Categoria: arte

una delle tavole della mostra foto-poetica "we care" della scrittrice Diana Agámez e della fotografa Luisa Machacón

chi cura chi?

Sabato 4 novembre 2023 alle 12 chiuderò un capitolo e ne aprirò un altro. Concretamente, e pure simbolicamente, il passaggio sarà segnato da fotografie e parole. Quelle che hanno dato vita, o meglio una delle vite, a “We care”, una mostra, un progetto della scrittrice Diana Agámez e della fotografa Luisa Machacón, una riflessione fotografica e letteraria che parla di corpi ed erotismo femminile attraverso la narrazione della relazione tra una nonna e una nipote, Francisca “Pacha” Florez de Pájaro e Diana Agámez, tessuta in un quartiere di periferia di Cartagena de Indias, in Colombia.

Per chi è a Lecce o ci passerà, la mostra sarà visitabile fino al 18 novembre negli spazi del Centro sociale di viale Roma, su iniziativa di “Alice e le altre” con Collettiva edizioni. Periferia, direbbero alcuni. Se non fosse che Lecce è piccola e questa idea di periferia mi fa sorridere. Ma sì, in qualche modo è periferia. Per luogo, per contenuti. Un centro sociale per persone “anziane”. Parliamone. O meglio: ve ne voglio parlare.

Mi chiamo Loredana De Vitis e sono la curatrice di questa mostra. Di questa “edizione” di “We care”. Ma che dici? Che scrivi?, forse chiederete. Ecco, ho iniziato così per “posizionarmi”, come ho imparato a fare, per dire da dove parto. Ho 45 anni, vivo a Lecce, sono una scrittora, scrivo insomma in varie forme affermando di farlo a partire dal fatto d’essere – di identificarmi con – una donna. Cosa vuol dire lo ri-stabilisco ogni giorno, e non da sola.

Pensando alla mia esperienza finora e alla parola “cura”, l’associazione di idee illumina la scena della mia vita portando come su un palco un figlio, alcuni gatti e gatte, alcune relazioni significative, almeno tre eventi che si definirebbero “problemi di salute”, la morte di mio nonno, le storie e la quotidianità di donne per me importantissime, che hanno segnato la mia di storia, e la storia del mondo in cui vivo anche ora. Tra le quali, dallo scorso anno, c’è anche Diana Agámez.

Ho conosciuto “We care” proprio a Lecce nel 2022, nel corso di “Conversazioni sul futuro”: Diana era in città perché tra le vincitrici del concorso nazionale “Lingua madre”, che da tempo trova spazio in questo importante festival della mia città. Avevo amato subito il suo racconto “Il mio corpo: un luogo felice”, capace di delicatezza e chiarezza, con le sue parole nitide, nette, con la sua capacità di dire molto con poche immagini, di dirlo a me a partire da un’altra vita, un altro luogo, un’altra storia. Saputo della mostra, ascoltata Diana, guardate le immagini, quel racconto si è dissolto in un flusso di pensieri di cui non ho più saputo distinguere l’origine. Sentivo che io e Diana eravamo definitivamente connesse.

Ho lavorato anni fa, con la scrittura e con immagini del mio corpo, per un progetto che ho chiamato “io sono bellissima”, un progetto sostenuto da molte donne che – a partire da un lavoro collettivo – voleva suggerire la necessità di superare gli stereotipi della “bellezza” a partire da sé. A
partire da un’idea di bellezza che non separa il corpo dalla mente, dal cuore, dalle viscere, dai pensieri, dalle azioni. Quel progetto ha diversi punti in comune con questo, tra i quali anche l’aver lavorato con una fotografa “amica”, sorella direi [Susanna Tornesello, parlo di te].

