Questa è la presentazione scritta per “Além do além”, mostra personale di Monica Lisi in esposizione a Torchiarolo (Brindisi) dal 22 dicembre 2010 al 9 gennaio 2011 nelle sale del Centro Frizzoli (piazza Municipio).
Monica Lisi ha spesso le mani sporche di colore. Cosicché non puoi fare a meno di domandarti cosa abbia dipinto questa volta in tua assenza. Non dico che un’artista (vi prego di notare l’apostrofo) debba dipingere in presenza del suo pubblico, no. Dico solo che, se ami un’artista, vorresti saperne di più. E invece, poiché Monica è una di quelle persone che ha con le tecnologie della comunicazione un rapporto difficile, è difficile che risponda al telefono. È difficile che risponda alle mail, è difficile che si faccia trovare, è difficile che aggiorni il suo blog, è difficile che comunichi cosa accade. Cosicché non può meravigliarti che, finalmente in contatto con lei (quindi di persona), Monica ti sorprenda perché nel frattempo ha rimescolato le carte della sua arte e molto probabilmente anche quelle della sua vita. Ecco perché, quando Monica ha le mani sporche di colore, sei curiosa di sapere cosa ha combinato questa volta.
Perché Monica ha questo di meraviglioso: che è nella vita, terribilmente, violentemente, amorevolmente, tragicomicamente nella vita. E allora l’al di là che in questa mostra Monica evoca non è un altrove fuori da questa vita, ma qualcosa di profondamente dentro. In un punto così profondo che molti di noi non possono, non vogliono, non sanno, non riescono a vederlo. Cosicché sembra essere divenuto – appunto – un altrove. A ben pensarci viviamo fuori di noi, non vi pare?, espropriati della nostra autenticità, del contatto con la parte più intima di noi. Quest’intimità, invece, Monica la coltiva. Ogni giorno. Non solo con l’arte. L’intimità è qualcosa che Monica non ha paura di condividere, dando prova da sempre di un coraggio molto molto raro. Perché Monica non ha paura, non ha paura di vivere, perché Monica vive. E anche per questo comunica poco con i mezzi elettronici.
Ecco, allora, che quando Monica lavora sull’identità apre l’armadio, guarda i suoi abiti e pensa al suo portafoglio. Quando Monica lavora sull’identità pensa a cosa indossa e al luogo in cui è stato prodotto, pensa a quanto le ha fatto risparmiare oggi e a quanto le farà spendere domani. Domani, quando avremo completamente smesso di produrre nel luogo in cui abitiamo, quando la sapienza delle mani non avrà più alcun valore, in che scenario ci muoveremo? Cosa avremo davanti a noi? Quanto ci costerà allora quello che indossiamo? Da dove diremo di venire? Dove penseremo d’esser nati a quel punto?
Quando Monica lavora sulla spiritualità pensa a cosa ha provato entrando in luoghi sacri non nella forma, ma sacri per la sacralità dello spirito di chi ci entra con un perché, con una speranza, con il bisogno di credere in un legame più profondo tra le persone, e tra le persone e qualcosa di ‘altro’ dalla materia che vive nella materia stessa. Così Monica lavora immergendo le mani in questa materia, porta con sé la sua vita e quella delle persone che ha intorno, porta con sé il suo lavoro, la sua fatica, la sua inarrestabile riflessione, il suo incontenibile viaggiare. Poi torna e… si sporca le mani.
Quando Monica si guarda intorno Monica si guarda dentro, così racconta artisticamente l’inquinamento, la salute e i diritti attingendo a ciò che le è accaduto dentro. Monica guarda il lungo segno alla base del suo collo e pensa a cosa ha provato, Monica legge “il fumo uccide” e pensa a suo padre, Monica partecipa al dolore del mondo e reagisce camminando come fosse Mary Poppins con un ombrello, però, carico di bruttura e d’ansia. «Come possono non vedere?», mi ha chiesto una volta, «come possono le persone non riflettere, non chiedersi da dove viene tutto questo dolore?». Monica se l’è chiesto, ha guardato suo figlio e sua figlia, ha pensato alle sue amiche e ai suoi amici, ha pensato alla sua arte e ne ha voluto fare un gesto politico.
Un gesto che vuole scuotere, metterci di fronte uno specchio (o davanti alla sua macchina fotografica, magari) e farci domandare da dove veniamo, qual è la nostra identità e come pensiamo di coltivarla, quale futuro immaginiamo per noi e per le generazioni che verranno. Senza retorica, senza moralismi, senza ovvietà. Le domande delle domande di tutti i tempi, cui restituire senso. Qui non si tratta di dare valore a un luogo specifico in quanto luogo geograficamente definito e chiuso in se stesso nelle sue caratteristiche fisiche, sociali, culturali, nelle sue problematiche apparentemente, appunto, locali. Qui si tratta del riappropriarsi di sé in una prospettiva più ampia, che parte da un luogo e ha il mondo come orizzonte. Monica ha una foto davanti a una porta azzurra, alle sue spalle la scritta Além do além. Siamo a Lisbona, lì ha colto questo spunto quasi magico dell’idea dell’“al di là di là”, di un viaggio che definisce «iniziatico» verso – credo – una rinnovata consapevolezza di sé.
Quella che Monica per prima, e in prima persona, ci dona in questa mostra, in queste opere aperte a tecniche differenti che sollecitano tutte (per forma, per materia, per colore, per movimento) il nostro profondo, in questo nero che non riesce in nessun modo a soffocare i colori che conosciamo essere propri di quest’artista. Perché Monica fa un gesto politico, politicamente/artisticamente ci chiede di agire, di guardarci intorno, di guardarci dentro e di compiere gesti politici. Di incidere sulle nostre vite e sul mondo attorno a noi. Monica al di là di Monica è insomma in queste opere come è al di qua dell’espropriazione del senso. Forte, veemente, ancorata a una vita densa densissima, Monica invita a squarciare questa vita, a leggerla di nuovo, a viverla davvero. Una vita ironica beffarda bastarda ma una vita una vita una vita.