[Avvertenza. Questo non è uno scritto sull’autismo. Questo è uno scritto su Michela. Michela Del Tinto.]
Michela si firmava Mollaian quando l’ho conosciuta, scura e riccia, oppure rossa e liscia, oppure bionda e mossa, ma sempre densa e intensa [come adesso], pittrice autodidatta, nata lupa, cresciuta lupa e lupa ritrovata. Avevo diciannove anni, coi soldi messi da parte con le ripetizioni di fisica [fisica, ho scritto fisica, intendevo fisica, sì] ho comprato due suoi quadri. A rate. Non erano accanto quando li ho visti, ma accanto li ho sempre tenuti: uno rosso e uno azzurro, in cornici grezze dipinte degli stessi colori e tenute insieme usando una sparapunti, trattati da tutti con sospetto per anni finché, finalmente, li ho appesi trionfanti al centro della scena quando ho potuto decidere in casa mia.
“Quando ci siamo conosciute avevo un rapporto molto stretto col colore, un rapporto in cui mi sono concessa il lusso di essere primitiva, anarchica, senza disciplina orari e istruzioni. A pelle ti sentivo libera e diretta, non cambiavi con le persone a seconda di chi c’era. Questo di te mi piaceva molto”.
Michela Del Tinto è una lupa e corre coi lupi, Clarissa Pinkola Estés ne avrebbe potuto raccontare, dipingeva e a volte lo fa ancora, vende tappeti orientali col marito lupo pure lui, e dà un nome che non ho mai sentito dare a nessun altro all’universo di suo figlio Teo: lo chiamano “autismo”, lei lo chiama Altrove. Un posto dov’è stata pure lei, racconta, un posto dove forse siamo stati/e in molti/e, dico io.
“Se non la guardi dal punto di vista che è tuo figlio è molto interessante, però è tuo figlio e sei nella merda”.
Teo era piccolo, io me lo ricordo.
“Teo spegneva l’interruttore e io ero sola. Sola. Ero sola e me la dovevo cavare da sola. C’è stato un lunghissimo periodo in cui non avevo mezzi per comunicare con lui, perché il suo autismo di allora non consentiva usuali connessioni. Ne ho cercate altre, ma non sono state sufficienti. E allora, visto che non potevo andare avanti, sono tornata indietro, alla mia parte animale. La Lupa”.
A Michela non piace l’autismo per come lo raccontano, e per come lo trattano le fa schifo. Michela s’è fatta lupa e un altro lupo ha imparato ad allevare provando ad accompagnarlo nell’Altrove, volendo che Teo fosse libero autonomo indipendente, con una dignità sua una dignità normale normalissima, in cui l’autismo è solo “una delle sue caratteristiche, quella neurobiologica”.
“Quando sento dire ‘ragazzi speciali con genitori speciali’ mi sento impazzire, mi sento soffocare. Che significa? Siamo tutti speciali, ognuno a modo suo. E gli autistici non sono più speciali degli altri e non sono tutti speciali allo stesso modo. È un’etichetta più invalidante dell’autismo stesso. Li vedi i ragazzi disabili che vanno a passeggio tutti assieme con gli ‘educatori’? Che pena. Li trattano da deficienti e li fanno guidare da gente deficiente davvero. No, mio figlio mai. Mai l’ho messo in condizioni di essere umiliato, e mai lo farò. Non ha senso farli interagire solo tra di loro, bisogna integrarli nella realtà quotidiana, dalla quale possono apprendere qualcosa. Isolandoli in un contesto protetto rischiano la decrescita, l’involuzione. A scuola, per esempio, i momenti della vera integrazione sono la merenda, l’educazione fisica, l’ora di religione. Bisogna creare una vera, duratura, rete d’amicizie. Non servono mezzi, manca spesso la voglia di sedersi e lavorare”.
Michela-la-Lupa aiuta Teo a far comunicare questo mondo e il suo Altrove, impiega energie straordinarie perché questa comunicazione sia il più possibile paritaria. Perché anche l’Altrove ha una sua dignità.