È un grande impegno mettere in gioco il proprio corpo, assumere su di sé il rischio (la certezza) del giudizio altrui essendo programmaticamente allo stesso tempo coinvolte e distaccate. È un lavoro politico. Necessario.
Sono passati diversi anni, e questo per me non è più quel tempo, il tempo di quel mio corpo e di quel lavoro. Questo è il tempo di proporre – grazie ad “Alice e le altre” e a Collettiva – un altro lavoro politico che considero indispensabile, come avevo considerato il mio: il lavoro di questa mostra, nata dalla disponibilità di Diana e di Luisa Machacón di unire le foto originariamente realizzate al testo di Diana, fino a farne un’opera “foto-poetica”, in cui poesia e immagini sono simbiotiche.

“Non è un paese per vecchie” scriveva Loredana Lipperini alcuni anni fa. Non è nemmeno un paese per giovani, mi sono detta varie volte, e oggi mi chiedo per chi è questo paese, per chi è questo mondo. Per niente e nessuno, mi vien da rispondere, ma poi penso a Collettiva e guardo “We care” e mi dico che questo è il paese, il mondo, il luogo e il tempo di narrare, come lo è sempre stato. Narrare difficoltà e bellezza, narrare per ridare complessità. E provare a cambiarlo, questo mondo.

Insomma, un anno fa ho conosciuto Diana Agámez, ho incontrato le sue parole, mi sono immersa nelle immagini che con Luisa Machacón aveva realizzato e le ho fatto la più intima delle domande: ti va di lavorare insieme perché “We care” divenga un progetto condiviso? Ed eccoci qua.

Perché considero “We care” un importante lavoro politico?

Perché parla del rapporto inter-generazionale tra persone anziane e persone giovani, alcune delle quali svolgono un “lavoro” di cura che oltrepassa l’idea di “lavoro”: la mostra mette a tema, in modo sfaccettato, la natura multipla di queste relazioni, caratterizzate da sentimenti contrastanti, dall’attaccamento al desiderio di fuga, dall’amore alla fatica.

Perché le autrici sono originarie dell’America Latina e oggi vivono in Europa: possiamo attraverso il loro sguardo narrare storie che oltrepassano nostri confini, che li rendono permeabili, e così saltare fuori dal nostro stagno, pur bello e confortevole, e crescere come essere umani.

Perché la mostra, pur toccando “temi che scaturiscono da rilevanti trasformazioni demografiche e sociali contemporanee” – come recita la scheda ufficiale – nulla cede sul piano dell’autenticità artistica. Non c’è “tecnica” per comunicare un messaggio, c’è narrazione pura. Sui corpi delle
donne nessuno stereotipo, nessun “aggiustamento” per compiacere un gusto ormai sempre più plasmato dagli strumenti digitali. Questi corpi, queste persone, queste donne sono protagoniste. In sé, per sé.

Queste donne sono protagoniste come ho immaginato possano essere tutte le persone che vedranno la mostra, a partire da me. Protagoniste nel riappropriarsi della capacità e del potere di narrare. Nel raccontare i corpi che cambiano, le storie delle relazioni, di ciò che invecchia continuando a desiderare.

A Lecce dal 4 al 18 novembre 2023 la mostra foto-poetica “We care”

Per tutte queste ragioni e per altre che troveremo assieme l’idea di ambientarla in un “centro sociale”, uno spazio che ci ha accolto e per il quale mi sento grata. Una proposta fatta al Comune di Lecce e accolta dall’Assessora al Welfare e alle Pari opportunità Silvia Miglietta. Un’idea politica cui tenevo particolarmente. Perché in questo luogo possiamo incontrare persone che mai avremmo potuto, e portare persone che mai avrebbero visto e saputo. Così vogliamo rimettere a tema il legame tra tre parole: genere, azioni e generazioni, e così magari, tra non molto, pubblicare un nuovo libro denso delle nostre storie. È quello che desidero di più ora, dopo aver realizzato il desiderio di portare a Lecce questa mostra, e in una “versione” che fino a qualche mese fa non esisteva, e che ora invece esiste ed è anche nostra. Se avete storie da raccontare, scrivetemi, o scrivete a Collettiva.

