mình thật tuyệt (diario) / giorno 1

16 ottobre 2012, in viaggio

Sul mio volo Alitalia per Roma, partito con 20 minuti di ritardo per un “controllo tecnico” (ah sì? quale?), viaggiano un sacco di maschi adulti vestiti di scuro e coi capelli imbiancati. Le poche donne che vedo sono per la maggior parte con uno dei maschi adulti suddetti e indossano orecchini d’oro e perle e anelli impegnativi. Di donne della mia generazione “non accompagnate” ce n’è invece solo una: io.

A Roma, passata dal terminal 1 al terminal 3 in direzione Mosca, il panorama è decisamente più vario ma la sostanza non cambia. Molte donne di molti paesi, molte velate. Indossano grandi tuniche in tonalità dal bianco ghiaccio all’avorio con ricami e a volte perline, e sono sempre accompagnate da maschi adulti alcuni dei quali hanno copricapo di cotone. Sotto le tuniche, le suddette donne velate indossano soprattutto scarpe da ginnastica (sempre chiare, ma che varietà!), e pantofole d’ogni foggia. Al check-in la domanda fatidica.

  • Ha il visto per entrare in Vietnam?
  • Ce l’ho!
  • Posso vederlo?
  • Certo!
  • Ah, non ha l’originale col timbro rosso?
  • Beh, me l’hanno spedito via e-mail!
  • Ah, certo, allora va bene ma mi raccomando non lo perda altrimenti non la fanno entrare e dovrà tornare indietro.
  • Lo so.
  • Ecco, bene.
  • Ehmmmm… ok, allora me lo ridà per favore?
  • Cosa?
  • Mi ridà il visto per favore?
  • Cosa?
  • Il mio visto!
  • Ah certo, scusi. Ce l’ho qui. Certo, giustamente. Scusi.

Pochi metri più in là, mentre pago al volo “Norwegian Wood” prima di correre verso il gate stabilito, trovo la commessa con un’aria molto annoiata. Probabilmente io sono troppo seria, troppo formale, troppo cortese, e soprattutto mi macchio di un grave delitto: non voglio la busta.

Bevuto caffè e mangiate due merendine, comprata dell’acqua e osservato una varietà umana molto rassicurante, eccomi al suddetto gate. Accanto a me una coppia molto carina credo russa. Lei ha unghie impressionanti: curve e appuntite, lunghe un centimetro buono oltre i polpastrelli, sono percorse da un disegno geometrico rosa e rosso con piccole decorazioni dorate. Immagino che siano un’ottima scusa per non fare cose noiose (Non posso, non vedi che unghie?). Questa me la segno. Lui ha occhi chiarissimi e una cicatrice che dal lato sinistro della bocca segna la guancia per circa tre centimetri.

Ok, ho appena visto un piccione. Dev’essere lo stesso che ha visto Alessandra-la-grande-Tigre l’altro giorno e che ha pubblicato su faccialibro. A questo proposito, non vedo l’ora di rivedere lei, Iris-la-piccola-Tigre e anche Roberto-il-lungo-acquatico.

Il volo per Mosca parte con 40 minuti di ritardo o più, e da un nuovo gate. Questa serie di contrattempi ha comportato un’interessante coincidenza che però non ho nessuna voglia di raccontarvi. Andiamo oltre.

A bordo, un terribile sonno mi fa crollare con la testa sul finestrino e un rivolo di saliva di cui mi accorgo appena in tempo. Pranzo saltato. Amen. A parte la sfortuna dell’ultimo posto a metà cabina, cosa che mi impedisce di abbassare il sedile, sono comoda. Accanto a me nessuno e il signore passata la quarantina brizzolato con fede d’oro giallo lato corridoio è molto, molto educato. Legge Ken Follet dopo aver dato una rapida occhiata a la Repubblica. The niente male e due altre merendine. Sul sedile davanti si guarda su iPad “Wanted”. Quant’è bello Morgan Freeman? Parecchio. Però devo ammettere che anche James McAvoy ha un suo perché. Lo ammetto. Ammetto anche che qualche anno fa questo era praticamente l’unico genere d’uomini che mi piaceva sul serio: ero nella fase piccoli, belli e tormentati. Per fortuna ho smesso. È una fase dalla quale ogni donna occidentale dovrebbe uscire, secondo me.

Mosca. Banco transiti, altri controlli, breve attesa, ultimo imbarco. Sul volo per Hanoi Aeroflot tiene tantissimo a farci sapere ogni possibile dettaglio tecnico: come prendiamo quota, dove siamo, cosa succede esattissimamente ogni dieci minuti. Che ansia. Perché devo sapere tutte queste cose? Preferisco osservare russi e vietnamiti che attorno a me decidono di mostrarmi i calzini assieme a una serie di odori corporei che preferisco non identificare.

Tra frustranti tentativi di riposare, mangio cibo che credo venga considerato “internazionale” e mi dedico con molto impegno alla visione di film in inglese. Il massimo volume nelle cuffie monouso è così basso, in proporzione a quello di chissà che diamine dell’aereo, che l’osservazione di russi e vietnamiti è inevitabile. Sulla sinistra, dall’altro lato del corridoio, un ragazzone in calzini blu e vecchia borsa in cuoio beve continuamente coca corretta con whisky, o meglio whisky corretto con coca (le assistenti di volo ne sono divertite), a destra un paio di vietnamiti – dopo ripetuti tentativi di incastro – si separano (il primo passa alla fila davanti, il secondo mi sorride poggiando i piedi sul sedile accanto al mio).

Otto ore sono lunghe, per quanti film tu possa vedere quanti caffè bere quanti tentativi di lettura fare quanti sorrisi scambiare quanto cibo ingurgitare quanto sonno riuscire o non riuscire ad avere.

  • Fish or meat?
  • Fish, thanks.
  • You’re welcome.

Otto ore così, ed eccomi. Eccomi finalmente ad Hanoi.

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