Autore: Loredana De Vitis

una delle tavole della mostra foto-poetica "we care" della scrittrice Diana Agámez e della fotografa Luisa Machacón

chi cura chi?

Sabato 4 novembre 2023 alle 12 chiuderò un capitolo e ne aprirò un altro. Concretamente, e pure simbolicamente, il passaggio sarà segnato da fotografie e parole. Quelle che hanno dato vita, o meglio una delle vite, a “We care”, una mostra, un progetto della scrittrice Diana Agámez e della fotografa Luisa Machacón, una riflessione fotografica e letteraria che parla di corpi ed erotismo femminile attraverso la narrazione della relazione tra una nonna e una nipote, Francisca “Pacha” Florez de Pájaro e Diana Agámez, tessuta in un quartiere di periferia di Cartagena de Indias, in Colombia.

Per chi è a Lecce o ci passerà, la mostra sarà visitabile fino al 18 novembre negli spazi del Centro sociale di viale Roma, su iniziativa di “Alice e le altre” con Collettiva edizioni. Periferia, direbbero alcuni. Se non fosse che Lecce è piccola e questa idea di periferia mi fa sorridere. Ma sì, in qualche modo è periferia. Per luogo, per contenuti. Un centro sociale per persone “anziane”. Parliamone. O meglio: ve ne voglio parlare.

Mi chiamo Loredana De Vitis e sono la curatrice di questa mostra. Di questa “edizione” di “We care”. Ma che dici? Che scrivi?, forse chiederete. Ecco, ho iniziato così per “posizionarmi”, come ho imparato a fare, per dire da dove parto. Ho 45 anni, vivo a Lecce, sono una scrittora, scrivo insomma in varie forme affermando di farlo a partire dal fatto d’essere – di identificarmi con – una donna. Cosa vuol dire lo ri-stabilisco ogni giorno, e non da sola.

Pensando alla mia esperienza finora e alla parola “cura”, l’associazione di idee illumina la scena della mia vita portando come su un palco un figlio, alcuni gatti e gatte, alcune relazioni significative, almeno tre eventi che si definirebbero “problemi di salute”, la morte di mio nonno, le storie e la quotidianità di donne per me importantissime, che hanno segnato la mia di storia, e la storia del mondo in cui vivo anche ora. Tra le quali, dallo scorso anno, c’è anche Diana Agámez.

Ho conosciuto “We care” proprio a Lecce nel 2022, nel corso di “Conversazioni sul futuro”: Diana era in città perché tra le vincitrici del concorso nazionale “Lingua madre”, che da tempo trova spazio in questo importante festival della mia città. Avevo amato subito il suo racconto “Il mio corpo: un luogo felice”, capace di delicatezza e chiarezza, con le sue parole nitide, nette, con la sua capacità di dire molto con poche immagini, di dirlo a me a partire da un’altra vita, un altro luogo, un’altra storia. Saputo della mostra, ascoltata Diana, guardate le immagini, quel racconto si è dissolto in un flusso di pensieri di cui non ho più saputo distinguere l’origine. Sentivo che io e Diana eravamo definitivamente connesse.

Ho lavorato anni fa, con la scrittura e con immagini del mio corpo, per un progetto che ho chiamato “io sono bellissima”, un progetto sostenuto da molte donne che – a partire da un lavoro collettivo – voleva suggerire la necessità di superare gli stereotipi della “bellezza” a partire da sé. A
partire da un’idea di bellezza che non separa il corpo dalla mente, dal cuore, dalle viscere, dai pensieri, dalle azioni. Quel progetto ha diversi punti in comune con questo, tra i quali anche l’aver lavorato con una fotografa “amica”, sorella direi [Susanna Tornesello, parlo di te].

È un grande impegno mettere in gioco il proprio corpo, assumere su di sé il rischio (la certezza) del giudizio altrui essendo programmaticamente allo stesso tempo coinvolte e distaccate. È un lavoro politico. Necessario.
Sono passati diversi anni, e questo per me non è più quel tempo, il tempo di quel mio corpo e di quel lavoro. Questo è il tempo di proporre – grazie ad “Alice e le altre” e a Collettiva – un altro lavoro politico che considero indispensabile, come avevo considerato il mio: il lavoro di questa mostra, nata dalla disponibilità di Diana e di Luisa Machacón di unire le foto originariamente realizzate al testo di Diana, fino a farne un’opera “foto-poetica”, in cui poesia e immagini sono simbiotiche.

“Non è un paese per vecchie” scriveva Loredana Lipperini alcuni anni fa. Non è nemmeno un paese per giovani, mi sono detta varie volte, e oggi mi chiedo per chi è questo paese, per chi è questo mondo. Per niente e nessuno, mi vien da rispondere, ma poi penso a Collettiva e guardo “We care” e mi dico che questo è il paese, il mondo, il luogo e il tempo di narrare, come lo è sempre stato. Narrare difficoltà e bellezza, narrare per ridare complessità. E provare a cambiarlo, questo mondo.

Insomma, un anno fa ho conosciuto Diana Agámez, ho incontrato le sue parole, mi sono immersa nelle immagini che con Luisa Machacón aveva realizzato e le ho fatto la più intima delle domande: ti va di lavorare insieme perché “We care” divenga un progetto condiviso? Ed eccoci qua.

Perché considero “We care” un importante lavoro politico?

Perché parla del rapporto inter-generazionale tra persone anziane e persone giovani, alcune delle quali svolgono un “lavoro” di cura che oltrepassa l’idea di “lavoro”: la mostra mette a tema, in modo sfaccettato, la natura multipla di queste relazioni, caratterizzate da sentimenti contrastanti, dall’attaccamento al desiderio di fuga, dall’amore alla fatica.

Perché le autrici sono originarie dell’America Latina e oggi vivono in Europa: possiamo attraverso il loro sguardo narrare storie che oltrepassano nostri confini, che li rendono permeabili, e così saltare fuori dal nostro stagno, pur bello e confortevole, e crescere come essere umani.

Perché la mostra, pur toccando “temi che scaturiscono da rilevanti trasformazioni demografiche e sociali contemporanee” – come recita la scheda ufficiale – nulla cede sul piano dell’autenticità artistica. Non c’è “tecnica” per comunicare un messaggio, c’è narrazione pura. Sui corpi delle
donne nessuno stereotipo, nessun “aggiustamento” per compiacere un gusto ormai sempre più plasmato dagli strumenti digitali. Questi corpi, queste persone, queste donne sono protagoniste. In sé, per sé.

Queste donne sono protagoniste come ho immaginato possano essere tutte le persone che vedranno la mostra, a partire da me. Protagoniste nel riappropriarsi della capacità e del potere di narrare. Nel raccontare i corpi che cambiano, le storie delle relazioni, di ciò che invecchia continuando a desiderare.

A Lecce dal 4 al 18 novembre 2023 la mostra foto-poetica “We care”

Per tutte queste ragioni e per altre che troveremo assieme l’idea di ambientarla in un “centro sociale”, uno spazio che ci ha accolto e per il quale mi sento grata. Una proposta fatta al Comune di Lecce e accolta dall’Assessora al Welfare e alle Pari opportunità Silvia Miglietta. Un’idea politica cui tenevo particolarmente. Perché in questo luogo possiamo incontrare persone che mai avremmo potuto, e portare persone che mai avrebbero visto e saputo. Così vogliamo rimettere a tema il legame tra tre parole: genere, azioni e generazioni, e così magari, tra non molto, pubblicare un nuovo libro denso delle nostre storie. È quello che desidero di più ora, dopo aver realizzato il desiderio di portare a Lecce questa mostra, e in una “versione” che fino a qualche mese fa non esisteva, e che ora invece esiste ed è anche nostra. Se avete storie da raccontare, scrivetemi, o scrivete a Collettiva.

Ringrazio ancora Diana Agámez e Luisa Machacón per aver accettato di lavorare assieme, tessendo una nuova relazione artistica e umana. Silvia Miglietta e il suo gruppo di lavoro per l’ascolto, la sensibilità, l’impegno. Daniela Finocchi, che ha ideato Lingua madre, per aver iniziato anni fa la sua tessitura e per portarla avanti con entusiasmo instancabile. E soprattutto grazie alla redazione di Collettiva, per aver voluto aver cura di questo progetto, per osservare, leggere e scrivere ogni giorno e per costruire ogni minuto, per tutto ciò di cui è capace, che non smette di destare la mia meraviglia.

Parte di questo testo è inserito nel catalogo della mostra (32 pagine a colori, grafica di Roberta Cleopazzo), disponibile a richiesta scrivendo a Collettiva.

un incontro “personale” con Lea Barletti

avvertenza: in questo testo ho inserito numerosi riferimenti a cose/luoghi/persone che do per scontati, confido nella semplicità con cui si cerca su google

Seguo Lea Barletti come autrice. Autrice di testi, testi teatrali, testi narrativi, autrice di testi anche quando li recita. Non so distinguere le sue messe in scena dalla sua scrittura. Nei giorni scorsi ho visto a Lecce “Autodiffamazione”, “Parla, Clitemnestra!”, “Monologo della Buona Madre” e “Ashes to Ashes”, quattro spettacoli in tre giorni firmati dalla compagnia sua e di Werner Waas: attualmente vivono a Berlino e sono tornati brevemente qui, dove anni fa hanno tra l’altro contribuito a fondare le Manifatture Knos, per una “personale” al Teatro Koreja. La parola “personale” non l’ho scelta io, ma è mia l’associazione immediata con una mostra d’arte. E questa tre giorni per me lo è stata. Ecco perché.

