che ho provato le volte che ho lasciato quell’aeroporto. E poi, adesso, se penso al “ritorno” non so di cosa parlo: dell’Italia? della Tunisia? Non so più dov’è questo “ritorno”. Mi era già successo in Italia. Evidentemente un luogo solo non mi basta. Sono in egual misura fiorentina, milanese e romana, ma a parte il legame con la famiglia e la lingua… non riesco nemmeno più a dire d’essere italiana. Altra cosa: a Tunisi riesco a prendere tempo per me. Ecco, forse mi sono innamorata di quel posto perché quando sono lì riesco a non finalizzare il tempo in modo così stringente come faccio altrove. Vivo con un senso di pienezza, quando invece normalmente ho tre telefoni sempre accesi e l’orologio sempre sott’occhio. In Tunisia ho scomposto i miei schemi, proprio come accade quando ci si innamora».

A volte è come se tu dicessi “guardatemi, sono io, sono qui!”.
«Ho molta paura che se… non sto sulla notizia… si dimentichino di me. Ho paura che lontana dai loro occhi possa diventare lontana dal loro cuore. È una forma di corteggiamento, anche. Lo so».

Se ho capito qualcosa di te, ti sei portata in casa un po’ della Tunisia. E parlo di sensazioni.
«Una teiera, un tappeto berbero, gioielli, una sciarpa, una zuppiera, delle coppette dipinte a mano che uso spesso. Ci penso per la prima volta: sono tutti regali. Io non ho mai comprato oggetti per me, per me compro cose che consumo. Il profumo che si utilizza là per i cuscini, il the, vino e aceto balsamico di datteri. Sì, compro cose che consumo, non mummifico la Tunisia».

Ho idea che tu stia provando a spostare parte del tuo lavoro in Tunisia.
«Vorrei cercare di rappresentare, in qualche modo, un anello tra i due Paesi. Turismo, agroalimentare, piccola e media impresa, lavoro femminile. Secondo me ci sono tutti i presupposti per costruire assieme».

[Ilaria Guidantoni ha scritto: “Vite sicure” (Edizioni della Sera, 2010); “Prima che sia buio” (Colosseo Grafica Editoriale, 2010); “I giorni del gelsomino” (P&I Edizioni, 2011); “Tunisi, taxi di sola andata” (NoReply editore, 2012), “Chiacchiere, datteri e thé. Tunisi, viaggio in una società che cambia” (Albeggi Edizioni, 2013)].

<div class="clearfix"></div>