Categoria: libri

ho letto “sedici” di Milena A. Carone

Checché ne scriva in quarta di copertina, Milena A. Carone intreccia in questo libro soprattutto eventi privati [quelli pubblici fanno da sfondo: alcuni sono molto gradevoli da ricordare, altri sarebbe ora fossero ricordati anche ‘storicamente’], e sfata molti ‘miti’ sulle relazioni e lo stile di vita delle femministe [almeno di alcune].

In un italiano ben tenuto, Sedici è scritto quasi come fosse un codice da decifrare. Una volta “dentro”, è difficile uscirne, e sul finale la sensazione d’esserne trascinate si fa più forte [Milena, sbrigati a pubblicare il secondo volume, vogliamo leggere come va a finire].

I concetti di privato e politico, di forma e sostanza, s’applicano a vicende nelle quali l’autrice scava profondamente con leggerezza e ironia, fino a metterne in discussione i confini. Personalmente apprezzo molto la capacità di narrare il dolore, e l’idea dell’arte come possibilità salvifica.

Ilaria Guidantoni tunisina italiana [e anche il contrario]

Un’amica di un’amica cercava una giornalista che presentasse “un libro sulla Tunisia in cui c’è attenzione per le donne”. È così che ho conosciuto Ilaria Guidantoni. L’ho vista due volte e ci siamo scritte alcune decine di e-mail, ho letto tre dei suoi libri e lei uno dei miei. Ho chiesto di lei, sbircio le sue foto. Il fatto che la trovi sempre ben vestita e pettinata, che porti borse e occhiali firmati, che indossi pellicce e che abbia un piglio sempre piuttosto formale normalmente mi farebbe passare ogni desiderio di approfondimento. Invece Ilaria mi incuriosisce terribilmente: trovo irresistibile il suo innamoramento per la Tunisia. La rende trasparente.

Insomma chi è Ilaria? Dimentica il contesto, qualunque contesto. Definisci chi sei.
«Una donna del Mediterraneo, una specie di apolide. Non lo dico per vezzo: raccontando del Mediterraneo trovo, adesso, il mio riconoscimento maggiore. Culturale ma anche di orizzonte, visione dell’esistenza, complesso di valori morali e religiosi. Vi è una confluenza di anime diverse che è anche nella mia formazione. Amo la sponda a sud del Mediterraneo».

Non riesco a definire “reportage” quello che scrivi.
«No, è una scrittura un po’ di confine. So che è un rischio: assieme alla ricchezza delle differenze che si mescolano, c’è la possibilità del limbo. C’è però una traccia chiara, e cioè il tema dell’“incontro con l’Altro”, presente fin dal primo saggio sulla sicurezza stradale. Certo nell’ultimo – “Chiacchiere, datteri e the. Tunisi, viaggio in una società che cambia” – la scrittura si fa più chiara. È un reportage “caldo”, tutto in prima persona e legato anche a pensieri ed emozioni personali».

Racconti della Tunisia e sei – come si dice in gergo – sempre sulla notizia. Eppure io continuo a trovare più rilevante, più evidente, il dato “personale”. È questo che mi pare definisca il tuo attaccamento a questo Paese.
«Me ne sono innamorata attraverso un incontro personale. Ecco, la vita privata a volte ci porta ad aprire delle porte, poi non è detto che si rimanga nella stessa casa o si esca dalla stessa porta. Io nel frattempo mi sono legata a questo mondo: una vicenda personale mi ha aperto le porte su una vicenda collettiva. Frequentavo la casa di una persona che si occupava (e si occupa) di diritti umani sotto la dittatura: questo ha spalancato un mondo insospettabile. È stato viverlo da dentro, con le preoccupazioni di chi vive una vicenda personale, che probabilmente mi ha portato a scriverne col cuore».

È una storia che continua, insomma, anche se in modo diverso.
«Sai cosa mi succede, adesso? Che frequento molti italiani di Tunisi, italiani nati a Tunisi o che vi vivono in parte o che hanno sposato tunisini. E poi studio arabo e tunisino. Da due anni, anche se con scarsi risultati (sorride, ndr). Il problema è che è molto difficile imparare a parlarlo, vorrei intanto imparare a capirlo. È il passo che voglio arrivare a fare entro un anno. Adesso, scherzando, dico che potrei giocare a nomicosecittà. Conosco, insomma, molte parole. Però l’ultima volta a Tunisi sono andata in un quartiere popolare, ho visto un’insegna, ho riconosciuto che era un ristorante e sono riuscita a leggere il menu in arabo. Mi sono sentita dentro il Paese. Adesso in Italia mi fanno i complimenti per il mio italiano, è buffissimo, mentre a Tunisi la gente mi parla in arabo in qualunque modo io sia vestita. Mi emoziona».