Ringrazio ancora Diana Agámez e Luisa Machacón per aver accettato di lavorare assieme, tessendo una nuova relazione artistica e umana. Silvia Miglietta e il suo gruppo di lavoro per l’ascolto, la sensibilità, l’impegno. Daniela Finocchi, che ha ideato Lingua madre, per aver iniziato anni fa la sua tessitura e per portarla avanti con entusiasmo instancabile. E soprattutto grazie alla redazione di Collettiva, per aver voluto aver cura di questo progetto, per osservare, leggere e scrivere ogni giorno e per costruire ogni minuto, per tutto ciò di cui è capace, che non smette di destare la mia meraviglia.

Parte di questo testo è inserito nel catalogo della mostra (32 pagine a colori, grafica di Roberta Cleopazzo), disponibile a richiesta scrivendo a Collettiva.

scrivere con altri tratti

Copertine e disegni nei libri sono al servizio della scrittura? Ne abbiamo discusso con Collettiva, l’editrice indipendente dei miei il posto di dio e amori in cottura e la risposta è stata: no. L’illustrazione è una forma d’arte che non “serve”, ma dialoga con chi scrive. A distanza di un anno dalla piccola rassegna “Scrivere con altri tratti. Illustrare secondo Collettiva”, vi ripropongo i video dei tre incontri che abbiamo organizzato online a cura mia e di Simona De Carlo.

Gli incontri si sono aperti con Paolo Fellico e Cristina Carlà, il primo autore dell’illustrazione di copertina di “Animula” di Mercedes Capone (Collettiva, 2019); la seconda autrice de “il colore delle cose fragili” (Collettiva, 2019), che ha scelto per l’illustrazione di copertina un’opera di Valeria Puzzovio. Due ruoli diversi, due sensibilità che si toccano, due copertine che si parlano. Questo è il video integrale dell’incontro.

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rassegna “Scrivere con altri tratti”: Paolo Fellico e Cristina Carlà dialogano con Loredana De Vitis e Simona De Carlo

Un secondo incontro ha riguardato la collana Orlando, che ho ideato e curato per Collettiva e nella quale il dialogo con l’illustrazione ha un ruolo centrale. Ne abbiamo parlato con Fabiola Berton e Roberta Ranieri, illustratrici con cui ho lavorato rispettivamente per “il posto di dio” e “amori in cottura”. Sono due artiste con le quali lavorare è stato fonte di ricchezza e bellezza. Ecco qualche ulteriore spunto, nel video integrale dell’incontro.

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rassegna “Scrivere con altri tratti”: Fabiola Berton e Roberta Ranieri dialogano con Loredana De Vitis e Simona De Carlo

Con Stefania “Anarkikka” Spanò abbiamo scelto di chiudere la rassegna: nota “illustrAutrice”, vignettista e copywriter femminista, ha firmato “Smettete di farci la festa” (People, 2021) ed è l’autrice della copertina e delle illustrazioni del recente “Stai zitta” di Michela Murgia (Einaudi, 2021). Con lei abbiamo parlato del legame imprescinbile tra arte e politica. Ecco il video integrale.

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rassegna “Scrivere con altri tratti”: Stefania Anarkikka Spanò dialoga con Loredana De Vitis e Simona De Carlo

sputare [sempre meglio] su Hegel

“La differenza per le donne sono millenni di assenza dalla storia” è una citazione tratta da “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi, un classico [femminista. Lo metto tra parentesi perché è – o dovrebbe essere – un classico e basta. È del 1970]. Nella premessa al volume che contiene questo e altri testi, firmati da Lonzi personalmente o collettivamente con le donne di Rivolta Femminile, l’autrice spiega di averlo scritto perché

rimasta molto turbata constatando che quasi la totalità delle femministe italiane dava più credito alla lotta di classe che alla loro stessa oppressione.

