In questi giorni torno felicemente in libreria con “amori in cottura”: si tratta di una raccolta di racconti che ho pubblicato per la prima volta nel 2015 su una piattaforma italiana di self-publishing con il titolo “amori in cottura. 15 ricette per quello che dura”. Presentata al concorso nazionale “Il mio esordio” di quell’anno, ha vinto un premio come “miglior libro di racconti”, e soprattutto ha avuto modo di essere conosciuta da lettrici e lettori che non smetterò mai di ringraziare.
Considero quella appena uscita l’edizione “definitiva”. Per tre motivi.
Il primo. È meravigliosamente illustrata: lavorare con Roberta Ranieri mi ha permesso di proporre un gusto nuovo per queste storie, leggero e articolato come piace a me. Mi ha permesso di farne, oltre che un libro, un’opera. E un quaderno e un regalo.
Il secondo. Contiene tre nuovi racconti scritti a partire da storie che, nel corso delle presentazioni della prima edizione, mi sono state raccontate col desiderio che divenissero parte di questo progetto. Sono sempre grata a chi sceglie di affidarmi un pezzo della propria vita perché lo metta su carta, dandomi carta bianca.
Il terzo. È la seconda pubblicazione della collana “Orlando”, che ho ideato e proposto a Collettiva edizioni: un’editrice femminista, plurale, radicata, nella quale sento rispettato e condiviso prima di ogni altra cosa il mio lavoro creativo.
Nel giorno del compleanno di Virginia Woolf nasce la nuova collana cui ho pensato giorno e notte per anni anche quando non ci ho pensato. Si chiama Orlando. Non ho avuto bisogno di cercare una stanza, quella stanza c’era già, e io avevo la straordinaria fortuna di condividerla con un manipolo di donne eccezionali che credono come me nel potere creativo e trasformativo della parola: Collettiva edizioni indipendenti. Da questa alleanza verranno alla luce nuove, bellissime storie.
cos’è Orlando
Orlando è una collana che ho ideato e che dirigerò con “Collettiva edizioni indipendenti”.
perché Orlando
Orlando è un tributo a una Virginia Wolf nella quale non rimanere intrappolate, che si nutre delle sue profondità per prendere il volo. Orlando è un’idea di mondo, ideato e creato dal potere della parola: terre e lune, foreste e deserti, metropoli e villaggi, singoli e moltitudini sono plasmati nel tempo e nello spazio dal fervore creativo che solo può risiedere in un corpo. Un corpo che sente, pensa e crea. Col corpo capiamo, col corpo elaboriamo. Col corpo viviamo in quel mondo fondato sulla parola. Orlando è l’infrazione sistematica dei confini. È romanzo e racconto, storia e saggio, donna e uomo, uno stile e cento. Orlando è la libertà come presupposto, l’ironia come metodo, la leggerezza come bandiera.
per chi Orlando
Orlando propone storie per chi non teme l’uso del femminile universale.
Orlando. lèggere leggère
Due titoli nel 2021 [notizie nelle prossime settimane]. Se sei una scrittrice, ti riconosci in questa collana e hai una proposta da farmi, contattami.
Nelle scorse settimane la matematica e scrittrice Chiara Valerio ha tenuto all’Università del Salento, dove lavoro ogni mattina da vari anni in qua, un seminario serio e faceto sulla politicità della matematica. Con le organizzatrici, docenti del dipartimento di Matematica e Fisica “Ennio De Giorgi”, l’avevano chiamato “Chiacchiere matematiche sul presente”, ed è stato esattamente questo. Ero lì, oltre che per il mio lavoro, per un profondo interesse personale per l’autrice e per le sue idee. M’è piaciuto ascoltare i matematici e i fisici (soprattutto i fisici) farle domande, m’è piaciuto come al solito anche il suo modo di esprimersi, di condire di colta ironia considerazioni molto serie, di mettersi sempre in discussione e di ripetere ogni volta che serviva “ci devo pensare”.
Tra acrobazie temporali che non hanno niente a che vedere col suo libro e la sua scrittura (e di cui poi vi racconterò), ho finito di leggere “La matematica è politica” (Einaudi), trovandovi una serie di spunti interessanti e motivi extra per il mio già convinto sostegno alla formazione scientifica (soprattutto per le ragazze).