Sei innamorata. Raccontamene i sintomi.
«La malinconia che ho provato le volte che ho lasciato quell’aeroporto. E poi, adesso, se penso al “ritorno” non so di cosa parlo: dell’Italia? della Tunisia? Non so più dov’è questo “ritorno”. Mi era già successo in Italia. Evidentemente un luogo solo non mi basta. Sono in egual misura fiorentina, milanese e romana, ma a parte il legame con la famiglia e la lingua… non riesco nemmeno più a dire d’essere italiana. Altra cosa: a Tunisi riesco a prendere tempo per me. Ecco, forse mi sono innamorata di quel posto perché quando sono lì riesco a non finalizzare il tempo in modo così stringente come faccio altrove. Vivo con un senso di pienezza, quando invece normalmente ho tre telefoni sempre accesi e l’orologio sempre sott’occhio. In Tunisia ho scomposto i miei schemi, proprio come accade quando ci si innamora».

A volte è come se tu dicessi “guardatemi, sono io, sono qui!”.
«Ho molta paura che se… non sto sulla notizia… si dimentichino di me. Ho paura che lontana dai loro occhi possa diventare lontana dal loro cuore. È una forma di corteggiamento, anche. Lo so».

Se ho capito qualcosa di te, ti sei portata in casa un po’ della Tunisia. E parlo di sensazioni.
«Una teiera, un tappeto berbero, gioielli, una sciarpa, una zuppiera, delle coppette dipinte a mano che uso spesso. Ci penso per la prima volta: sono tutti regali. Io non ho mai comprato oggetti per me, per me compro cose che consumo. Il profumo che si utilizza là per i cuscini, il the, vino e aceto balsamico di datteri. Sì, compro cose che consumo, non mummifico la Tunisia».

Ho idea che tu stia provando a spostare parte del tuo lavoro in Tunisia.
«Vorrei cercare di rappresentare, in qualche modo, un anello tra i due Paesi. Turismo, agroalimentare, piccola e media impresa, lavoro femminile. Secondo me ci sono tutti i presupposti per costruire assieme».

[Ilaria Guidantoni ha scritto: “Vite sicure” (Edizioni della Sera, 2010); “Prima che sia buio” (Colosseo Grafica Editoriale, 2010); “I giorni del gelsomino” (P&I Edizioni, 2011); “Tunisi, taxi di sola andata” (NoReply editore, 2012), “Chiacchiere, datteri e thé. Tunisi, viaggio in una società che cambia” (Albeggi Edizioni, 2013)].

il maestro del lupo cattivo

Per ventidue anni Ico Gasparri ha fotografato fotografie. L’ha fatto principalmente a Milano, cumulando quattromila scatti di corpi femminili stampati e incollati su gigantografie pubblicitarie. Non si tratta nemmeno di corpi, ma di pezzi di corpi: seni, natiche, gambe, labbra. La storia di questo lavoro, raccolta nel volume “Chi è il maestro del lupo cattivo?” e nel sito www.ilmaestrodellupocattivo.it, è la storia – dice Gasparri – di “una lunga azione di militanza sociale”. Gli abbiamo chiesto di più in occasione di un seminario organizzato in Rettorato, nei giorni scorsi, introdotto dalla Delegata alle Pari opportunità Marisa Forcina e moderato dalla professoressa Valentina Cremonesini.

Un lavoro lungo e faticoso, con la costruzione di un archivio enorme. Perché tanti scatti?
«Facevo il ricercatore in Archeologia, prima che questo lavoro m’abbandonasse, prima che mi fosse impedito di esercitarlo. Sapevo perciò che per uno studio ben fatto serviva un’ampia base di dati, dati inappellabili. “Chi è il maestro del lupo cattivo?” non è un lavoro sulla pubblicità stradale, ma contro la pubblicità stradale: per questo tanti scatti, per dimostrare quanto fosse sessista e pervasiva. Un lavoro di militanza, perché non sono un fotogiornalista ma un artista. E la fotografia sociale è un’attività di militanza».