Barletti/Waas lavora sulla parola-in-relazione, e su questo concetto costruisce l’universo del suo teatro: recitato, scene, costumi, musica. “Un discorso sul mondo” lo chiamano: «Non ci interessa parlare di noi, ci interessa parlare attraverso di noi, attraverso i nostri corpi, le nostre lingue, del mondo», scrivono per presentarsi, «Ci interessano testi attraverso i quali rendere possibile questo discorso, ci interessa farci portatori e testimoni di quei testi, essere strumento del testo e al contempo usare il testo come strumento».

ph. Luciano Onza

Autodiffamazione

Autodiffamazione parte da un testo di Peter Handke [peraltro co-autore della sceneggiatura de “Il cielo sopra Berlino”, credo uno dei miei film preferiti, ma non è rilevante – mi rendo conto]: lo ha scritto a 24 anni, 57 anni fa, Barletti e Waas l’hanno in parte ri-tradotto in italiano, considerando inefficace la traduzione più nota, e lo portano in scena da dieci anni. Circa ottanta le repliche. Entrano in scena nudi eccetto che per due dettagli: lei porta scarpe con tacchi alti, lui un cappello. Poi si vestono e continuano ad auto-diffamarsi parlando in due lingue, ciascuno nella sua lingua madre – italiano e tedesco, ciascuna delle due lingue viene alternativamente sovratitolata. Si auto-accusano di cose piccole, minuscole, di cose che diventano colpe anche se non lo sono, di cose che abbiamo fatto tutti/e o che, se non abbiamo fatto, ci riguardano lo stesso. Impressionante, per me, la scelta di tradurre un passaggio con l’espressione “ho violato il lockdown”. Ecco, in quel momento l’abbattimento del “confine” tra generi, tra attori e spettatori, tra passato e presente per me è stato totale. Passano i minuti e ti scordi che sei lì per osservare e ascoltare, sul palco ci sei salita, parli in italiano, parli in tedesco, sei donna, sei uomo, sei un/a vivente qualsiasi e in questa generalizzazione c’è tutta la bellezza e tutto il dramma della condizione umana. Alfa e omega dello spettacolo [e della vita, no?] sono in questa affermazione: “Io sono venuto al mondo”. In un breve dialogo col pubblico dopo lo spettacolo, Waas ha osservato: «L’io è sopravvalutato, e senza le regole resterebbe ben poco», rivelando un grande lavoro umano e artistico a partire da Handke. E poi Barletti: «(L’autodiffamazione) è un metodo, un congegno per pensare».

ph. Luciano Onza

Parla, Clitemnestra! Un’eterna tragedia in versi

Un congegno a mio parere chiaro anche in Parla, Clitemnestra! Un’eterna tragedia in versi, scritto da Lea Barletti, portato in scena assieme a Gabriele Benedetti, regia Barletti/Waas. Barletti-Clitemnestra accanto a Benedetti-Agamennone sul palco, pelle dipinta di bianco e coperta di panni bianchi, è un’icona: la sua scrittura si fonde con gesti e voce per ri-narrare il personaggio classico della moglie fedifraga e assassina e poi della madre assassinata. Una nuova storia si costruisce letteralmente illuminata dal pubblico, e quindi narrata anche in questa “relazione”: in 90 circondiamo la scena, quattro di noi illuminano i personaggi con piccole torce e sottolineano dettagli, creano ombre, ci condizionano, ci irritano a volte. Da principio Barletti-Clitemnestra parla lentamente, si “poggia” su ogni parola, la sottolinea muovendosi piano, rivendica una storia di dolore giocando coi registri. Il testo è in rima, “una gabbia che libera” la definisce l’autrice, alleggerisce il peso di una storia conosciuta eppure mai narrata. Poi la lingua e i gesti man mano di sciolgono, dal passato si giunge al presente, a quello di molte donne violate, a quello di tutte le donne che aderiscono coscienti o incoscienti a schemi dell’essere e dell’agire. Beh, da questa dinamica Agamennone – le cui colpe sono chiare, evidenti, ribadite – non esce come unico colpevole. Perché gli schemi reggono finché l’uno si regge sull’altro, finché si sostengono a vicenda, finché si gioca quel gioco che si conosce fin troppo bene e in cui è facile sentirsi, paradossalmente, al sicuro.

ph. Luciano Onza

Monologo della Buona Madre

In Monologo della Buona Madre il gioco dentro-fuori dagli schemi arriva al suo picco. Scritto e interpretato da Lea Barletti, regia Barletti/Waas, è punteggiato dalle musiche originali – perfette – di Luca Canciello. Chi parla in questo monologo? La donna, l’autrice, l’attrice? Che domande sono? Cosa significano? Nulla, zero. Quello che importa per me è l’energia che ti resta.

Cosa so fare io? So fare dolci, si chiede e si risponde Barletti-BuonaMadre, abito nero, tacchi, mani sulle ginocchia, seduta ad almeno tre metri da terra come una statua: sul piedistallo la scritta “Buona Madre, tecniche e materiali misti”. Waas passa tra gli spettatori offrendo biscotti e a me vengono in mente tanti dei dolci e biscotti postati da Barletti su Facebook. Mi viene in mente soprattutto il post per uno dei compleanni di uno dei loro figli [Hanno fatto due figli, insieme, scrivono sul loro sito]: una torta a forma di morte nera. Miodio, difficilissimo, avevo pensato.

[Continuo adesso col ricordo dello spettacolo, a braccio].

Cosa ho insegnato ai miei figli? A cucinare il sugo? Quello lo potevano imparare a fare anche da soli, come ho fatto io. Mi sono venute in mente le prime settimane, densissime, della mia esperienza di madre. Leggevo, leggevo molto [non mi ricordo però né quando né come], soprattutto cose che mi hanno aiutata a capire che tipo di madre non “volevo” essere, ma “sentivo” di essere. Non perfetta, questo no, nemmeno mi importava. Ma “abbastanza buona”, questo sì. Abbastanza. Coi miei limiti. Che mi danno grande bellezza, che mi rendono unica. Barletti-BuonaMadre scrive ed è questo il suo lascito perfetto. La gabbia della perfezione è la stessa del bisogno di sentirsi amata, ma per amarsi bisogna essere liberi, o almeno aspirare a esserlo, nei continui aggiustamenti del quotidiano. Liberi di dirsi le cose, dirle a sé e dirle agli altri. In certi passaggi dolorosi del monologo un pensiero leggero mi ha attraversata: lascia perdere, questa è una sciocchezza, una fesseria, lascia perdere, non è importante. A chi lo dicevo? Lo dicevo a me stessa, senza alcun dubbio.

«Il teatro è l’unica cosa che so fare», ha detto Barletti dopo lo spettacolo. Io avrei detto scrivere, ma non cambia niente. È abbastanza. È più che abbastanza.

ph. Paolo Costantini

Ashes to Ashes

La personale si è chiusa con la prima nazionale di Ashes to Ashes, cenere alla cenere, scritto da Lea Barletti, in scena Werner Waas, regia Barletti/Waas e, anche in questo caso, le ottime musiche originali di Luca Canciello. Il teatro è denso di fumo, prodotto all’inizio anche dal cappello del personaggio-pagliaccio-uomo-automa che percorre il palco a due e quattro zampe, che impugna un microfono e una banana, che siede tra il pubblico, che esce ed entra ricordandoci che la terra è in fiamme. Che tutto diventa cenere mentre discutiamo della pasta che scuoce, che brucia tutto fuori e anche dentro di noi. Brucia la nostra capacità di pensare, di agire, di decidere, di preoccuparci davvero di ciò che ci circonda, di distinguere il vero dal falso, il reale dall’immaginato. Torna pure l’ironia che però, questa volta, invece che alleggerire ci fa sprofondare nella disperazione. Li ho odiati, a un certo punto, per avermi costretta a ripensare all’impotenza che sento e che, a volte, non mi ha fatto dormire. Io voglio dormire, non voglio tornare a ricordare quanto ogni piccolo gesto può essere influente su ciò che accade al pianeta che mi fa vivere e al quale sono debitrice.

Parole politiche, insomma, programmaticamente proposte per richiamare al pensiero. Pensate, persone!, pensate. Come tutto il teatro, direte. Forse. Non ne sono sicura. Mi piace il fatto che Barletti/Waas non dia risposte, che faccia solo domande.

[pausa]

Ho chiesto a Lea Barletti di leggere questo testo e di rispondere a tre domande. Eccole.

io e Lea Barletti nel 2012 [link in fondo per altre info]

Tre domande a Lea Barletti

Ho provato a immaginarmi come e dove scrivi, è una questione che quasi mi ossessiona da quando mi sono resa conto che, anche avendo “una stanza tutta per sé”, questa non è sufficiente: perché devi avere anche il tempo e la calma di abitarla, quella stanza. Dopo aver letto i tuoi racconti in “Libro dei dispersi e dei ritornati” (Musicaos 2018), scritti a partire da foto trovate per caso, e questa immersione nella vostra personale a Lecce, vorrei proprio saperlo: dove e come scrivi? La domanda anela a una risposta che nutre aspettative verso la tua capacità di raccontare la materialità della vita senza perdere l’astrazione.

La prima “scrittura” la faccio per lo più in mente. Camminando all’aperto, possibilmente in luoghi vasti (ma mi adatto, l’importante è che si veda il cielo). Mi piace camminare, quasi quanto detesto invece andare in bicicletta. Esco e cammino, a volte anche per diversi chilometri. I pensieri, le parole, le frasi, seguono il ritmo del corpo in movimento e del respiro e ad un certo punto non c’è più distinzione tra parole e corpo, tra pensiero e movimento. Soprattutto molti testi in versi sono nati così. La mia è una scrittura che nasce soprattutto dal corpo, come se le sillabe o le parole si appoggiassero sul movimento e viceversa. Il ritmo, in questo senso, è in qualche modo più importante del senso. È il ritmo che guida, e nasce dal corpo.

Poi, a casa, trascrivo al computer quello che mi ricordo. A volte purtroppo alcune cose vanno perdute, ma pazienza, quelle fondamentali restano, come inscritte nella memoria del corpo. Trascrivendole, quindi ri-pensandole, possono cambiare, spesso scopro altre cose, è un procedimento vivo, non cerco di “fermarle” sulla carta, cerco piuttosto di continuare a sentirne  il movimento. A casa, più classicamente, scrivo al tavolo della cucina. Alla mia sinistra c’è la finestra che da sul giardino. Questo mi aiuta a vincere una leggera forma di claustrofobia: devo sempre avere la possibilità di vedere un pezzo di cielo, proprio come quando cammino. Ma anche al computer, è una questione di ritmo: anche qui è il ritmo, con il movimento e il rumore delle dita sui tasti, che mi guida.

Nei tuoi testi le parole mi paiono pesate [letteralmente], anche se non mancano la velocità e un certo… effetto “spontaneità”. È così? Perché?

Sì, in scena le parole sono pesate, perché le penso o ri-penso, dunque le peso, ogni volta che le pronuncio. È quasi lo stesso procedimento di “trascrizione” che faccio quando passo dal testo “pensato” a quello scritto, cercando di ascoltare il movimento delle parole e di trascriverlo. A loro volta, poi, le parole che ho scritto, passando nuovamente per il corpo per essere pronunciate sulla scena, vengono ri-pensate e ri-pesate e in questo modo ri-scoperte ogni volta diverse, nuove. E assumono un nuovo ritmo, un nuovo movimento, un nuovo senso, a volte vicino a quello che le ha originate, come delle “variazioni”, a volte stravolgendolo in una nuova visone. Le parole per me sono porte che si aprono su possibilità ogni volta diverse, e queste possibilità si rivelano solo se do loro la possibilità di rivelarsi, solo se mi pongo, io per prima, come autrice e come attrice, in una posizione di ascolto. Le parole sono vive, anche quelle scritte, perché leggendole, pensandole, ascoltandole e  dicendole rivelano sempre qualcosa di nuovo. Leggendo, lo stesso processo lo facciamo, da lettori, nella mente. O almeno: da lettori “attivi”. E lo stesso avviene negli spettatori. L’attore è in questo senso un tramite del testo, l’attore ascolta e lascia agire dentro di sé  il testo che arriva vivo allo spettatore che a suo volta lo ascolta e lascia agire dentro di sé e lo restituisce, con il suo ascolto, sguardo, presenza, all’attore. E così via. Il teatro è per me un pensare insieme, un circolo virtuoso.