L’autrice ha chiarito più volte che si tratta di una committenza, che l’ha scritto cioè su invito dell’editore, interessato a un altro libro d’argomento matematico dopo “Storia umana della matematica”, e che – dopo averne abbandonato da anni la ricerca (ha un dottorato in calcolo delle probabilità) e l’insegnamento – ha pensato di poter e voler scrivere sul tema solo un breve saggio sulla convinzione che la matematica aiuti a riconoscere la differenza tra autorità e regole. La prima imposta, le seconde oggetto di contrattazione. Di questi tempi, discrimine utile come l’acqua e il sole. Le sue argomentazioni mi convincono. Sì, sono d’accordo.
La matematica insegna che le verità sono partecipate, per questo è una disciplina che non ammette principi di autorità.
[p. 50]
In matematica alle superiori prendevo ottimi voti, ma a costo di una fatica indicibile, col relativo effetto respingente sull’idea di proseguire in questo tipo di studi. Il mio insegnante di matematica, e in fondo anche i miei genitori per un periodo, davano per ovvio che all’università avrei scelto ingegneria (da notare: non matematica, ingegneria), ma io pensavo solo alle decine e centinaia di esercizi che risolvevo di settimana in settimana per arrivare preparata ai compiti in classe o alle interrogazioni (leggi: cercavo di avere in tasca il maggior numero possibile di “casi” già visti) e speravo presto di lasciarmi alle spalle quelle frustrazioni. In breve, non mi ci sentivo “portata”. E invece…
Non è la matematica a scoraggiare […] ma il modo in cui essa è scritta e rappresentata. […] La matematica, a scuola, si insegna nel vuoto.
[pp. 4-5]
Può darsi allora che se, come Valerio scrive, avessi potuto studiare la matematica in modo diverso, meno “sospeso”, più contestualizzato, le cose sarebbero andate diversamente? Chi lo sa? Non mi sono mai pentita di aver studiato filosofia: anche quella credo mi abbia dato strumenti per discernere tra autorità e regole, e per avere un’idea articolata del concetto di verità. Però questo saggio mi ha riconciliata con quella parte di me che era [ed è] attratta dalle scienze esatte, e mi ha convinta che è essenziale integrare sempre meglio con le scienze [esatte e non] la nostra formazione italiana d’impostazione così smaccatamente crociana / gentiliana. Soprattutto per le ragazze. Perché? Per gli stereotipi che pesano sulle nostre scelte, e per quelli che pesano sul nostro lavoro, e per quelli che pesano sulle nostre reazioni, e per quelli che – ancora prima – pesano sul nostro ragionamento.
Eccone un esempio, tornando al seminario. Di tutte le domande che le potevo fare, ho scelto di farle la più emotiva (per me), frutto di periodici scoramenti al pensiero (e alla consapevolezza) che dobbiamo, pare all’infinito, insistere su certi concetti [cos’è il sessismo, perché vogliamo la parità eccetera eccetera eccetera]. Scoramento che credo sia evidente nella foto qui sotto (scattata dalla collega Daniela Dell’Anna, che ringrazio).
Vanità a parte (scusate, non ho resistito: è la mia prima e unica foto con la mascherina indosso, non ne ho mai volute fare), torniamo alla domanda. In soldoni le ho chiesto: tu che sei matematica & scrittrice, e che ultimamente sei tanto impegnata sulle… “questioni di genere” [l’avete vista per esempio a “Erosive“?], suggeriscici un metodo. Che metodo dobbiamo usare per rendere più efficace il nostro lavoro politico?
E lei (sintesi mia, abbastanza fedele):
Non mi sono resa conto per molto tempo che ci fosse un problema di rappresentazione femminile: studiare matematica ti rende molto forte sulle categorie e molto labile sui generi. Non vedevo il problema perché nella mia famiglia non c’erano state distinzioni di genere. E poi perché, nello studio della matematica, di nuovo non ho incontrato distinzioni di genere. Ricordo sempre che, dopo un’ora e quaranta d’esame, il professore Vittorio Coti Zelati mi chiese “Valerio è il nome o il cognome?”. Non mi voleva offendere, se l’era chiesto senza guardarmi. E questa è una grande liberazione quando sei ragazzo o ragazza. Vai lì come se fossi una specie di volume teorico in mezzo ai corridoi del dipartimento. Almeno, per me è stato così. Poi arrivo nella realtà e capisco che c’è una questione. Ed è anche vero che se non avessi avuto l’impatto d’urto di Michela Murgia non ci sarei arrivata. In effetti la rappresentazione culturale ha a che fare con la rappresentazione demografica. Se le donne sono la metà, perché non devono essere rappresentate? E poi un’altra questione. Le donne hanno cominciato a sviluppare quella parte di cervello che è relazionale con 1.300 anni di ritardo rispetto agli uomini. Dobbiamo avere coscienza che va incrementata quella parte del cervello. Perché le donne si sconvolgono quando ricevono una critica in pubblico? Perché sono meno abituate socialmente a farlo. Allora bisogna semplicemente appropriarsi di quell’abitudine sociale che è anche parlare in pubblico, essere contraddette, assumersi responsabilità, casomai le manette. Le funzioni vanno assunte, bisogna prendersele, non rifiutarle.