Essere un artista. Cosa significa per te?
«Per me è un mestiere, un artigianato, non un lusso. Le opere di questo lavoro sono quindi opere d’arte innanzitutto. È il tema ad avere risvolti sociali. Le immagini sono crude, cruente, dolorose, e raccontano quanto negli anni siano riuscite ad anestetizzare la nostra attenzione. Da una parte siamo assuefatti, dall’altra abbiamo la coscienza sporca».

Andiamo con ordine e cominciamo dal “lusso”. Questo tuo lungo e impegnativo lavoro è stato fatto in solitaria e a spese tue. Anche il libro è interamente opera tua, non ha un editore. Perché?
«La mia non è stata un’azione ‘leggera’, anzi. Si è trattato di qualcosa di molto pesante, sicuramente dal punto di vista del dispendio di energie emotive, ma anche quelle economiche sono state rilevanti. Tutti gli scatti sono stati realizzati su pellicola professionale, per esempio. Per quanto riguarda il libro, finché li ho contati 18 editori mi hanno detto no. A un certo punto mi sono stancato, ero convinto che il lavoro andasse diffuso e valorizzato e allora ho deciso di fare tutto da solo. Ero capace di farlo: ho lavorato per 15 anni in case editrici, perciò ho potuto utilizzare le mie competenze per impaginare, revisione, realizzare la copertina ed editare il libro. Questo percorso dice della solitudine e della sofferenza di un artista che ha un’intuizione. A posteriori prendersi i meriti è facile, ma ho lavorato sostanzialmente in solitudine. Mi riferisco al fatto che in Italia negli anni Novanta il sessismo non era un argomento di dibattito, eravamo all’inizio di quello che per brevità e chiarezza possiamo definire berlusconismo. Oggi, invece, tutti ne parlano».

Hai parlato di “assuefazione” e “coscienza”. Vuoi raccontarci di più?
«Siamo talmente immersi in questo meccanismo che quasi non ci fa effetto. Parlo di “cattiva coscienza” riferendomi ai discorsi che per anni ho dovuto ascoltare. Avevo pensato di intervistare pubblicitari e chiedere conto di certe scelte. Hanno cominciato a dirmi che certe immagini, così forti, così esplicite, in realtà semplicemente ritraevano una donna emancipata, allegra, moderna, integrata nella vita della metropoli. Ho smesso di intervistarli, per non farmi prendere in giro».

Immagini e violenza sulle donne: la pubblicità stradale è il maestro del lupo cattivo?
«Uno dei maestri».

E il senso del tuo lavoro? Qual è l’obiettivo? Cambiare il mondo? È possibile?
«Certo, l’obiettivo è cambiare il mondo. Ognuno può farlo, alla propria scala. Ognuno parte da sé. Cambiare il mondo si può. Sì».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

Sabrina, ovvero della neve e altre ovvietà

Sabrina Barbante si è sempre giocata (assai male) la storiella d’essere banale, noiosa, prevedibile. Potreste sentirla raccontare questa storiella e riferirla – con grande probabilità – ai suoi capelli, per esempio. «Mai tagliati, sempre uguali da sempre». Potreste sentirla raccontare questa storiella a proposito del suo uomo: «Ero la più noiosa, la più prevedibile. Ma tant’è». Potreste sentirla raccontare questa storiella per un’altra infinità di motivi ma non credo vi convincerà. Perché in genere mentre racconta questa storiella fa tintinnare un nuovo paio di orecchini improbabili (tipo i miei), o agita una gonna a quadri in stile very Scottish, e poi – veniamo al punto – soprattutto Sabrina scrive. Racconti, romanzi, articoli, testi su blog vari (non solo il suo). Scrive continuamente, scrive ogni giorno.

Insomma, Sabrina, falla finita con questa storia. Parliamo del tuo secondo romanzo, Faintly falling, e vediamo di non girarci intorno. La neve fa rumore, dici nel sottotitolo. La faccenda non è banale.

«La neve dice dell’immobilità, racconta la paura della paura di cambiare. Le persone si chiudono nei propri riti, nei propri doveri, si addormentano. Ho riti anch’io, per esempio prendo un caffè doppio macchiato da portare via ogni mattina nello stesso bar. La china che prendono queste cose, l’immobilità… mi ha sempre fatto paura. Ecco».

La neve descrive, circonda, amplifica l’immobilità delle sorelle protagoniste del romanzo. Un’immobilità apparente o reale? A me sembra che, alla fine, almeno una delle due salvi se stessa e così facendo salvi entrambe dal… nulla. E James, poi, quest’uomo molto affascinante che entra nella loro vita: James viaggia.