Ho letto sul vostro sito un testo di Werner a proposito di Autodiffamazione. Dice: All’inizio c’era l’entusiasmo di Lea, sempre di nuovo quel suo entusiasmo! per La notte della Morava. E poi c’era quel suo pluriennale insistere, ossessivo, ininterrotto, perché tirassi fuori un testo, un progetto sul quale lavorare e scappare così dalle contingenze quotidiane e dal vuoto che ci stava per inghiottire. In fondo non avevamo più fatto nulla di veramente degno di nota dalla nostra Anarchia in Baviera due anni prima. Io non avevo voglia di fare niente, non avevo nessun’idea in grado di mettere in moto qualcosa e assistevo impotente allo sgretolarsi del nostro rapporto.

Assistere alla vostra personale è stato anche un viaggio intimo, mi sono sentita destinataria del racconto di un’intimità condivisa, ché l’arte è il massimo dell’intimo possibile credo. Convergono nei tuoi testi, prodotti e resi in scena dalla vostra compagnia, fatti privati e questioni pubbliche senza che si possa distinguere una linea di confine. O c’è? In un caso e nell’altro, cosa c’è di confortevole e cosa di complesso nel vostro lavoro comune?

Su molte, moltissime, cose ci capiamo al volo. Abbiamo un vocabolario in comune. Ci fidiamo l’uno dell’altra, contiamo sulla reciproca capacità di ascolto e restituzione. Siamo come “allenati” a pensare insieme. E questo è confortevole e complesso allo stesso tempo.

Poi, come tutte le coppie artistiche e/o di vita, discutiamo, e anche litighiamo, spesso. Ma solo fuori dalla scena. In scena no, mai. In scena l’accordo, l’ascolto, il dialogo sono quasi sempre perfetti, il canale di comunicazione è aperto e sgombro da ostacoli, il maggiore dei quali è il proprio e altrui ego. In scena cerchiamo per quanto possibile di tenere l’ego da parte. Nella vita, come per tutti, a volte è più difficile, a volte il canale si chiude, l’ego si mette in mezzo e impedisce il vero reciproco ascolto, e quindi il dialogo. Forse in questo caso la vita avrebbe qualcosa da imparare dall’arte? Con Werner crediamo che un attore debba essere trasparente, e la trasparenza è possibile solo se l’ego non si mette per traverso impedendo allo spettatore di “vedere”, ATTRAVERSO l’attore, la propria storia, fare il proprio percorso, la propria esperienza. Ecco questo è quello che intendiamo noi per “fare teatro”: la possibilità di un dialogo. E perché ciò avvenga tra noi e gli spettatori, questo dialogo, vivo, attivo, deve avvenire innanzitutto all’interno di noi e tra di noi.

Per saperne di più sulla compagnia Barletti/Waas: https://barlettiwaas.eu/

una cosa che ho fatto con Lea Barletti

in copertina: Monologo della buona madre, ph. Luciano Onza

il metodo Liguori

“Il metodo Aquilani” è l’ultimo romanzo di Elisabetta Liguori, ma non si legge. Si ascolta soltanto. La storia è stata scritta – fin dal principio – per essere ascoltata, ed è uscita [per ora] solo su Storytel, nota piattaforma di audiolibri, podcast ed ebook. Ho cominciato ad ascoltarla un sabato mattina, a colazione, cercando di liberare la mente e il cuore dalle aspettative: Elisabetta è un’amica, più di un’amica [siamo assieme “dentro” l’editrice indipendente Collettiva ed è una delle persone che per prima ha saputo delle mie idee per Orlando, per intenderci], e avevo seguito anche se indirettamente la gestazione, l’entusiasmo e i dubbi di questo lavoro. Ho continuato ad ascoltare “Il metodo Aquilani” camminando, ho finito di ascoltarlo – credo – davanti allo specchio una domenica mattina.

Non sono mai riuscita a distrarmi, non ho potuto che tendere attentamente le orecchie a questa storia evidentemente ispirata al caso Francesco Bellomo. Mi colpisce che la recensione inizialmente più severa su Storytel [“Assolutamente inverosimile. Va bene l’invenzione letteraria, ma alla sospensione dell’incredulità c’è un limite”], sia finita con “Non conoscevo la vicenda. Vero che la realtà supera la fantasia. Mi spiace che non ci sia la possibilità di cambiare le recensioni”. All’ascoltatrice era stato suggerito, da un’altra utente, di cercare su internet i termini “dress code magistratura”. Se “Francesco Bellomo” non vi dice niente, fate anche voi questa prova.

La sinossi ufficiale esordisce così:
A Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato a Roma, è arrivato un esposto contro il magistrato Primo Aquilani. Un giovane magistrato alle primissime armi viene incaricato di redigere la relazione disciplinare sugli inquietanti corsi di formazione tenuti dal collega messo sotto accusa, che sembrano essere stati la causa della tragica morte della figlia dell’autore dell’esposto.

Elisabetta Liguori vive a Lecce [foto scattata in un pomeriggio piovoso]

Il romanzo mi ha colpito così tanto [le ragioni nelle prossime righe] che ho chiesto a Elisabetta di parlarne con me per scriverne qui, sul blog. La ringrazio di aver risposto a tutte le domande, svelandoci un po’ di sé e della sua scrittura, parlandoci un po’ del… “metodo Liguori”.

“Caso Francesco Bellomo”, dicevo. Elisabetta Liguori, cosa ti ha colpita della vicenda e perché hai deciso di tirarne fuori un romanzo? Quale il confine tra fatti e invenzione?

Il caso è stato la scintilla d’innesco per la mia storia. Mi colpì moltissimo, quando ne venni a conoscenza, proprio per il suo grande potenziale narrativo. Toccava tasti dolentissimi: la mancanza di futuro per i nostri giovani laureati, la fragilità emotiva che si nasconde dietro l’arte della seduzione, la capacità di immaginare mondi dove mondi non ci sono, i confini inafferrabili della manipolazione psicologica, la misura di ciò che siamo davvero disposti a fare per realizzare i nostri sogni. E, ovviamente, i giochi segreti nei palazzi del potere. Ho deciso di esplorare quei temi trasformandoli in fiction, perché non conosco altro modo per comprendere ciò che mi affascina e m’interroga.

Dal tuo lavoro quotidiano mi pare emergano anche altre ispirazioni per l’invenzione: la conoscenza della magistratura, ovviamente, ma anche le dinamiche dell’adozione. Come hai fatto convivere i tuoi saperi tecnici e le esigenze narrative?

Nelle scuole di scrittura americane viene chiamata expertice e non se ne può fare a meno. La conoscenza tecnica e concreta di ciò che vuoi raccontare, infatti, è un ottimo punto di partenza. Forse lo strumento che rende una scrittrice o uno scrittore più sicuri e saldi nel proprio mestiere. Per questa ragione, dopo aver scelto la forma del romanzo, ho cercato di mettere nella mia cassetta degli attrezzi ciò che, per lavoro, per esperienze professionali o per puro caso, conosco meglio. Da venticinque anni dirigo il Tribunale per i Minori di Lecce, un ambiente di provincia, soggetto a regole rigide posto al centro di un mondo difficile e vero; qui ne ho viste e ascoltate tante di storie come queste. È stato molto facile per me, quindi, far convivere sapere tecnico ed esigenze narrative; sarebbe stato più difficile se non avessi potuto farlo. Quello che volevo raccontare era la verità di tutti, la verità possibile. Nelle opere di fiction, di solito ci si spinge ben aldilà dei meri fatti di cronaca ed è esattamente ciò che ho fatto anche io, partendo dal dato reale a me noto per poi giocare con le probabilità, con il what if, spingendomi fin dove la mia mente riusciva a spingersi, senza mai perdere di vista la verità. Le cose nella realtà non sono ovviamente andate come ho le raccontate, ma sarebbe senza dubbio potuto accadere.

Elisabetta Liguori davanti al Tribunale per i Minori di Lecce, dove lavora

La storia nasce per essere ascoltata, a me sembra evidente dall’andamento della narrazione. Il protagonista conduce chi ascolta nei meandri dei suoi pensieri e sentimenti, goccia a goccia a volte. A tratti mi sono quasi sentita in imbarazzo, nell’entrare nella sua intimità. Sono certa che è anche conseguenza dell’efficacia della voce, in ogni caso la tua bravura di narratrice era nota e questa prova lo evidenzia ulteriormente. Quali sono le differenze tra scrivere per la carta e scrivere per l’audio?

Le differenze sono tante, ma non tantissime. Sicuramente nel caso di un romanzo letto a voce alta il rapporto con il lettore/ascoltatore deve essere oggetto di una cura più attenta e puntuale. La storia viene sussurrata direttamente nelle sue orecchie, parla alla sua pancia, produce suoni che devono restare nella sua mente e, possibilmente, creare una forma dolce di dipendenza. Il nemico è l’abbandono, il sonno, la mente che vaga altrove, la distrazione, lo sganciamento. Per questo scopo esistono tutta una serie di strumenti tecnici quali il cliffhanger [interruzione brusca in corrispondenza di un colpo di scena, ndr], la tenuta dei dialoghi, le durata delle pause descrittive, i respiri, il recapping, per acchiappare l’ascoltatore. Si tratta di ausili di scrittura tecnica che, diversamente dall’ispirazione letteraria, lo stile o la visione dell’autore, possono essere insegnati e dunque appresi. Ciò detto, il resto non cambia: si scrive per amore, per necessità, per rabbia, che sia fatto a voce alta o sulla pagina, le domande, le motivazioni, la sofferenza, la fatica, l’ostinazione e la gioia vitale di chi scrive sono le medesime.

Come è stato sentire la storia letta da un uomo? Nel leggerla e rileggerla, durante la stesura, te la immaginavi così?

Ascoltare il mio personaggio mi ha dato i brividi. Non avevo immaginato nulla di specifico prima, ma so di aver molto desiderato. Desideravo ascoltare il giovane uomo tormentato a cui aveva dato vita, mentre parlava, pensava e si muoveva nello spazio. Nello stesso tempo avevo molta paura di lui, come il dr. Frankenstein della sua creatura. In verità, ne ho ancora molta.

Come hai lavorato sul personaggio principale? Ci racconti qualcosa dell’immedesimazione che, immagino, sia stata da parte tua necessaria?