Questa citazione è una di quelle inserite tra le luminarie allestite per la sfilata cruise di Dior: l’altro giorno milioni di persone in tutto il mondo l’hanno vista online in diretta da Lecce, la città dove vivo. Questo il video integrale.

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Dior Cruise 2021 show from Maria Grazia Chiuri in Lecce (Puglia, Italy).

Due [ovvie, ma non si sa mai] precisazioni, prima di continuare:

  1. Tutto quello che scriverò non vuole essere un’esegesi della performance collettiva orchestrata dalla direttrice creativa della maison francese, Maria Grazia Chiuri. Si tratta di mie opinioni e interpretazioni. Personali. Che nascono dall’interesse per quest’artista.
  2. Cercherò di procedere, come posso e come riesco, integrando in modo chiaro alle valutazioni generali alcuni riferimenti particolari, cioè che hanno a che vedere con il Salento. Perché ci vivo, quindi inevitabilmente la mia storia personale influenza la mia percezione.

Cominciamo.

Le modelle che hanno indossato gli abiti della collezione cruise 2021 ideati da Maria Grazia Chiuri [la quale, nell’incontro con la stampa che ho potuto seguire, ha tra l’altro chiarito di lavorare con un ufficio stile di 80 persone, oltre che ovviamente all’interno di una più complessa organizzazione aziendale], hanno sfilato in piazza Duomo. È chiusa su tre lati. Oltre all’ingresso principale, chi la conosce sa che un’altra “via di fuga” è solo attraversando la cattedrale. Bisogna entrarci e, inevitabilmente, passare “davanti” all’altare. La piazza è stata allestita come in una delle feste delle nostre, quelle dei santi patroni, circondata da luminarie e con, al centro, una cassa armonica, un palchetto anch’esso con luminarie dove ancora si esibiscono le “bande”. Dietro le luminarie i “monumenti” non scomparivano, si vedevano bene – tra l’altro – la sommità della facciata laterale del duomo con lo stemma della curia e, dietro la citazione di Lonzi, il “seminario vecchio”, come lo chiamiamo [ce n’è un altro “nuovo”, in periferia].

Per la progettazione di questo set, Chiuri ha coinvolto l’artista femminista Marinella Senatore. La sua viene definitiva giustamente “pratica artistica”, anche perché coinvolge “intere comunità intorno a tematiche sociali e questioni urbane quali l’emancipazione e l’uguaglianza, i sistemi di aggregazione e le condizioni dei lavoratori”. In un’intervista ad Artribune del novembre 2019 (questa: https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2019/11/intervista-marinella-senatore-stati-uniti/), Senatore spiega secondo me molto bene come lavora, cos’è la sua “School of Narrative Dance” e perché usa il termine “processione” per definire le sue performance.

Il che ci riporta alla sfilata, alla “processione” di modelle e alla danza che l’accompagnava [con il corpo di ballo della Fondazione La Notte della Taranta sulle note dell’orchestra diretta dall’attuale maestro concertatore Paolo Buonvino]. La coreografia – un mix ispirato alla pizzica, alla pizzica tarantata, alla danza delle spade – è stata curata da Sharon Eyal. Certo, forse è apparsa un po’ troppo sofferente, ma d’altra parte Chiuri ha detto chiaramente di aver studiato e fatto riferimento a “La terra del rimorso” di Ernesto De Martino, che è di fatto l’origine di tutto il “recupero” di questa “tradizione” per la quale il Salento è oramai piuttosto conosciuto [non solo in Italia]. Una donna a cui ho voluto un gran bene, purtroppo morta troppo giovane, mi diceva sempre che ballare la pizzica era per lei liberatorio. Liberatorio. Stiamo parlando della fine degli anni Novanta del Novecento, e non era stata morsa da alcun ragno, ovviamente.