[sorvolo sulla “spiegazione” della foto scattata al libro: sono cose su cui sto lavorando, e sono certa che sapete di che si tratta]
La matematica, come spesso Valerio ripete, è una grammatica di relazioni. Esercitiamoci!
Vi lascio il link al video integrale del seminario. A presto!
Da femmina singolare di mestiere scrittora, come mi definisco, mi sono letteralmente goduta il recente saggio di Vera Gheno “femminili singolari. il femminismo è nelle parole” (effequ). Come scrive l’autrice, sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer, il libro vuole contribuire
a divulgare le informazioni corrette riguardo la questione dei femminili, in modo che chi vuole o vorrebbe usarli sia informato a dovere […]
Con metodo scientifico, nel testo Gheno sostiene la correttezza e l’opportunità di utilizzo di parole come sindaca, architetta o avvocata che, a parer mio, dovrebbero ormai essere usate senza tante storie e che invece sono ancora materia di logoranti polemiche. Gheno smonta tutti gli argomenti a sfavore dei femminili, tra i quali quello “estetico” [i femminili sarebbero “cacofonici”], da sempre il mio preferito:
Il criterio estetico è perfettamente accettabile, anzi, estremamente importante, in letteratura o in poesia. Ma nella lingua dell’uso l’estetica è molto meno rilevante dell’utilità. […] Io non uso i femminili per dimostrare alcuna parità. Li uso perché li reputo naturali.
Per non addentrarmi a ragionare di potere, mi limito a un’ultima utile citazione:
dal momento che la lingua può anche contribuire a modificare il nostro modo di vedere le cose, l’uso dei femminili può davvero servire per rendere più normale la presenza delle donne in certi ruoli.
E così credo di aver tracciato il percorso del saggio. Ma c’è un altro aspetto importante: nell’argomentare, Gheno sceglie di dare dignità a una serie di terribili commenti sul tema che riporta da Facebook o Twitter, rispondendo nel merito con ammirevole pazienza. Cosa che già faceva [e fa quotidianamente] sui suoi profili social e oltre. Certo, Gheno è una “sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer”, è il suo lavoro, ma la sua pazienza è davvero infinita. Davvero. Sento il bisogno di ringraziarla pubblicamente.
Tornando al mio godimento [che, come si vede dalla foto, si è chiuso al parco vicino casa, mentre i maschi della mia vita si divertivano a fare altro], questo aspetto è stato per me una zona d’ombra. Quel tipo di commenti mi disgustano, ed è stato un peso doverli leggere. Ma è giusto conoscerli, è giusto. E se tutte noi prima o poi arriviamo alla consapevolezza del meccanismo per il quale gli uomini ci spiegano le cose, Gheno in questo testo è capace di deliziare pure puntando il dito [a suo modo, molto educatamente] su alcuni pregevoli esempi di minchiarimento.
Mi interesso di queste cose da almeno dieci anni, per impegno politico e per amore della mia lingua: il saggio di Gheno ne è un bel compendio, ben scritto, divulgativo, di cui consiglio la lettura. L’autrice mi perdonerà, spero, se essendo una fan di Alma Sabatini insisto con la desinenza zero e impongo [ma per me sola] scrittora.
Ho conosciuto personalmente Gheno anni fa a Lecce, quando Conversazioni sul futuro mi chiese di presentare il suo “Guida pratica all’italiano scritto”. Non ci siamo più viste, non siamo amiche. Quella che segue è una mia opinione, personale [ogni volta devo ripetere che è ovvio, ma non si sa mai, quindi lo ridico], basata su quello che ho letto.