“Quindici anni di trincea. Sono un canale da cui quotidianamente mio figlio attinge informazioni vitali. Faccio tutto quello che è necessario perché sia autonomo e questo, mentre mi dà la possibilità di offrigli degli strumenti, me ne fa conoscere direttamente l’essenza. Provo spesso stupore, meraviglia, perché in questo viaggio ho modo di conoscere, osservare, studiare, sperimentare e creare continuamente”.
Michela ti guarda ti squadra ti penetra, non ti lascia modo di chiudere le imposte di dissimulare di rimanere sospesa di prendere tempo. O ci sei fino in fondo o ci sei fino in fondo, l’alternativa è scappare. Ma come fai a scappare davanti a quegli occhi quelle labbra quei seni, quel modo di muoversi di ridere di parlare, quella forza potenza energia che vengono fuori anche nel silenzio e nell’immobilità? Quei quadri a diciannove anni m’avevano smosso le viscere e ancora quando li guardo mi guardo dentro, mi ci fotografo davanti e scrivo “periodo rosso” o “periodo blu”.
“Mi frequento per conoscermi bene, vivo molto intensamente la mia vita sia in discesa che in salita. Credo nella legge dell’attrazione, bisogna prendere quello che fa bene. Adesso è molto facile, tutti vogliono bene a Teo, ma io ho il cuore in riserva e l’anima che non parte. Ci sono dei limiti che vengono superati troppo facilmente, e che invece devono essere rispettati, come quelli di tutti”.
Michela s’è fatta Lupa e ha recuperato l’istinto. Sull’istinto s’è basata e ha fatto quello che ha creduto capito voluto. Lo fa ancora, e nel seguire quell’istinto che le ha “salvato la vita” si incazza risponde spiega insiste. Lo fa anche quando sembra inutile assurdo improduttivo.
“Mi hanno detto che era autistico, io l’ho guardato e gli ho detto: noi ce la caveremo, ma ti farò il culo. Ho fatto così. Ho letto tutto, so cosa dice la scienza, ma devo la mia vita agli scrittori, non ai medici. Niente psicofarmaci per Teo, niente schifezze. Non parlo in generale, parlo della mia esperienza personale: non sono tutti uguali. Non esiste un’‘autistica persona’, ci sono ‘persone autistiche’. Devi conoscere bene tuo figlio, e per conoscere tuo figlio devi conoscere te stesso. A quattro anni volevano sedarlo, ma noi volevamo prima conoscerlo. Non devi delegare, devi essere in prima linea come genitore, usare la scienza nel modo più adatto al caso specifico. Ecco perché dico che devo la mia vita agli scrittori, non ai medici. Gli stimoli emotivi che m’hanno ispirato salvato guidato sono venuti dalla letteratura”.
L’autonomia di Teo.
“La sua autonomia è la mia priorità assoluta. E la vedo all’orizzonte, albeggia, cresce in proporzione alle risorse che pian piano scopre di avere, che acquisisce di giorno in giorno”.
No, non si preoccupa del dopo-di-noi.
“Come fai a occuparti del dopo-di-noi se non conosci cosa accade mentre-noi? Io non sono concentrata sul mondo, io sono concentrata su Teo”.
Non ho voluto leggere un granché sull’autismo, non prima d’aver scritto di Michela. Michela che una volta al telefono con Teo s’è fatta una risata: “I calzini sono nel tuo cassetto. Senti, ma che vuoi da me?”. Molta tenerezza ma nessuna indulgenza, molta comprensione ma nessuno sconto. Tutte le madri di uomini dovrebbero puntare all’autonomia.
“I prossimi saranno anni cruciali. Seguiremo lezioni di teatro. Basta vocine acide poco attraenti. Dizione, postura. E poi danza. Dev’essere un uomo attraente”.
Un programma che consiglierei a tutti gli uomini. Ciao, Michela. Al prossimo caffè, alla prossima cena. “Saluti a tutti. Autistici e non”.