Negli abiti erano evidenti i riferimenti ai colori, alle forme, ai manufatti, agli usi tipici di un territorio che, lo ricordo, è quello di origine del padre di Chiuri [che era di Tricase, ed è poi emigrato molto giovane]. Uno degli accessori che ha colpito di più è stato il fazzoletto ricamato usato a mo’ di copricapo, una reinterpretazione di qualcosa che personalmente ho visto solo in vecchie foto ma che amiche mi hanno detto di ricordare addosso alle proprie nonne. E ancora, diversi abiti sono stati realizzati con le stoffe che hanno intessuto le tessitrici della Fondazione Le Costantine [il cui motto, amando e cantando, è finito sul retro di alcune gonne], altri avevano dettagli realizzati al tombolo [è stata coinvolta la “nostra” Marilena Sparasci], i fiori di altri ancora non erano i classici dei “giardini Dior” ma quelli che si vedono nelle nostre campagne e spesso lungo le nostre strade.

Nel nostro incontro, Chiuri ha rivelato tra le altre cose che, pur di realizzare un abito che avesse delle rose realizzate al tombolo, sarebbe stata disposta a sacrificare qualcuno dei pezzi che fanno parte del suo “corredo”, e che con questo stile vorrebbe progettare l’abito da sposa di sua figlia. Sua figlia si chiama Rachele Regini, è dottoranda in gender studies e lavora con lei per “studiare come incorporare le sue idee sul femminismo e le donne all’interno delle collezioni e della sua visione del brand”. Parole sue, traduzione mia. Qui sotto il video in cui lo spiega.

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Ma soprattutto in quell’incontro Chiuri ha detto che ciò che viene realizzato al telaio o al tombolo [come pure le luminarie, ma in un altro contesto], va considerato una “espressione artistica”, non un “lavoro domestico femminile”. Non siamo davanti a qualcosa di originale. La mia non è una critica, anzi sto dicendo che secondo me la direttrice creativa di Dior conosce molto bene chi è, da dove viene e il suo personale/politico, e che ha studiato. Questo svilimento dei domestic handicrafts è già stato ampiamente denunciato dalle artiste e studiato dalla storia dell’arte.

https://www.instagram.com/p/CCYOsx5Kdlm/

Sono stata un po’ lunga. Scusate. Giungo a conclusione [tralasciando altri dettagli].

Io credo che Maria Grazia Chiuri sappia sputare su Hegel, che lo sappia fare molto bene, che sia se stessa e che usi liberamente gli strumenti che ha. E parlo di mezzi economici ma non solo.

I “corredi”, quelli che tante di noi hanno ancora, potremmo usarli per farci abiti di ottima qualità ed eterni. Gli orecchini e altri gioielli indossati dalle modelle, ispirati a pezzi custoditi nel museo MArTA di Taranto, ce li potremmo costruire, lo fanno già alcune giovani artiste che conosco. Chiunque di noi può essere una “guerriera saracena” – come hanno definito il “modello” ideato da Chiuri per questa collezione – indossando lunghe gonne e corsetti che non stringono più, stivali e sandali, capotti che ci possiamo dipingere da sole, ma soprattutto usando la nostra arte. Agendo. Appropriandoci del nostro passato [in senso collettivo, di donne]. Lavorando per affermare la nostra idea di mondo, condividendola con donne e uomini che la pensano come noi e occupando – con “leggerezza” [so che posso evitare di precisare l’accezione in cui uso la parola] – i luoghi del patriarcato.

Chiuri lo fa nel suo lavoro. Lo ha fatto a Lecce come lo aveva fatto in altri luoghi e contesti. E il marketing fa parte del suo lavoro [del lavoro di Dior], è una leva per vendere. Trentamila lampadine sulle luminarie, Giuliano Sangiorni che canta Modugno e il video di Winspeare col pasticciotto fanno parte di questa leva, in una dimensione globale in cui bisognava anche “giocare” con l’immagine dell’Italia, della Puglia e del Salento. E questo gioco servirà anche, ne sono più che certa, all’economia dell’Italia, della Puglia e del Salento.