Il pessimo stile e il cattivo gusto con i quali è stata attaccata sono tanto odiosi perché… s’attaccano a un suo “difetto” imperdonabile nel nostro mondo tenacemente patriarcale: ce l’ha tutte. È intelligente, preparata, cortese, ironica. Non scrive mai fesserie, non cede agli insulti. È giovane, è bella, è madre. Troppo. Rompe ogni stereotipo e il suo contrario.
Non ho tempo di aspettare il tempo galantuomo. Il mio appoggio pubblico lo pubblico adesso.
Leggo con molto interesse thePeriod, la newsletter ideata e curata da Corinna De Cesare [a proposito, iscrizione consigliata: https://mailchi.mp/505bb0466c3a/theperiod). Questa settimana, nel pezzo “Le femministe che odiavano Melissa P.”, in un passaggio Melissa Panarello scrive qualcosa che mi ha dato da pensare:
da Biancaneve a The Brave è cambiato moltissimo
Intendiamoci: il mio è un pensiero che in parte devia dall’argomento del pezzo, e il passaggio “mi ha dato da pensare” nel senso che mi ha fatto mettere a fuoco una faccenda. Ma non perdiamoci in precisazioni e andiamo al sodo.
Da Biancaneve a The Brave è cambiato moltissimo, ma per chi?
Per me sì, certo, per me femmina quarantenne, che vengo da un certo contesto, da certe letture, da certi pre-giudizi e stereotipi diffusi. Per me Merida, la protagonista di “The Brave”, è un personaggio femminile che finalmente non si realizza trovando l’amore ma esprimendo se stessa, ed è per questo non dico entusiasmante ma almeno positivo. Leggendone la storia a mio figlio Giovanni, ho capito che però questo non ha nessuna importanza. Non ha nessuna importanza per lui.
Fin da quando aveva tre mesi, leggo a Giovanni tanti, tanti libri, tanti e di diverso genere. Da qualche tempo (ora ha poco meno di tre anni), ho pensato di proporgli anche storie che in qualche modo sono legate ai miei ricordi di bambina, e di affiancarle ad altre più “contemporanee”. Ho scoperto che gli piace ascoltarle, gli piacciono i disegni, e gli piace ritrovarle nei film d’animazione. Della stessa editrice e formato, gli ho proposto anche “Robin Hood” e “Ribelle. The Brave”: li vedete nell’immagine, sono Giunti, i volumi di questa serie costano meno di dieci euro (a seconda delle edizioni). Giovanni mi ha fatto notare molto presto che sia Robin Hood che Merida sono “molto bravi a usare l’arco”, ma a parte questo… a Giovanni ascoltare “Ribelle” non piace, o meglio… lo annoia.
Non voglio dilungarmi sulle tante differenze tra le due storie, né fare un’analisi puntuale delle possibili interpretazioni. Io, semplicemente, penso che abbia ragione. Merida è noiosa. Merida non fa “niente”. Robin Hood combatte un usurpatore, ruba ai ricchi per donare ai poveri, è simpatico, è scaltro. Merida si libera da un destino che pare predefinito e… non si sposa. E allora? Che cosa significa per un bambino? [E che cosa dovrebbe significare per una bambina?]
Voglio proporre a Giovanni storie di donne nelle quali non si parla di matrimoni, di necessità di emanciparsi dalle… solite cose, voglio protagoniste interessanti che fanno cose interessanti. Nelle quali potrebbe aver voglia d’identificarsi. Ve ne vengono in mente? Suggeritemele, se vi va.
Capita di camminare in campagna e a un certo punto pensare che non è tutto solo ordine e bellezza, che qualcosa di cupo e sinistro è nell’aria e cerca di entrarti nelle ossa. Mi è successo più d’una volta, ho mangiato pane e bevuto acqua e respirato odore di foglie e terra bagnata riconciliandomi con la certezza che la natura rimette tutto in equilibrio.
“La ianara” di Licia Giaquinto m’ha invece instillato il dubbio che al male a volte non c’è rimedio, e che anzi riesce a trascinare con sé anche molte cose belle e buone. Una storia densa di dicerie superstizioni e morte, di misteri e pozioni, di personaggi perduti e luoghi oscuri, raccontata con una bella e accurata lingua avvolta in spirali. Licia, spero che quell’aquila abbia fatto quel che doveva fare.