Credo di aver conosciuto personalmente il giovane magistrato, protagonista della mia storia, anzi credo di averne incontrati molti come lui tra i miei coetanei. Individui irrisolti, schiacciati dal bisogno di arrivare ed essere riconosciuti attraverso lo sguardo altrui, emancipandosi da modelli sociali o famigliari castranti o fortemente idealizzati. Il mio è un eroe che crede di intraprendere un certo tipo di viaggio, invece si ritrova a farne uno del tutto diverso, nella direzione opposta. Un eroe attratto dalla propria ombra che, come sempre accade in questi casi, pur essendo un uomo mi somiglia molto.

Per darvi un’idea della “voce” del protagonista, ecco un passaggio del romanzo:

Perché Aquilani aveva scelto la guerra di Antonino tra tutte le altre guerre possibili, con le quali far colpo sui suoi allievi? Non contava quanto fosse saldo il sistema fondato da Aquilani, la sua inattaccabilità, la sua immoralità, la forza delle sue costruzioni, era sempre nel singolo che si celava l’anello debole. Lui aveva scelto di raccontare quell’anello debole. Una sola persona capace d’inceppare un intero meccanismo. Sapevo quanto fosse importante, lo sapevo perché già molte volte, in altri contesti, in altri momenti, era stato io quell’anello. Ero stato anche io un bambino pieno di domande, un erede infelice con l’insana abitudine di complicare ogni cosa. Era stata l’infelicità a rendermi complesso e dunque vulnerabile, ma potenzialmente infinito. L’infelicità accelera il pensiero, lo rende imprudente, vischioso. Gli infelici hanno radici umide, che rammollano e infettano il terreno, possono distruggere le piante più vigorose. L’infelicità libera gli ormoni. Gli infelici sono anelli deboli. E Aquilani era infelice. Per la miseria, se lo era, nonostante il suo enorme successo. Talmente infelice da poter narrare la parabola che dall’infelicità porta alla felicità come nessun altro.

Un’altra sensazione provata nell’ascolto è stata quella di… soffocamento. La storia è capace di calarci in un ambiente (come tanti, certo, ma non cambia la sensazione) fatto di ipocrisie, non detti, caste chiuse per ceto ed età (non continuo). L’ambiente, lo sfondo, ci viene sempre dalle parole in prima persona del protagonista. Come hai lavorato sulla differenziazione tra “primo piano” e “scena”, considerato che tutto doveva essere narrato solo a voce?

Quello descritto è l’ambiente che il protagonista crede di conoscere meglio, perché ci è nato dentro. Si tratta dello stesso ambiente del padre, infatti. Le sue descrizioni, dunque, sono autentiche, tangibili, tattili, ma mentre nella prima parte del romanzo sono filtrate dal desiderio e dal senso di appartenenza, gradualmente cambiano colore. Quando il protagonista è costretto ad attribuire al suo mondo, e ai suoi abitanti, moventi inediti e imprevisti, al suo desiderio si aggiunge lo stupore. Lentamente subentra la vergogna, intesa come emozione secondaria, che deriva cioè proprio dalla scoperta di essere dissimili dal gruppo sociale a cui si credeva di appartenere o a cui si desiderava appartenere.

La scrittura di questa storia ha un’origine laboratoriale, giusto? Ci racconti qualcosa di questa esperienza?

Durante la stesura di questo testo, ho avuto la fortuna d’incontrare un editor molto abile, Leonardo Patrignani: è stato lui a fornirmi gli strumenti tecnici specifici di cui ti parlavo, strumenti che io non utilizzavo abitualmente. Leonardo ha giocato con me, mi ha messo sotto pressione, ha lottato in un costante corpo a corpo con i miei personaggi, mi ha provocato, ha rotto molti dei pattern che tendevo a ripetere scrivendo, aprendo scenari alternativi. Questa cosa ha funzionato, soprattutto poiché si trattava di un testo lungo e articolato in episodi, per il quale era necessario sforzarsi di tenere sempre alta la tensione narrativa e resistere.

Elisabetta Liguori ha scritto qui “Il metodo Aquilani”

Cosa desidereresti per questa storia? Un destino sulla carta te lo auguri?

Oh, sì, assolutamente sì. Datemi la carta, vi prego, non posso farne a meno. Un eroe che non finisce anche sulla carta non può durare per sempre.

Non voglio svelare il finale, ma te lo chiedo: amor vincit omnia?

No, non credo purtroppo, credo che la verità sia più forte dell’amore, ma neanche quella vince su tutto.

Francesco Bellomo è stato di recente assolto dalle accuse di stalking e molestie. Rispondimi solo se vuoi: le sentenze stabiliscono la verità o rispondono semplicemente a codici interpretabili?

Non c’è nulla di più difficile da provare in un processo della manipolazione, del plagio, e quella di Bellomo è stata una storia di manipolazione. Dal mio punto di vista, ovviamente solo dal mio, resta più interessante capire come sia stato possibile, e come lo sia ancora, che degli individui preparati, intelligenti, colti, maturi, in perfetta salute, abbiano potuto accettare, e forse ancora oggi accettino, metodi di studio e di lavoro tanto manipolatori. Questa, in sintesi, è la domanda che mi ha spinto a scrivere un’opera di totale fantasia come è “Il metodo Aquilani”.

Elisabetta Liguori ha scritto anche “Il credito dell’imbianchino” (Argo), in cinquina al premio Berto, “Il correttore” (Pequod), “La felicità del testimone” (Manni); cura laboratori di scrittura e lettura creativa, è responsabile della collana Le sagge per Collettiva edizioni indipendenti.

Il suo profilo Instagram: @elisabetta.liguori68

scrivere con altri tratti

Copertine e disegni nei libri sono al servizio della scrittura? Ne abbiamo discusso con Collettiva, l’editrice indipendente dei miei il posto di dio e amori in cottura e la risposta è stata: no. L’illustrazione è una forma d’arte che non “serve”, ma dialoga con chi scrive. A distanza di un anno dalla piccola rassegna “Scrivere con altri tratti. Illustrare secondo Collettiva”, vi ripropongo i video dei tre incontri che abbiamo organizzato online a cura mia e di Simona De Carlo.

Gli incontri si sono aperti con Paolo Fellico e Cristina Carlà, il primo autore dell’illustrazione di copertina di “Animula” di Mercedes Capone (Collettiva, 2019); la seconda autrice de “il colore delle cose fragili” (Collettiva, 2019), che ha scelto per l’illustrazione di copertina un’opera di Valeria Puzzovio. Due ruoli diversi, due sensibilità che si toccano, due copertine che si parlano. Questo è il video integrale dell’incontro.

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rassegna “Scrivere con altri tratti”: Paolo Fellico e Cristina Carlà dialogano con Loredana De Vitis e Simona De Carlo

Un secondo incontro ha riguardato la collana Orlando, che ho ideato e curato per Collettiva e nella quale il dialogo con l’illustrazione ha un ruolo centrale. Ne abbiamo parlato con Fabiola Berton e Roberta Ranieri, illustratrici con cui ho lavorato rispettivamente per “il posto di dio” e “amori in cottura”. Sono due artiste con le quali lavorare è stato fonte di ricchezza e bellezza. Ecco qualche ulteriore spunto, nel video integrale dell’incontro.

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rassegna “Scrivere con altri tratti”: Fabiola Berton e Roberta Ranieri dialogano con Loredana De Vitis e Simona De Carlo

Con Stefania “Anarkikka” Spanò abbiamo scelto di chiudere la rassegna: nota “illustrAutrice”, vignettista e copywriter femminista, ha firmato “Smettete di farci la festa” (People, 2021) ed è l’autrice della copertina e delle illustrazioni del recente “Stai zitta” di Michela Murgia (Einaudi, 2021). Con lei abbiamo parlato del legame imprescinbile tra arte e politica. Ecco il video integrale.

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rassegna “Scrivere con altri tratti”: Stefania Anarkikka Spanò dialoga con Loredana De Vitis e Simona De Carlo

Roberta Ranieri: l’illustratrice perfetta per “amori in cottura”

Desideravo che le parole s’intrecciassero poeticamente con i segni grafici, mantenendo una forte identità narrativa e tuttavia non prevalendovi. Desideravo che le pagine scorressero in equilibrio evidente tra storie e immagini, in un mix di profondità e leggerezza, di ironia e romanticismo non artefatto. Desideravo che i luoghi descritti e illustrati fossero allo stesso tempo fisici e del cuore. Lavorando con Roberta Ranieri ho realizzato questi desideri, mettendo al mondo l’edizione illustrata di “amori in cottura”: così la mia raccolta di racconti nata del 2015 è finalmente in libreria, grazie alla collaborazione con l’editrice indipendente Collettiva, nella sua versione definitiva. Di questa bravissima artista voglio raccontarvi di più.

Ho “scoperto” Roberta Ranieri grazie a Sabrina Barbante, una grande amica ma soprattutto un’eccellente “blogger & blogging coach”. Descrivendole la mia idea per la raccolta, il nome di Roberta è venuto fuori in quella che mi è apparsa una magia.

Classe 1994, cresciuta a Bari, Ranieri racconta per immagini “ciò che più la ispira: la Puglia, il mondo del cibo e dell’infanzia”. Si vede, e si sente: ne ho amato subito lo stile, e poi l’attenzione, la cura nella relazione con le mie parole, la capacità di ascolto e l’autonomia nel lavoro. Come per me, la Puglia per Roberta non è un limite, ma un punto di partenza. Come per me, la tenacia nel proporre autoproduzioni e idee è associata a un senso del proprio sé e delle proprie capacità molto forte. In pratica, ho trovato artisticamente una delle mie anime gemelle. Come detto, è una magia.

Su Instagram e Facebook si fa chiamare “qualcosa di erre” e io voglio presentarvela a partire da questo, con il suo aiuto.

Roberta, definisci “qualcosa di erre”: quel “qualcosa” è una parte di te, del tuo lavoro, dei tuoi interessi? Che cos’altro tiene fuori?

Ho scelto questo nome nel 2017 un po’ per gioco, un po’ perché è il primo passo che fai quando vuoi ritagliarti uno spazio sul web. Ciò che trovo bellissimo è che continua a significare tanto per me ancora oggi: non ho mai voluto etichettarmi, ma poter condividere le tante sfaccettature di me. Mostrare chi sono, quali sono i retroscena del mio lavoro e tutte le mie passioni, dalla cucina alla fotografia, dalla cancelleria all’hand lettering. Chi sceglie di entrare nel mio mondo sa che troverà tutto questo e anche un pizzico del mio caotico e sensibile modo di essere. Cosa rimane fuori? I miei timori e insicurezze, l’antipaticissima sindrome dell’impostore che accompagna tanti di noi creativi e la mia vita privata che svelo in piccole pillole.

Cosa hai pensato quando ti ho proposto di illustrare “amori in cottura”? Cosa ti ha fatto accettare la proposta?