[inciso] Il paragone è azzardato, ma pure io quando ho ideato “messinscena d’affanni” e ho coinvolto artiste/i che apprezzavo, volevo [anche] vendere i miei libri. E ne avrei venduti volentieri molti di più, naturalmente! [sto ridendo].

Può piacere o meno, quel che personalmente trovo interessante è che Chiuri sia un’artista femminista che si muove molto bene nello spazio che si è conquistata. Una donna che non chiede il permesso, che non chiede scusa, che non si sente in colpa, che non vuole piacere per forza, che progetta le sue opere avendo un’idea forte di sorellanza e amando la sua storia, personale e collettiva, e puntando sulla bellezza che molte/i di noi condividono.

Il “progetto” della sfilata mi è piaciuto per questo. Mi è piaciuto molto. Per farla breve, per un messaggio che sintetizzo così:

Amiche mie!, sputiamo [sempre meglio] su Hegel. Be brave, stay feminist and never give up!


La foto di Maria Grazia Chiuri è mia, gliel’ho scattata nel corso dell’incontro con la stampa a Lecce, il 21 luglio 2020.

ogni sbaglio è un nuovo pinto

Ero all’incontro con la stampa nel quale Chiuri – presente il sindaco Carlo Salvemini – ha raccontato il suo “progetto”, non una semplice presentazione d’abiti, né un “evento”, piuttosto una performance che anche questa volta è “collettiva”: potremo vederla domani online (la sfilata è “chiusa” per le ovvie misure anti-Covid), alle 20.45 in diretta da Piazza Duomo (link: https://www.dior.com/it_it/moda-donna/sfilate-pret-a-porter/collezione-cruise-2021). Credo che l’incontro fosse stato organizzato per “chiarire” alcune “questioni” che in questi giorni hanno tanto… appassionato alcuni mei conterranei. Tipo: le luminarie stanno bene in piazza Duomo?, una sfilata di moda non offende Dio in piazza Duomo? E altre faccende del genere, nelle quali non mi addentro perché Chiuri e questa sfilata mi interessano per altri motivi.

Da quando è in Dior, seguo con interesse il lavoro di Chiuri, ma la moda c’entra poco. C’entra invece il gusto di rintracciare i suoi riferimenti – quali artiste cita, quali coinvolge, o approfondire le sue iniziative – un talk sul femminismo o un progetto per lo sviluppo locale, nel contesto di un lavoro che ha una ribalta mondiale e che parla di femminismo come fosse la cosa più naturale del mondo. Roba che – converrete – per un’italiana (intendo: io) non è una banalità. Dopo la famosa maglietta con la scritta “We Should All Be Feminists” che citava Chimamanda Ngozi Adichie, mi ha letteralmente conquistata lavorando con Judy Chicago.

A Lecce, per la cruise, ha coinvolto l’artista femminista Marinella Senatore, alla quale ha fornito, più che un set, un palcoscenico: viene definita a multidisciplinary artist whose practice is characterized by a strong participatory dimension and a constant dialogue between history, popular culture and social structures. E in questa dimensione di partecipazione sono entrate le luminarie dei fratelli Parisi, i tessuti realizzati dalle tessitrici della Fondazione Le Costantine e la perizia al tombolo di Marilena Sparasci, l’orchestra e il corpo di ballo de La Notte della Taranta assieme all’attuale maestro concertatore Paolo Buonvino e molto altro di cui pian piano vi racconterò. In un video firmato dal regista Edoardo Winspeare, da poche ore pubblicato sui canali social di Dior, un mega spot della città (dell’altro mega spot firmato Chiara Ferragni parlerò poi, promesso).