Overlove di Alessandra Minervini è la storia delle storie d’amore… over, del ‘troppo’ che parte da quel che c’è fuori – in cui si incappa, in cui si inciampa, e che inevitabilmente risuona nel ‘troppo’ in cui a volte si nasce – una famiglia, un luogo, una condizione.
E di eccesso in eccesso accade anche di rimettere tutto in ordine. L’interessante è a volte stabilire se quell’ordine sta dentro o fuori della storia, nei personaggi o in chi li ha seguiti nella lettura.
Overlove, di Alessandra Minervini, Liberaria editrice
L’ho finito. M’è piaciuto. Bella la lingua, bello l’intreccio, struttura interessante. Più quel tot gratis e inutile che dice molto della libertà di un’autrice.
“Fuori non c’è nessuno”, il romanzo di Claudia Bruno (effequ, 2016), è una “ninna nanna di periferia”? Così lo definisce il sottotitolo, io non saprei dirlo. Forse perché non mi piacciono le ninne nanne, forse perché associo le ninne nanne a sequenze di suoni tristi o almeno malinconici e a me la malinconia non piace non la sopporto, forse perché conosco Claudia non tanto ma abbastanza per non riuscire a distinguere ciò che leggo da ciò che penso di capire, fatto sta che non saprei definirlo una ninna nanna né una ninna nanna di periferia. Perché questa definizione gli darebbe in fondo un certo senso di tenerezza o, appunto, almeno di malinconia, e la capacità di “confinare” l’intreccio narrato in un posto, appunto, periferico.
Invece io dico che questo è un romanzo sul nulla… cosmico, sul nulla che è ovunque, sul nulla in cui si nasce si cresce si muore, sul nulla in cui si impara a vivere senza attaccarsi a niente e nessuno e senza esser-ci. Il nulla delle cose che s’accumulano e di quelle che non ci sono, il nulla di luoghi brutti in cui per forza di cose impari a muoverti e a volte scegli di smettere di farlo, il nulla che alla fine ti isola nel nocciolo di un’esistenza dalla quale non riesci a uscire per venire in contatto – in vero contatto – con qualcuno che non sei tu. Anche se le vite [e i corpi] di Greta e Michela [le (apparenti) protagoniste principali] appaiono intrecciate saldamente, restano singole come singole sono tutte quelle dei personaggi/non-personaggi che nella storia s’aggirano come s’aggirerebbero in uno spazio… vuoto. Il nulla, appunto.
Piana Tirrenica è un posto inventato? Il Sud che vi si paragona è un posto migliore? Qual è la periferia? Io non so dirlo, io non so dire – Claudia – se quello che ho letto è diverso da quello che sento tanto spesso aggirandomi per il Sud dove vivo. Pieno di nulla, in cui è necessario cercare e costruire il bello con ogni energia possibile per non soccombere a quello stesso nulla che devi definire per avere qualcosa cui aggrapparti, il nulla che tu così lievemente drammaticamente racconti. Un nulla (anche) generazionale: ho rivisto, rivissuto, sentito suoni sapori odori oggetti persone di un’adolescenza in fondo molesta, uscite dalla quale non abbiamo potuto trovare sufficienti occasioni di bellezza, di opportunità, di luce, di futuro.
Un romanzo che scorre velocissimo, che devi rileggere per non lasciare che ti trascini nel nulla, scritto quindi perfettamente per farti mimeticamente piombare nel disperato vuoto che ci circonda. Fuori non c’è nessuno. E neanche dentro si sta troppo bene.
Checché ne scriva in quarta di copertina, Milena A. Carone intreccia in questo libro soprattutto eventi privati [quelli pubblici fanno da sfondo: alcuni sono molto gradevoli da ricordare, altri sarebbe ora fossero ricordati anche ‘storicamente’], e sfata molti ‘miti’ sulle relazioni e lo stile di vita delle femministe [almeno di alcune].
In un italiano ben tenuto, Sedici è scritto quasi come fosse un codice da decifrare. Una volta “dentro”, è difficile uscirne, e sul finale la sensazione d’esserne trascinate si fa più forte [Milena, sbrigati a pubblicare il secondo volume, vogliamo leggere come va a finire].
I concetti di privato e politico, di forma e sostanza, s’applicano a vicende nelle quali l’autrice scava profondamente con leggerezza e ironia, fino a metterne in discussione i confini. Personalmente apprezzo molto la capacità di narrare il dolore, e l’idea dell’arte come possibilità salvifica.