Ho pensato sin da subito che fosse la congiunzione perfetta di due aspetti che amo e ricerco in tutta quella che è la mia quotidianità: le relazioni umane e la cucina. Come illustratrice l’ambito in cui mi sento più ispirata è quello del cibo, che per me sta per accoglienza, cura, famiglia. Dall’altro lato, da inguaribile romantica, sono stata subito catturata dai racconti e dalla tua penna, tanto che durante la prima lettura sono nate in me molte delle immagini che hanno poi preso vita nei mesi successivi. Una volta che ho capito che “amori in cottura” era una vera coccola per cuore e palato non ho potuto che accettare!

Le illustrazioni realizzate da Roberta non sono la fedele riproposizione dei racconti in altra forma, sono una finestra su un immaginario che si può fare proprio: mescolano personaggi, posti, situazioni e li restituiscono con pennellate che, alla fine della lettura, trovano piena comprensione.

Raccontaci come ci hai lavorato.

Inizialmente mi sono concentrata tanto sui testi, per andare più in profondità e capire quello che volevo comunicare. Solo dopo aver analizzato tutte le storie, le caratteristiche dei personaggi e degli ambienti, ho cominciato a disegnare. Ho usato l’acquerello mixato al disegno digitale per evocare situazioni, sensazioni, aggiungendo anche elementi che si intrecciano tra loro, come se tutte queste storie d’amore alla fin fine si svolgessero in un universo e tempo comune. Ecco perché ogni immagine si rivela nella sua totalità solo una volta completata la lettura del libro.

Roberta Ranieri

Torniamo a parlare di te. Come sei arrivata a essere la creativa che sei oggi?

Tutti gli strumenti creativi hanno sempre fatto parte della mia vita, sin da piccolissima. Già da appena sveglia a colazione avevo sempre in mano una penna, disegnavo ovunque. Era quasi un bisogno fisico quello di scarabocchiare, colorare, creare. Con gli studi poi ho abbandonato questa strada pensando che il mio futuro fosse altrove, non avevo mai valutato l’idea che potesse diventare qualcosa in più o addirittura un lavoro.
Una volta terminata la triennale in Scienze della Comunicazione, in un momento di vuoto e confusione sul “che cosa voglio fare davvero da grande”, mi sono rifugiata in quello che dopotutto mi aveva sempre fatto star bene: il disegno. Da quel momento non ho mai più smesso. In realtà è successo tutto molto spontaneamente, non l’ho percepita come una decisione ma come se la vita mi avesse rimesso davanti la strada che avevo fatto finta di non vedere per troppo tempo.

Che consigli daresti a chi avesse voglia di lavorare nell’illustrazione?

Consiglio di studiare e disegnare tanto, almeno un’ora ogni giorno o almeno ogni volta che si può. Di mettersi in gioco il più possibile, di sperimentare e cercare pian piano la propria voce, la propria unicità. Il percorso non è affatto semplice e per niente immediato, ma non esiste niente di più bello dell’imparare e in questo lavoro lo si fa in continuazione.

Loredana De Vitis, amori in cottura, Collettiva edizioni 2021, copertina

amori in cottura

In questi giorni torno felicemente in libreria con “amori in cottura”: si tratta di una raccolta di racconti che ho pubblicato per la prima volta nel 2015 su una piattaforma italiana di self-publishing con il titolo “amori in cottura. 15 ricette per quello che dura”. Presentata al concorso nazionale “Il mio esordio” di quell’anno, ha vinto un premio come “miglior libro di racconti”, e soprattutto ha avuto modo di essere conosciuta da lettrici e lettori che non smetterò mai di ringraziare.

Considero quella appena uscita l’edizione “definitiva”. Per tre motivi.

Il primo. È meravigliosamente illustrata: lavorare con Roberta Ranieri mi ha permesso di proporre un gusto nuovo per queste storie, leggero e articolato come piace a me. Mi ha permesso di farne, oltre che un libro, un’opera. E un quaderno e un regalo.

Il secondo. Contiene tre nuovi racconti scritti a partire da storie che, nel corso delle presentazioni della prima edizione, mi sono state raccontate col desiderio che divenissero parte di questo progetto. Sono sempre grata a chi sceglie di affidarmi un pezzo della propria vita perché lo metta su carta, dandomi carta bianca.

Il terzo. È la seconda pubblicazione della collana “Orlando”, che ho ideato e proposto a Collettiva edizioni: un’editrice femminista, plurale, radicata, nella quale sento rispettato e condiviso prima di ogni altra cosa il mio lavoro creativo.

Per comprare il libro e sostere il progetto: https://py.pl/8iw8ivHSqcy

Loredana De Vitis pianta una quercia vallonea dedicata a "il posto di dio" nella Foresta urbana a Lecce; nell'immagine assieme a Serena Gatto, Simona Cleopazzo e Teresa Musca di Collettiva edizioni indipendenti

una quercia vallonea per “il posto di dio”

La produzione e la stampa di un libro, come ogni attività umana, comporta un impatto sull’ambiente. Per questa ragione ho voluto piantare un albero speciale – una quercia vallonea – per compensare simbolicamente l’impronta ecologica lasciata dalla stampa delle prime copie del mio romanzo “il posto di dio”.

L’ho fatto nella “Foresta urbana” curata, a Lecce, dal WWF Salento: ex cave di pietra leccese per anni abbandonate, divenute un affascinante parco cittadino grazie all’impegno dei volontari.

Ringrazio per questo il WWF Salento e mio padre Vittorio, che ne è il presidente ma soprattutto la persona cui devo di più anche per questo mio essere tenacemente ambientalista. E grazie infinite all’editrice Collettiva per aver appoggiato e sostenuto questo mio desiderio.

Mi sono ripromessa di piantare una nuova quercia per ogni ristampa del romanzo. Sono certa che si tratta di un’idea che mi porterà fortuna.

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Per saperne di più sulla foresta urbana: www.forestaurbanalecce.it 

Fabiola Berton a lavoro sulle illustrazioni per il romanzo di Loredana De Vitis "il posto di dio" (Collettiva edizioni indipendenti, collana Orlando)

Fabiola Berton: l’illustratrice pícara de “il posto di dio”

La copertina del mio nuovo romanzo il posto di dio è il risultato di un desiderio e di una scelta. Fin dal momento dell’ideazione della collana Orlando, a lavoro con l’editrice Collettiva, ho spiegato che volevo farne un atelier, un posto dove la scrittura potesse incontrare [e dialogare con] altre forme di espressione e d’arte. Per “il posto di dio” questo incontro è stato con Fabiola Berton, un’artista di grande talento che mi ha fatto conoscere mio marito Davide.

Nata nel 1983 in Venezuela, laureata in Arti visive, Fabiola Berton è specializzata in 2D e 3D come concept artist, character & background designer, lighting artist, modellazione, texturing, motion graphics, graphic design e art direction. Tra le altre cose, ha lavorato come “artista delle luci e dei colori IB chiave” in Klaus. Lo avete visto? Questo è il trailer.

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Fabiola si definisce in modo semplice, secco, un’artista, e in questa definizione fa confluire le sue passioni e i suoi studi, che si spingono all’agopuntura, all’interior design e allo yoga. Della copertina e delle illustrazioni interne che avevo in mente per il romanzo ho discusso con lei via e-mail, skype e whatsapp, scrutando dal mio schermo la sua finestra sull’Irlanda [attualmente vive a Kilkenny]. Mi aveva molto attratto un suo disegno di Edimburgo su ArtStation, e a quel gioco di luci le ho chiesto di ispirarsi. Fabiola ha letto il testo e ha camminato con me per la strade della mia città attraverso le mie foto, alcuni miei video e qualche strategico link su google maps.

Del concept di copertina mi ha spiegato:

In primo piano c’è Marta e, nella sua testa, il centro storico di Lecce delineato dalla sagoma della chiesa di San Paolo [nel romanzo è inventata, ndr]: un invito a entrare nella mente della protagonista per vivere la sua storia e, allo stesso tempo, per immaginare un immenso campo di possibilità. Una strada che incuriosisce, che sembra non finire, e che propone a chi la guarda di pedalare su una piccola bicicletta o di passeggiare attorno al posto di dio. Ho lavorato perché l’immedesimazione fosse intuitiva, perché l’immagine potesse parlare al mondo in altre lingue.

la copertina del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, con un'illustrazione di Fabiola Berton

Ho visto prima uno schizzo in bianco e nero, poi una prima prova col colore. Sono bastati pochi minuti di confronto per arrivare al risultato finale. Bellissimo, ho detto. Ho chiesto a Fabiola se qualcosa del libro l’avesse colpita in particolare. Mi ha risposto che ne ha amato la picardía. Che cosa vuoi dire?, ho insistito [non conosco lo spagnolo]. E lei: è piccante, è… frizzante.

Hai un modo molto dettagliato di descrivere sia i personaggi che le situazioni. Questo ti fa entrare nella storia, essere non solo un lettore ma vivere i personaggi, essere parte stessa di una storia che, probabilmente, tutti abbiamo vissuto anche se in modi diversi. Il romanzo è audacemente divertente, pícaro e ben scritto, femminile e lunare.

Fabiola, che cosa significa per te essere un’artista?

Penso che in qualche modo siamo tutti artisti. Abbiamo tutti questa particolare sensibilità che, in un modo o nell’altro, ci fa esprimere in modo originale e creativo. Ognuno di noi si esprime nel suo essere unico, particolare.

Sei, come me, amante della natura. Anzi, più che amante.

La natura è mia madre, la mia maestra. Se ci torniamo, potremo vivere davvero.

Quando hai cominciato a dipingere?

A 6 mesi avevo già a portata di mano il mio giocattolo preferito: una penna. Dipingevo tutto quello che incontravo, da me stessa al solito foglio di carta.

particolare dell'illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo "il ballo di santa Lucia", all'interno del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021
particolare dell’illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo “il ballo di santa Lucia”, all’interno del romanzo “il posto di dio” di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021

Ma come e quando hai deciso che il disegno sarebbe diventato il tuo lavoro?

Penso che non sia stata una decisione, ma una chiamata. È quello che sono venuta a fare. Credo che la vita, se la lasci fare e la ascolti attentamente, ti fornisce mappe personalizzate, ti mette lungo i percorsi migliori per te. Devi solo avere il coraggio di percorrerli.

Mi hai detto di aver camminato attraverso molte terre con lingue e culture diverse. Dove hai vissuto? Quali sono i tuoi luoghi del cuore?

Ho vissuto in tanti posti: Venezuela, Italia, Spagna, Irlanda. Sono diventati tutti luoghi del cuore, poiché ne ho ricevuto accoglienza e ho dato loro quello che sono o quello che mi hanno chiesto. Siamo cresciuti assieme, una parte di loro è rimasta in me e io ho lasciato una parte di me in loro.