«Sì ma anche il viaggiare è un rito per non tornare al nocciolo della questione. Una cosa che accade se non hai il coraggio di riportare tutto a casa. Per quanto riguarda Laura e Cristina, ecco… nel loro caso è il troppo amore che blocca. Il troppo amore blocca sia che tu lo nutra sia che tu ne sia oggetto. Rimaniamo così, chiusi nella fissità della nostra esperienza».

Non descrivi nei dettagli James, ma sappiamo bene che stai parlando di Joyce. Lo dichiari in quarta di copertina addirittura: dici che questo romanzo è un saldo di conto in sospeso.

«Avevo 14 anni quando ho letto The Dead, e mi ha sconvolto l’esistenza. Ho due debiti con Joyce. Il primo è per questo racconto, perché quando sono arrivata all’ultima riga mi sono detta: non voglio mai, nella vita, arrivare a guardarmi indietro e rendermi conto che certe cose non le ho volute vedere. E il secondo debito, che non ho saldato e non salderò mai, è un debito con il suo stile. Come si fa? La sua grandezza… non si raggiunge, e questo ti lascia senza fiato. La coscienza che mai potrai. È dura».

Mentre parliamo, io e Sabrina beviamo. Birra. Siamo in un pub di Lecce dove la Guinness è ben spillata. Io ne ho presa una pinta. Sabrina ha preferito una bionda. Dal bancone si avvicina una delle ragazze a portarci due cicchetti di rhum. Dice: «Da parte di un ragazzo, non vuole che vi dica chi è». Sabrina è sconvolta. Mi dice: «Solo quando esco con te mi capitano queste cose». Chissà se è vero, comunque è divertente.

Sabrina, perché i tuoi personaggi sono sempre così… composti? (Sabrina ride). Dai, sono composti. Io leggo te, leggo me e mi metto le mani nei capelli. I miei sono sempre in delirio. I tuoi sono… composti. Ti piace questa definizione?

«Adesso cosa posso dire per non compromettermi?».

Risate.

«Oddio, sono in un cul de sac».

Risate.

«Forse perché non ho ancora maturato distacco. Distacco da quello che ci si aspetta da me. Ma la verità è che una vita non mi basta, vorrei vivere mille vite parallele. Scrivere è catartico, distogli l’attenzione da te stessa».

È così che la neve cade. Lentamente cade. Sul passato e sul presente, sui vivi e i morti: the flakes, silver and dark, falling obliquely against the lamplight. E ora torniamo a casa.

Welcome to Albània

Lo scopo del viaggio doveva essere quello di scrivere un reportage sul “paesaggio culturale” dell’Albania. Sei giorni sei. Pochissimo preavviso. Ok, partiamo. Qualche telefonata e via. Giusto il tempo di leggere un paio di testi e dei flash su internet. A dire il vero non volevo leggere di più. Perché partire con un’idea già bell’e fatta? Perché arrivare lì credendo di aver capito tutto?

Il paesaggio culturale. Sì. Di cosa stavamo parlando? Che cos’è la cultura? Più che raccogliere dati e “monitorare” la situazione, volevo mettermi in ascolto. Vivere la situazione e scrivere qualcosa di significante, a modo mio. Ero libera. E ho scelto di parlare di quello che mi sembrava più importante. E cioè di un “clima”, di un sentimento, di qualcosa che fosse percepibile nell’aria.

Un sentimento, quindi. Beh, questo sentimento è la frustrazione. E la voglia di essere riconosciuti parte dell’Europa. E la voglia di non essere discriminati.

L’ho chiamato Welcome to Albània. Benvenuti, perché non potevo pensare di parlare dell’Albania a 360 gradi. Albània e non Albanìa, anche perché è con quell’accento che nel periodo degli sbarchi – qualche anno fa – si sentiva nominare il Paese dall’altra parte dell’Adriatico. E perché è così che molti di noi salentini parlavano agli albanesi, per prenderli in giro, per dire che erano profughi. E morti di fame.

E perché parlavano così anche molti di quelli che li aiutavano: poverini… beh, che vuoi?, “albanesi sono”… e altre cose così. Ecco perché Welcome to Albània è un reportage sull’Albania ma anche sull’Italia. Sugli albanesi ma anche su noi italiani. Italiani spaghetti, pizza, mandolino, mamma…

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