Nell’incontro Chiuri ha parlato di sé con grande emozione: di suo padre, sua madre e sua figlia, di una zia che – guarda caso – lavorava nel castello dei Winspeare a Depressa (una frazione di Tricase, dove il regista vive ancora), della gratitudine che prova per aver potuto imparare il mestiere a contatto con i fondatori delle aziende di moda – le sorelle Fendi e Valentino, e di quella per Dior che l’appoggia nel suo percorso, della sorpresa della stampa per il suo incarico francese, della bellezza e dei talenti dell’Italia che desidera promuovere e valorizzare. Tutte cose che, in qualche modo, troveranno sintesi nella sfilata di domani, per la quale ha ringraziato della collaborazione tante delle persone coinvolte. A cominciare dal sindaco e dal vescovo. Il sindaco. E il vescovo.

“La sua narrazione femminista sfilerà di fatto nel cuore del patriarcato. Lo ha fatto apposta?”, le ho chiesto. Ha sorriso e mi ha risposto di no. Mi ha risposto che – come io stessa avevo premesso alla domanda – essere femminista per lei è “naturale” (sintesi mia): per i suoi genitori era “solo Maria Grazia”, e il femminismo inteso nella sua dimensione internazionale farà il bene dei nostri figli.

Ogni sbaglio è un nuovo pinto, aveva citato qualche minuto prima parlando della tessitura al telaio: alle Costantine le hanno fatto notare che ogni errore è un nuovo punto da cui partire, e dal quale magari potrà venir fuori un disegno originale e inaspettato. Un’idea che mi piace condividere, assieme alla descrizione di quest’altra scena: mentre le campane di sant’Irene interrompevano l’incontro e qualcuno quasi se ne scusava (eravamo nel chiostro dei Teatini, proprio accanto alla chiesa), Chiuri alzava gli occhi al cielo e sorrideva commossa.

E ora vediamo che succede domani.

Nelle foto (mie), alcuni momenti dell’incontro con la stampa.
Il profilo IG di Maria Grazia Chiuri: https://www.instagram.com/mariagraziachiuri/

quattro ore dentro il 900

Milano è un’incognita. Qualche volta me ne sento attratta, altre sento un’insolita, violenta insofferenza.

Di Milano amo alcune cose. All’elenco ho aggiunto questa: il Museo del Novecento. Qualche settimana fa ci ho passato quattro ore (troppo poche, ci tornerò), camminando come in una trance tra quadri e sculture.

Umberto Boccioni, che amo da sempre, m’ha sconvolto ancora una volta. Forme uniche nella continuità dello spazio l’avevo vista solo a Londra, due volte. Alla Tate. Una scultura divina, potente. Desiderio di contatto. Ti dici: “Toccala. adesso”. E ti guardi intorno con aria preoccupata delle possibili conseguenze. Ma quelle forme, quelle forme tanto perfette quanto sfuggenti non si possono non toccare. Questa volta, però, non l’ho fatto. Mi tremavano le mani, ho tirato fuori dalla borsa l’agenda, ci ho poggiato la macchina fotografica, ho tolto il flash. Ho scattato. Mi sono poi seduta. Quindici minuti d’attesa, prima che finisse il desiderio di restare.

Molti altri autori sono adesso persi nella mia mente, a parte Carla Accardi. Non l’avevo mai incontrata di persona, accidenti. I “brulicanti segni bianchi” su Grande integrazione (definizione da catalogo 🙂 ) sono alle mie spalle nella foto che Sabrina mi ha scattato: per fortuna ho capito subito che era necessario dargli le spalle. A guardarlo, potreste esserne divorati. Chiudete gli occhi, almeno.

C’è molto, molto altro. Di bello, bellissimo. Ma non voglio raccontarlo. Solo un’ultima suggestione: dentro una teca, Emilio Isgrò. Con un libro le cui parole non sono sopravvissute, perché cancellate con perfetti segni neri accostati a mano a uno a uno per chissà quante ore. Un pugno, un monito. E, per me, anche un invito alla sottrazione.

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