Quali sono le tue tecniche predilette?

Gli acquerelli e l’arte digitale, per il momento. Lavoro molto anche con la fotografia, poiché sono appassionata di luce.

Quali sono i lavori che, fino a oggi, ti è piaciuto di più realizzare?

Tutte le mie opere portano in sé qualcosa della mia anima. Ognuna mi ha insegnato qualcosa, mi ha dato la possibilità di esplorazione e di incontro con me stessa e il messaggio che voglio comunicare. Il mio lavoro preferito è quello che sto facendo in quel momento.

particolare dell'illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo "viaggio ad Assisi", all'interno del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021
particolare dell’illustrazione di Fabiola Berton per il capitolo “viaggio ad Assisi”, all’interno del romanzo “il posto di dio” di Loredana De Vitis, Collettiva edizioni 2021

Dover lavorare con me, cioè in qualche modo non essere completamente libera di interpretare il mio romanzo, è stato un limite o uno stimolo in più?

È stato davvero stimolante lavorare con te, Loredana. È stato meraviglioso il modo che abbiamo trovato per descrivere la tua esigenza di stampare l’anima del libro in immagini evocative. Le immagini permetteranno a chi legge di navigare tra le storie, sia attraverso i colori della copertina che nell’avventura delicata, elegante e monocromatica delle illustrazioni interne che, all’improvviso, si aprono come finestre permettendo di vedere una parte dell’avventura.
Devo dire che lo stile del libro è molto più adulto di quello che sviluppo come stile personale, ma l’ho trovato artistico ed elegante. Mi ha portato alla mia parte più artistica di espressione evocativa.

Quali sono state le difficoltà principali incontrate nel tuo percorso?

Di solito non definisco i piccoli ciottoli della strada come difficoltà, penso che siano semplicemente piccole scorciatoie che portano al vero sentiero. Ringrazio tutte le apparenti “difficoltà”, perché da loro si impara a camminare saldamente dalla parte giusta.

Cosa consiglieresti a una giovane donna che volesse intraprendere la tua stessa strada?

Connettiti con te stessa, con la tua vera parte artistica, connettiti con il tuo messaggio e comunicalo al mondo in modo gioioso, vivace, rinnovato. Il mondo ha bisogno di messaggi ben pronunciati, le immagini sono sempre state i migliori driver, le migliori parole, il miglior linguaggio. Usalo sapendo che possiedi un grande potere e un grande potere è una grande responsabilità. Lungo la strada ricordati di sorridere, goditela e prenditi il tempo per esplorare il silenzio, il vuoto. Svuotati in modo da poter essere riempita di chi sei veramente.

Julia Musariri medica in Zimbabwe: «Decisivo l’empowerment delle ragazze»

Julia Musariri è una medica e una manager sanitaria la cui tenacia e determinazione sono state essenziali perché il St Albert’s hospital restasse un solido punto di riferimento in una delle aree più complesse dello Zimbabwe (Africa meridionale). Parliamo della provincia rurale del Mashonaland Central, 200 chilometri a nord della capitale Harare, caratterizzata da profonda povertà e un alto tasso di violenza di genere e abusi sui minori. La dottoressa Musariri è la prima delle cinque “Women in Zimbabwe” che vogliamo presentare: una donna che, grazie ad altre donne, ha compreso e saputo sviluppare il proprio potenziale, e che è ora convinta che l’empowerment delle ragazze sia l’azione chiave perché lo Zimbabwe possa progredire.

di Eleonora Aralla e Loredana De Vitis
immagini per gentile concessione di Julia Musariri, commentate di suo pugno

Nata in una famiglia di agricoltori nella missione cattolica di Monte Cassino a Macheke, Musariri è stata prima un’insegnante, poi un’infermiera, per raggiungere infine l’obiettivo di diventare una medica. Oggi il suo lavoro va ben al di là dell’esercizio della professione. Come ci ha spiegato, il St Albert è un district hospital, «il governo paga gli stipendi del personale, fornisce alcune medicine e finanzia una parte delle spese di gestione dell’ospedale», ma lei si occupa – oltre che della pianificazione e dello sviluppo di programmi di prevenzione – di amministrazione e di fundraising (per l’acquisto di medicine, carburante, forniture alimentari, biancheria, strumentazione, ambulanze, personale, attrezzature per i progetti sia sanitari che agricoli), di supervisionare lo staff, di progetti clinici e di ideare azioni per ottenere ulteriori introiti necessari. Inoltre è consulente della Diocesi «su questioni di salute e per la formulazione e lo sviluppo di politiche anti-HIV per l’intero territorio».

La Diocesi in questione è quella di Chinhoyi. Musariri fa parte della AFMM“Associazione Femminile Medico Missionaria”, all’interno della “International Medical Association”. L’associazione venne fondata in Italia nel 1954 da Adele Pignatelli, una medica romana che faceva parte del “Movimento dei laureati cattolici”, con il supporto di Monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI. Chi entra a far parte dell’associazione fa voto di obbedienza, povertà, castità e vita missionaria. Proprio l’incontro con alcune donne della AFMM ha dato a Musariri il la per cominciare il suo percorso.

immagine per gentile concessione di Julia Musariri, commentata di suo pugno

«All’età di 17 anni non avevo mai visto un medico, solo una suora infermiera al dispensario, che conosceva come fare molte procedure. Un giorno nella nostra missione arrivarono due suore, venute solo per migliorare il loro inglese. Mi fu detto che erano destinate all’“All Souls Mission Hospital” per lavorare come infermiere, erano missionarie. Avrebbero lavorato con le dottoresse che erano già lì: Luisa Maria Guidotti, Mariaelena Pezzarezzi e Maria Grazia Buggiani, e con suor Caterina Savini, che era infermiera. Erano della AFMM».

Siamo alla fine degli anni 1960. Di famiglia d’antica origine nobiliare, Luisa Guidotti (Mistrali) si era laureata in Medicina e specializzata in Radiologia; dopo essersi unita alla AFMM fu inviata in Rhodesia, l’attuale Zimbabwe. Nel 1965 la minoranza bianca aveva deciso unilateralmente di dichiarare l’indipendenza dal Regno Unito, dando il via alla guerra civile. Nel 1969 Guidotti aveva cominciato a lavorare all’ospedale “All Souls” a Mutoko, area rurale a nord-ovest di Harare. Qui aveva anche raccolto fondi tra gli amici italiani per trasformare l’ospedale da un insieme di capanne a una struttura di mattoni.  

«Queste donne, che avevano lasciato le loro confortevoli case perché desideravano servire la mia gente, mi affascinarono. Al tempo frequentavo la prima superiore, con voti medi. Delle due missionarie persi a lungo le tracce. Tra il 1972 e il 1974, studiai allo United College of Education per diventare insegnante di scuola primaria. Dopo aver completato il corso col massimo dei voti cominciai a lavorare in una scuola mixed race a Esigodini in Matabeleland, dove la maggior parte degli studenti aveva alle spalle storie di abusi in famiglia. C’era un gruppo particolare di bambini che faceva dispetti alle insegnanti. Un bambino coloured [meticcio, ndr] – si chiamava Heath – continuava a disturbare il resto della classe, dicendo “chi mi ha dato la mia maleducazione, mia mamma nera o mio papà bianco?”. Un giorno strappò alcune pagine dal suo quaderno dei compiti e da quello di un compagno. Mi arrabbiai molto. Lo punii così severamente che, da quel momento, il ragazzo fu molto spaventato persino a starmi vicino. Gli chiesi scusa, ma non bastò per recuperare la relazione tra noi. Mi dissi che quello non era il mestiere per me».

Il termine “coloured” in Zimbabwe fa riferimento a una categoria razziale che stava ‘tra’ bianchi e neri, in termini economici, politici e sociali. Essere di razza mista, nella cultura coloniale, significava incarnare la temuta ‘mescolanza’ [1] che sfida i confini tra le razze. Fino all’inizio del Ventunesimo secolo, la proporzione tra uomini bianchi e donne bianche nella colonia britannica era di tre a uno, il che rappresentava un problema in termini di relazioni sessuali: queste divennero presto interrazziali, e le donne nere venivano spesso abusate dagli uomini bianchi.

Vista attraverso la lente razzista della società coloniale, la sessualità depravata delle donne africane provocava gli uomini. La colpa degli abusi era, quindi, attribuita alle donne. Un bambino coloured nasceva per questo con un grosso peso sulle spalle, i bambini coloured non avevano praticamente alcun posto nella società: troppo bianchi per essere neri, troppo neri per essere bianchi. La frase del piccolo Heath lo esprime in poche, accurate, beffarde parole.
Deve essere stato difficile per un’insegnante giovane e inesperta come Musariri affrontare i complessi sottesi conflitti di quel genere di classe: si trovava a dover affrontare sfide ben al di là di qualunque formazione ricevuta.

«Ho sempre voluto diventare infermiera, anche se i miei genitori non ne erano entusiasti. Mi dicevano “Le uniformi sono bianche e pulite, ma il lavoro è molto sporco. Dietro le apparenze, le infermiere sono donne moralmente depravate”. Comunque, nonostante l’opposizione dei miei, decisi di candidarmi a un corso per infermiere».

Nel pieno della guerra civile, nel giugno 1976, Luisa Guidotti Mistrali venne arrestata dalla polizia rhodesiana per aver curato un presunto guerrigliero e rischiò l’esecuzione, evitata anche grazie alle pressioni del Vaticano. Ma il 6 luglio 1979, tornando dal Nyadiri hospital, dove aveva accompagnato una donna con un travaglio complicato, venne fermata a un posto di blocco a Lot e ferita a morte. Anni dopo, nel 1983, le è stato intitolato l’ospedale All Souls e, su iniziativa della Diocesi di Harare, avviato il processo di beatificazione.

«Fu una tragedia. La povera gente di Mutoko aveva perso l’unico dottore che la capiva e se ne prendeva cura appassionatamente. Decisi che volevo far parte dell’AFMM, per poter servire i malati come faceva lei. L’“All Souls” era irraggiungibile a causa della guerra in corso. Le lettere indirizzate a Luisa furono portate a Roma dalla dottoressa Elizabeth Tarira e dalla dottoressa Rosalba Sangiorgi. Tra queste, anche la mia. Nel frattempo avevo abbandonato l’insegnamento e avevo iniziato il programma di formazione per diventare infermiera presso l’Harare Central Hospital, ora Sally Mugabe Hospital. Nel settembre 1979 ricevetti la loro risposta. Diceva solamente: “Se sei sempre dello stesso avviso, vieni a Roma”. Lasciai il programma e partii per Roma, nonostante avessi avuto risultati eccellenti agli esami sostenuti fino a quel momento. Decisi di andare a Roma per per far parte dell’AFMM nel 1980, il 3 marzo. A casa erano euforici, tutti avevano votato per la prima volta e l’indipendenza dalla Gran Bretagna era alle porte». 

