Il volume in cui Giovanni Minoli ha raccolto le sue interviste più interessanti e significative, quelle di “Mixer”, quelle che l’hanno reso tanto stimato quanto temuto, dice praticamente tutto nel titolo: “La storia sono loro. Faccia a faccia con trent’anni d’attualità” (col collega Piero Corsini, Rizzoli edizioni). Perché la storia di cui si parla, forse ancora troppo recente per poter essere chiamata storia, è una storia di cui Minoli è stato testimone e del cui racconto si sente l’urgenza. Non per niente, tra gli spezzoni video più lunghi proiettati nel corso di un recente incontro in Rettorato organizzato per parlare di questo libro, c’erano le interviste con Silvio Berlusconi. È così noto il talento di Minoli per le domande, che quest’incontro all’Università del Salento – promosso dalla locale sezione dell’Ande (Associazione nazionale donne elettrici) assieme alla Provincia di Lecce – è stata per tanti un’imperdibile occasione per “costringere” l’attuale direttore di Rai Educational dall’altra parte della barricata. A incalzarlo Maddalena Tulanti, vice direttora di Corriere del Mezzogiorno e ufficiale… sparring partner, e poi decine di giornalisti e una foltissima platea di ex spettatori della fortunata trasmissione che in 18 anni, davanti al teleschermo, ne ha trattenuti a milioni.
Minoli, è già storia quella che racconta?
Sì, il libro è un vero e proprio racconto attraverso le interviste ai grandi personaggi che hanno fatto la storia d’Italia di questi vent’anni. È un lavoro dedicato agli italiani, a chi ha voglia di ripercorrere la storia attraverso i suoi protagonisti, perché i protagonisti – analizzati e letti con attenzione – rivelano veramente i tratti salienti dello sviluppo di questo Paese. La storia è fondamentale, perché un popolo che non ha consapevolezza delle sue radici non ha futuro, soprattutto nella società globalizzata.
Nell’introduzione de “La storia sono loro”, Minoli precisa meglio il senso della “selezione” delle interviste: «Provare a costruire una storia del nostro Paese», scrive, «attraverso le interviste con i protagonisti di due decenni – gli anni Ottanta e gli anni Novanta – che hanno cambiato l’Italia: dapprima con l’uscita dagli anni Settanta, dall’emergenza del terrorismo e dalla crisi economica, poi con la stagione di Tangentopoli e della fine della Prima repubblica, e infine con l’avvento del sistema elettorale maggioritario e la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Rimettendo tutto in fila, e riconsiderandolo con gli occhi di oggi, la cosa che mi colpisce di più è lo sforzo che i politici della Prima repubblica hanno fatto per adeguarsi alle necessità linguistiche del nuovo modello di comunicazione imposto dalla televisione. Per imparare, cioè, a coniugare brevità e contenuti».
Sulla successiva deriva dei dibattiti politici in televisione, Minoli si è spesso soffermato:«La politica ha perso», ha detto, «e ha vinto la televisione.Lo dimostrano Fini e Bersani che sono andati da Fazio e Saviano a leggere i loro elenchi». Durissime le critiche ai talk show: «Rappresentano lo strumento di distruzione della politica, portano soltanto al confronto tra slogan e non tra contenuti e ragionamenti. Prevale la logica della rissa, persino nelle persone più tranquille ed equilibrate. E poi annoiano gli spettatori, il conduttore prevale». Nella scheda curata dai suoi collaboratori per aprire l’incontro, di Minoli si è ricordato ironicamente l’essere definito, dagli amici, uno “bello, biondo, con gli occhi azzurri, che fa la televisione” e, dai nemici, uno “bello, biondo, con gli occhi azzurri, che si crede la televisione”. «Nei “faccia a faccia”, però, prevaleva lo sviluppo della riflessione».
Che mestiere è quello del giornalista?
Un mestiere che è un enorme piacere e una grande fortuna. Non voglio parlare di missione, ma di responsabilità sì, soprattutto nel servizio pubblico. Io ho scelto di fare televisione nel servizio pubblico, che è dalla parte del cittadino, che deve servire a evitare l’appiattimento sul pensiero unico. Bisogna avere grande passione, io penso ogni volta che devo ricominciare da zero. Ho fatto quello che volevo, senza spezzarmi. Quandoho perso, ho perso, e sono andato via. Ho ricominciato ogni volta. Ci sono stati momenti di difficoltà, ma chi ha capacità di guardare oltre il proprio naso deve abituarsi a stare solo. È qualcosa che ti rende sempre più forte. Quando poi i fatti ti danno ragione, ti sorprendi ogni volta a nutrire lo stupore di un bambino.
Definito “arrogante con gli arroganti e debole con i deboli”, dei “faccia a faccia” di Minoli si citano aneddoti significativi: “Enrico Berlinguer arrivò ad affermare di aver detto più cose in mezz’ora d’intervista di quante ne avesse mai dette in anni e anni di Tribuna politica; l’ex segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Caspar Weinberger, giurò che non avrebbe mai più fatto una chiacchierata con lui e il premier israeliano Shamir abbandonò lo studio in preda alla rabbia”. «Soltanto con Berlusconi ho perso, lo devo ammettere», ha detto Minoli, «perché sono stato aggressivo. Lui aveva completa padronanza del mezzo».
Non ha mai voluto fare il nome di qualcuno che l’ha particolarmente colpita. Ci dica almeno chi ha retto meglio i suoi fuochi di fila.
Ogni intervistato è interessante, se lo si studia bene. Nel mio percorso professionale ho fatto interviste ai top del mondo, e se sono al top c’è sempre un motivo. La selezione esiste, non è uno scherzo. Se uno ce la fa, in genere è perché ha ‘qualcosa’. Le interviste sono difficili perché bisogna studiare, studiare bene bene. Sono molto importanti le domande, sono quasi più importanti le domande delle risposte. Da questo punto di vista, se ogni intervistato ha un mondo da raccontare, bisogna saperglielo far raccontare.
quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”, maggio 2011