per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (2/5)

Ed eccomi su un’altra ambulanza, velocissima verso Lecce alle quattro di notte. Allertata immediatamente Neurochirurgia dal medico giovane-alto-sicuro-di-sé, al mio arrivo era tutto pronto: mi ci hanno ricoverato letteralmente di corsa. In terapia sub-intensiva flebo a fiumi e monitoraggio costante dei parametri vitali. Mi sentivo malissimo. Un dolore così forte alla testa che avevo voglia di svitarmela e poggiarla da qualche parte. Dove avrei potuto non saprei dire, anche perché continuavo a veder solo ombre. Forte miopia [si sa], a cui si era aggiunto [me l’hanno spiegato in seguito] un problema di diplopia: l’occhio destro aveva smesso di muoversi. Per il resto, non ero in grado di far nulla da sola. E soprattutto avevo sonno. Come però hanno più volte ripetuto medici e infermieri, sono stata sempre “cosciente, vigile, collaborativa”. Col senno di poi, questo era un ottimo segno.

Dopo poco più di 24 ore, il 18 luglio, sarei stata operata con “approccio endovascolare”, ma in quel momento non capivo cosa stesse accadendo. Il 17 luglio, al rientro in reparto da una angiotac che aveva il compito di identificare con esattezza il problema, dalla barella sulla quale mi trasportavano ero riuscita a leggere “Neurochirurgia. Terapia sub-intensiva” e avevo detto all’infermiera:

Terapia intensiva? Sono in terapia intensiva! Ehi, non c’ero mai stata!

L’infermiera aveva riso. E aveva riso pure qualche ora dopo, chiedendomi che diavolo di eye-liner indossassi, capace di reggere tanto scompiglio. Questo lo ricordo bene: mi sono sforzata di ricordare il negozio, l’esatta circostanza in cui l’avevo acquistato. Forse avevo bisogno di capire se il cervello fosse ancora al solito posto. Anche se era debole, la parte sinistra del corpo la sentivo, si muoveva. Le parole venivano fuori un po’ meglio, meno a scatti. Qualche “contatto” aveva ricominciato a funzionare.

  • Ehm, un attimo. Ehm… sephora! Ecco!
  • Fantastico. Ancora lì, fantastico!

L’infermiera aveva riso di nuovo. E anche io. Ridevo e dicevo d’aver fame. Fame e sonno.

In terapia sub-intensiva le visite hanno limitazioni precise. Solo un familiare per volta, dotato di càmice verde e cuffia, mezz’ora in tarda mattinata e mezz’ora nel tardo pomeriggio. Gli altri rimangono fuori. Sollevata una tendina, possono guardarti da una finestra. La sensazione è di essere un pesce in un acquario. Mia madre e il mio uomo, Davide, sono entrati a turno per tre giorni in quell’acquario, anche per raccontarmi chi c’era dall’altra parte del vetro. Io annuivo, sorridevo e… salutavo come il papa (cit. Francesco P.).

  • Ci sono tutti, Loredana. Abbiamo riempito l’ospedale.
  • Bello.

C’erano davvero tutte e tutti, mi sono sentita amata. Meraviglia e sorrisi. Anche perché non avevo capito che la faccenda fosse così grave.

  • Come ti senti?
  • Mal di testa. E sonno. Scusami, io ho bisogno di dormire.

Sono stata operata – dicevo – il 18 luglio. La notte era passata tentando di tener testa al mal di testa. Ero imbottita di antidolorifici, eppure la testa sembrava esplodere. Quella mattina il chirurgo [un neuroradiologo] non è stato esattamente tranquillizzante con la mia famiglia:

Non è un’operazione semplice. E se succede qualcosa di imprevisto, non la salviamo. Se siete credenti, pregate. Se non lo siete, vi consiglio di rimanere in silenzio.

Con me, tutta un’altra pasta. Già parzialmente anestetizzata, ho avuto il tempo e la forza di scambiarci due battute:

  • Ha capito che cosa le stiamo facendo?
  • Entrerete con una piccola sonda dall’arteria femorale e arriverete alla testa.
  • Esatto.
  • Scusi, ma con questo cosa pensate di fare?
  • Beh, ecco…
  • Volete vedere esattamente cos’è successo?
  • Sì.
  • Ok.

Ahahah, come le chiamano? Bugie bianche?

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