Musariri giunse così all’ospedale San Giovanni in Laterano. Tre mesi più tardi capiva e parlava un italiano-base.

«A Roma incontrai la fondatrice. Mi disse che le sarebbe piaciuto che entrassi a Medicina, ma rifiutai, perciò mi mandò alla scuola d’infermeria. Dopo tre anni, passai gli esami a pieni voti. Nel 1985 tornai in Zimbabwe per lavorare in vari ospedali missionari; passai solo un breve periodo al St Albert’s nel 1985 prima di andare all’ospedale missionario di Chitsungo. Fare l’infermiera mi dava grande soddisfazione, ma mi mancava qualcosa: la capacità di aiutare le madri con travagli complicati. Non potevo effettuare tagli cesarei e dovevamo trasferire tutti i casi di travaglio con complicazioni all’Harare Central Hospital. Nel 1992, poco prima di andare in ferie, fui invitata a Roma dalla dottoressa Adele, che mi suggerì nuovamente di studiare Medicina. Questa volta accettai. Ero più grande di qualunque altro studente all’Università di Tor Vergata. Mi iscrissi all’esame d’accesso. Tra mille e più candidati, l’università poteva accettarne solo 150. Controllai i risultati sulla bacheca. Ero la numero 152, ma alcuni studenti rinunciarono. Perciò fui chiamata e così iniziai la mia formazione per diventare medica».

Ci sono state difficoltà dovute al fatto d’essere una donna?

«In passato la medicina era considerata una carriera maschile. Nella nostra società patriarcale è ancora comune che si pensi ad alcune professioni come esclusivamente maschili. La medicina è una di queste. Tuttavia incontrare le mediche dell’AFMM aveva avuto su di me una profonda influenza, e mi aveva spinta a pensare che donne e uomini avessero le stesse opportunità. Mi avevano spronata ad affrontare le difficoltà linguistiche, culturali, le lunghe ore di viaggio verso l’Università, gli inverni freddi e le estati umide. Fu un esperienza che mi cambiò la vita, modificando completamente il mio modo di pensare. Mi piacerebbe che succedesse lo stesso ai genitori di molte ragazze. Oggi ho la possibilità di educare persone giovani a perseguire i propri sogni. Il cielo non è più il confine, possiamo andare oltre. È possibile, per le donne, fare meglio di chiunque altro».

Il Mashonaland Central, dov’è collocato il St Albert, è un vero e proprio hotspot per la cosiddetta Sexual & Gender Based Violence (SGBV). I dati dello studio “Extended Analysis of Multiple Indicator Cluster Survey (MICS) 2014: Child Protection, Child Marriage and Attitudes towards Violence” riportano il Mashonaland Central come la zona con la più alta percentuale di donne (50%) tra i 20 e 24 anni sposate prima dei 18 anni.

I servizi sanitari e sociali nell’area sono limitati, e la percentuale di abbandono scolastico molto alta. Lo studio, in particolare per le ragazze, non è considerato una priorità, dal momento che nella cultura tradizionale il ruolo di una donna è essenzialmente subordinato e di cura. La povertà generalizzata e l’insicurezza alimentare contribuiscono a esacerbare la situazione; i bambini, specialmente le bambine, sono costretti ad abbandonare presto gli studi e spesso a cominciare a lavorare, perché le famiglie non possono affrontare i costi delle tasse scolastiche. Le credenze arcaiche, ancora profondamente radicate, aggravano ulteriormente il quadro: il benessere dei bambini non è una priorità, e spesso sono vittime di incuria e abusi.

Il CAFOD, l’organizzazione per cui lavora Eleonora, supporta il St Albert da 14 anni, ed è attualmente partner dell’ospedale nel programma Putting Children First (ora nella quarta fase di implementazione), che utilizza fondi messi a disposizione da Caritas Australia e dal governo australiano; gli interventi mirano al miglioramento della protezione dei diritti dell’infanzia. Uno degli obiettivi principali del programma è quello di avere un’influenza positiva sul comportamento delle famiglie e della comunità, sfidando le credenze e le pratiche come i matrimoni precoci attraverso la diffusione della conoscenza e della consapevolezza sulla violenza di genere, le dinamiche di genere, la genitorialità positiva e i metodi alternativi alle punizioni fisiche. Si lavora principalmente con i genitori dei bambini più piccoli, ma anche con i membri della comunità più in generale. Le famiglie sono inoltre incoraggiate a utilizzare i propri introiti per far studiare i bambini e soprattutto le bambine, le prime ad abbandonare la scuola a causa delle gravidanze precoci oppure semplicemente quando il denaro per le tasse scolastiche non c’è. 

Per una ragazza in Zimbabwe, specialmente in quest’area, dove a volte si deve combattere anche soltanto per avere più di un pasto al giorno, compiere 18 anni senza aver avuto una gravidanza e avendo completato il ciclo di studi secondario è già un risultato.

immagine per gentile concessione di Julia Musariri, commentata di suo pugno

Come è stato studiare Medicina in Italia?

«Entrai a Medicina all’età di 29 anni. Dieci anni più grande di qualunque altro studente, ragazzi che erano appena usciti dalle superiori. Non c’era da meravigliarsi che mi chiedessero cosa avessi fatto fino a quel momento. Gli italiani sono pazienti con chi sta imparando la loro lingua. La mia prima amica si chiamava Sonia, una ragazza coi capelli rossi e le lentiggini, espansiva e sempre pronta ad aiutare. Lei mi presentò alle sue cinque amiche: Flavia, due Monica e due Roberta; mi adottarono nel loro gruppo, condividevano sempre gli appunti con me. Non sentii il tanto temuto isolamento né la segregazione. Lavorai sodo per ottenere la laurea nei sei anni previsti. Avevo voti medi, ma la cosa non m’impensieriva. L’importante per me era poter tornare e prestare servizio alle moltissime donne e ai bambini che non avevano mai visto un medico nella missione. Pensavo che se giovani persone dotate come Luisa Guidotti, che veniva da una famiglia agiata, potevano lasciare le comodità della propria casa per venire nello Zimbabwe rurale a prendersi cura dei nostri malati, perché io non potevo fare altrettanto? Mi laureai il 13 aprile 2001. Tornai in Zimbabwe per fare il tirocinio presso l’Harare Central Hospital. Completati i due anni, fui mandata al St Albert’s».

il giorno della laurea in Medicina, immagine per gentile concessione di Julia Musariri

Finalmente, Musariri divenne medica.

«Finalmente prestavo servizio come medica. Ero in grado di effettuare operazioni chirurgiche, specialmente tagli cesarei. Non avevo più bisogno di trasferire pazienti con complicazioni ad Harare. La dottoressa Neela Naha, una ginecologa specializzata in ostetricia, mi preparò alla gestione di casi complessi. Alcune colleghe, mentre ero in Italia, mi avevano consigliato di sposarmi, prendere la cittadinanza italiana e rimanere. Ma la verità è che io non scambierei ciò che ho con nient’altro. Oggi sono ancora al St Albert’s, mi occupo dei pazienti ambulatoriali, mentre i dottori più giovani si dedicano alle operazioni chirurgiche a al resto del lavoro. La Diocesi di Chinhoyi mi ha chiesto di diventare la coordinatrice dei loro ospedali, e sono la Sovrintendente Sanitaria del St Albert’s».

Il St Albert’s Mission Hospital è nato nel 1964 ed è gestito da suore domenicane. Aveva inizialmente 85 posti letto. Nel 1985 è divenuto un district hospital, e ora ha 140 letti; è al servizio di un’area con una popolazione è di circa 134.295 persone. Ogni anno ospita 5mila pazienti, ne cura 40mila e assiste la nascita di circa 2.600 bambini malgrado la limitata tecnologia disponibile. Nonostante innumerevoli difficoltà, l’ospedale fornisce farmaci antiretrovirali, porta avanti un programma di cure a domicilio per aiutare le famiglie a occuparsi di familiari disabili o con patologie croniche (soprattutto HIV) e paga le tasse scolastiche per centinaia di orfani. Per far fronte alla sempre crescente crisi economica e alla conseguente insicurezza alimentare, nel 2000 l’ospedale ha avviato un progetto di allevamento (capre, polli e maiali), in modo da provvedere ai pasti per i pazienti e, con il ricavato delle vendite del surplus, pagare i lavoratori del progetto.

Il suo lavoro deve essere davvero arduo in un contesto così difficile dal punto di vista economico e politico. 

«Da medici, abbiamo bisogno di tutti gli strumenti del mestiere per fornire le migliori soluzioni di cura ai malati. Ma guardare il nostro ospedale è demoralizzante, perché gli strumenti del mestiere sono obsoleti. I miei collaboratori e colleghi vorrebbero finalmente usare tecnologie digitali in tutti i campi. Ma in lavanderia la lavatrice e il rullo da stiro non funzionano più; il chirurgo si lamenta costantemente del macchinario per l’anestesia; nella camera mortuaria non si riescono nemmeno a conservare i cadaveri (per mancanza di elettricità, ndr). La lista è infinita. I molti benefattori che avevamo negli anni 2000 per i programmi a sostegno della prevenzione e cura dell‘HIV/AIDS sono passati ad altri distretti; le mediche dell’AFMM sono anziane e hanno bisogno di cure e non sono più in grado di raccogliere fondi come facevano in passato. Perciò continuiamo a utilizzare quello che qualunque altro dottore benintenzionato preferirebbe non usare, perché le nostre risorse non ci permettono di acquistare nuovi strumenti. Purtroppo abbiamo fatto troppo affidamento su fondi di donatori esterni, grazie alla presenza di missionarie espatriate dell’AFMM che lavoravano con noi, che potevano far conoscere e supportare la causa del St Albert’s. I loro parenti e amici raccoglievano fondi per il loro lavoro. È per questo che abbiamo ancora macchinari degli anni ’90».

E il COVID deve aver complicato ulteriormente le cose.

«L’effetto più immediato è stata una riduzione significativa del flusso di pazienti, in particolare donne in gravidanza, e il conseguente aumento di parti in casa, con tutti i rischi che questi comportano. Abbiamo dovuto chiudere gli ambulatori per far spazio a un piccolo reparto COVID, con quattro letti. Il reparto di Salute Infantile e Familiare e gli ambulatori al momento sono nello stesso spazio. I dispositivi di protezione personale, incluso le mascherine, i guanti e i grembiuli sono inadeguati e insufficienti; tuttavia noi cerchiamo di continuare a fornire il nostro servizio».

Il St Albert sembra avere una particolare attenzione per la salute delle donne: salute delle madri, screening per il cancro della cervice e del seno e altro. Si tratta di una scelta deliberata, strategica?

«Dopo aver notato la prevalenza di travagli con complicazioni, le dottoresse Elizabeth Tarira e Neela ebbero l’idea di migliorare la salute materna. Costruirono una casa maternità, che poteva ospitare fino a 45 donne in stato avanzato di gravidanza, ma presto dovettero estenderne la capacità a 105. Le donne potevano venire a stare vicino all’ospedale nelle ultime due o tre settimane, e avere così rapido accesso all’assistenza e alla sala operatoria in caso di bisogno, per assicurare il benessere sia della madre che del bambino. Nel distretto di Centenary c’erano giovani donne con fistole vescico-vaginali, tumori mammari e al collo dell’utero in stato avanzato; c’era bisogno di intervenire su tutti questi problemi. La prevenzione della trasmissione materno-infantile dell’HIV fu introdotta dalla dottoressa Tarira grazie al supporto dell’ONG italiana Cesvi di Bergamo, usando una dose singola di Nevirapina. Takunda, il primo bambino la cui madre si era offerta volontaria per l’assunzione di Nevirapina, nacque negativo all’HIV; adesso ha 20 anni. Quella fu una pietra miliare per il St Albert’s. La terapia tripla per le donne positive al virus fu introdotta nel 2004, e successivamente fu introdotto anche il trattamento per i loro partner. La dottoressa Neela si occupava dello screening per il cancro al collo dell’utero attraverso l’ispezione visiva con acido acetico; recentemente abbiamo anche aggiunto una microcamera, con l’aiuto di Darrell Ward e del dottore Lowell Schnipper della fondazione Better Healthcare for Africa, cosa che ha rappresentato un enorme passo avanti. Attualmente i programmi di screening per il tumore al seno e al collo dell’utero sono stati allargati dal governo a tutti i distretti».

La storia di Takunda (‘nato libero’ in shona, la più diffusa lingua bantu del paese) si può leggere qui: On the children’s side – Cesvi Onlus – Cooperazione e Sviluppo. Nel 2001 il Cesvi aveva appena iniziato a lavorare nella lotta all’AIDS proprio in Zimbabwe, uno dei paesi più colpiti. In quegli anni una donna su tre era HIV-positiva, e generalmente aveva possibilità di sopravvivenza molto scarse. Il Cesvi cominciò le sperimentazioni farmacologiche con la Nevirapina. La madre di Takunda fu sottoposta al trattamento e monitorata. Il 9 maggio 2001 Takunda nacque libero dall’AIDS. [2]

Ha mai pensato di cambiare mestiere?

«Il mio lavoro come medica in un ospedale missionario mi ha dato grandi soddisfazioni. Ci trovo Dio dentro. Altrimenti sarei stata una delle tante donne della mia età che si sono sposate da giovanissime e non hanno combinato nulla con la loro istruzione primaria o secondaria. Sono anche in debito con i miei genitori, che hanno sacrificato il loro tempo e il loro denaro per cercare di fare la differenza per i loro 13 figli. Dopo la pensione vorrei dedicarmi all’agricoltura. Ho dato vita a un progetto di allevamento di pollame per la produzione di uova, di pesce e capre, ho rimesso in piedi quello di maiali; ho piantato un’area di circa un ettaro con fagioli per la vendita, in modo da ottenere fondi, di cui l’ospedale ha estremo bisogno. Questi progetti sono in fase iniziale, ma sono ottimista».

In Zimbabwe le pensioni statali sono bassissime; nella maggior parte dei casi sono a malapena sufficienti a coprire i costi base della vita, vista la rampante inflazione. È molto comune che si faccia affidamento su piccoli introiti extra come i piccoli allevamenti di bestiame. Qualcosa che può apportare significativi miglioramenti della dieta quotidiana (uova, carne bianca, latte di capra – molto nutriente), come pure consentire vendite o scambi per guadagnare qualcosa. 

Julia Musariri a lavoro: immagine per gentile concessione del St Albert Hospital

Lei lavora quotidianamente in un contesto molto complesso; dal punto di osservazione di una lavoratrice in prima linea, quali sono le principali battaglie da combattere? Quelle che, una volta risolte, potrebbero avere a cascata ulteriori risultati positivi? 

«Sono convinta che, se lavoriamo sull’empowerment delle bambine possiamo fare molta strada. Le ragazze di oggi saranno madri domani, incaricate dell’educazione dei figli. E le professioniste del futuro. È doloroso vedere giovani ragazze divenire madri, a causa di diverse circostanze. I diritti dei bambini, specialmente delle bambine, sono lo snodo cruciale per raggiungere l’emancipazione delle donne africane e (e zimbabuane)». 

Se dovesse indicare qualcosa di importante da far conoscere del suo lavoro, quale sarebbe? C’è un piccolo progetto che possiamo contribuire a realizzare?

«Un progetto che potrebbe potenzialmente generare introiti ed essere sostenibile sarebbe l’allargamento dell’attuale allevamento ittico o di quello di pollame, i cui prodotti possono essere venduti – uova e pesce – e, con quel denaro, possiamo pagare alcune delle spese che non siamo in grado di coprire al momento. Dal punto di vista medico, abbiamo bisogno di un moderno monitor multiparametrico per la sala operatoria, specialmente per i tagli cesarei».

Donazioni possono essere inviate tramite bonifico bancario a:
Stanbic – Minerva Branch
account number 9140001107576
BIC-code: SBICZWHX
o attraverso Better Healthcare for Africa:
Donate to BHA – Better Healthcare for Africa
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[1]
The Chronicle, 12th February 2000
‘Joshua Cohen walks down memory lane’, Parade, August 1999.
Robert J.C. Young, Colonial Desire: Hybridity in Theory, Culture and Race, (Rutledge, London, 1995, p. 5)

[2]
On the children’s side – Cesvi Onlus – Cooperazione e Sviluppo
Mother and child | World news | The Guardian

la copertina del romanzo "il posto di dio" di Loredana De Vitis, con un'illustrazione di Fabiola Berton

il 25 aprile esce “il posto di dio”

Il mio nuovo romanzo esce, finalmente, il 25 aprile. Insomma ci siamo: da domenica prossima “il posto di dio” si potrà acquistare sul sito di Collettiva, nella stanza di Collettiva in via Giusti 24 a Lecce (aperta tutti i giorni dalle 15 alle 18) e a richiesta nelle librerie indipendenti. Con mia profonda emozione, apre le pubblicazioni della collana Orlando, che ho ideato e curo per e con Collettiva.

Un lungo percorso

Lavoro a “il posto di dio” dal luglio 2012, da quando su un quadernino intonso presi i primi appunti: le caratteristiche di uno dei personaggi maschili, i passaggi principali della sua vicenda sentimentale. Erano ispirati a una storia vera, che mi era stata raccontata camminando per le strade della mia città. C’è stato poi il dono di un carteggio. Un carteggio contemporaneo, fatto di messaggi su varie piattaforme, tutti salvati e stampati perché potessi leggerli e farne ciò che volevo.

Ho cominciato a scrivere, a riscrivere, a correggere, a salvare, a buttare. Ci sono state discese e salite, letture e riletture, cambi di scenari e di personaggi. Accompagnata, per un tratto, dalla ‘mia’ writing coach Alessandra Minervini [per saperne di più su questo passaggio, trovate quattro live sul mio profilo Instagram].

Quando ho considerato la stesura terminata, più o meno nel gennaio 2019, ho lavorato per la pubblicazione approdando felicemente a Collettiva. Nei due video che seguono vi racconto perché.

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Collettiva è non la “casa” ma la “stanza” editrice con cui esce “il posto di dio”. Con la scrittrice Elisabetta Liguori facciamo una breve introduzione al “metodo” Collettiva e a due delle attività dell’editrice.
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Collettiva è stata ideata dalla scrittrice e femminista Simona Cleopazzo: ve la presento.

Di cosa parla il posto di dio?

Siamo a Lecce, alla fine anni Ottanta. O meglio: il clima è quello di Lecce, l’atmosfera pure, ma tutti i luoghi del romanzo sono inventati. Per Marta, la protagonista, è tempo di cresima e di dubbi esistenziali. Come citato nella quarta di copertina:

Non essere vergine procurava a Marta un serissimo motivo per dubitare dell’opportunità di diventare soldatodicristo.

Mentre ne parla con la sua amica Lucia durante le prove del coro nella parrocchia di San Paolo, una vecchia statua di Gesù crocifisso perde un piede. È un segno?

A proposito di questa scena, che si sviluppa in apertura del romanzo e nel corso del primo capitolo, scrive Sara Maria Serafini, direttrice di Risme, dove l’incipit è stato pubblicato (numero 9, pagina 76, con un’illustrazione di Emanuele Simonelli):

Le confidenze struggenti e un po’ spinte legate al primo amore si
possono fare in chiesa? Loredana De Vitis ci dà la risposta esatta.

Da qui una giostra di eventi comincia il suo giro. Ci salgono zia Roberta, con cui Marta è cresciuta fin da piccolissima, orfana dei suoi; la vicina di casa Olga, che la ragazza vorrebbe come madrina, e il marito Giuseppe; il primo amore Riccardo, principale causa di quei dubbi; e una piccola folla di altri personaggi che s’affacciano man mano nella storia. Tra bugie, sotterfugi, confessioni ed epifanie, Marta troverà la strada prima di tutto per non tradire se stessa.

Una storia normale

A proposito de “il posto di dio”, Collettiva scrive che

Ci vuole un gran coraggio per descrivere la normalità, e l’autrice lo fa con la sua penna pungente e ironica e con la sua voce sempre riconoscibile.

e che

Attraverso Marta, l’autrice racconta donne che parlano il linguaggio diretto della normalità, nominandola senza finzione: pene, verginità, aborto. E uomini alle prese con le proprie debolezze e pulsioni, nominate senza vergogna: l’inutilità del celibato sacerdotale, il sapore del sesso di una donna.

per concludere che

Su tutto e tutti vibra luminosa l’autentica registrazione di ciò che accade ogni giorno sotto i nostri occhi.

Ogni volta che mi si chiede quanta realtà e quanta immaginazione ci sono nelle cose che scrivo, dico sempre che la realtà è di gran lunga più incredibile della fantasia. La mia immaginazione è un tentativo di avvicinarmi alla realtà.

La copertina e le illustrazioni

L’illustrazione di copertina e due illustrazioni interne, subito prima dei capitoli 6 – il ballo di santa Lucia – e 15 – viaggio ad Assisi – sono di Fabiola Berton.

La prima presentazione [online]

La prima presentazione [online, poi speriamo anche in una prima in presenza molto presto] è in programma sulla pagina Facebook di Collettiva sabato 24 aprile 2021 alle ore 19.30; con l’introduzione e il coordinamento di Teresa Musca, che fa parte della redazione di Collettiva, de il posto di dio discuteranno la travel blogger Sabrina Barbante e Luca Bandirali dell’Università del Salento.

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