Neri i capelli neri gli occhi olivastra la pelle lento il parlare pesate le parole, la chiami Francesca ma si firma Speranza. Come a scuola, prima il cognome? No, le piace proprio “speranza”. Speranza Francesca è la sua firma, continua a firmarsi così oltre ogni obiezione. Ferme le mani acuto l’osservare quasi violento lo scattare. Necessario indulgere nella prima sensazione di lievità, così da poter provare con tutto lo spaesamento del caso quanto Francesca sia d’una bellezza abissale: le sue foto ritraggono l’aldilà della realtà. Nata nel ‘78 a Cisternino (Brindisi), ha studiato Architettura d’interni all’Istituto Europeo di Design a Roma e decorazione dell’Accademia di Belle Arti a Lecce, vive e insegna tra il Salento e Mantova. «Utilizza il digitale senza mai abbandonare la pellicola», racconta di sé in terza persona, «continuando a lavorare in camera oscura. Predilige i forti contrasti, sia nella scelta dei soggetti che nella tonalità cromatica della sue fotografia. Ama la sperimentazione, sia nell’acquisizione che nella stampa delle immagini, in alcuni suoi lavori recenti ha proposto installazioni realizzate con stampa d’affissione in grande formato, in cui la fotografia si relaziona con lo spazio e dialoga con l’ambiente». In “Domestic landscapes”, questo dialogo con l’ambiente racconta le donne, l’interiore conflitto dei ruoli, l’ironia che spesso suscita il tentativo di adeguarsi agli stereotipi della femminilità.
La fotografia è il “tuo” mezzo, anzi tu e la fotografia forse siete la stessa cosa. Ma quando hai detto a te stessa: “sono una fotografa”?
Sono curiosa e un po’ nomade, la fotografia si sposa bene con questo mio modo di essere. È sempre stata presente nella mia vita, a livello intimo, domestico. La memoria fotografica mi affascinava, le immagini aprivano nella mia mente sconfinate fantasie. Poi il momento del distacco, quando sono diventata unica responsabile di quello che accadeva sotto ai miei occhi. Ho iniziato a fotografare in viaggio, tra la gente, le cose della mia vita e le cose della vita degli altri. La fotografia è diventata una parte del mio essere, il mio linguaggio e parte del mio modo di comunicare. È fedele compagna e testimone delle storie della mio presente. È trovarmi in situazioni a volte drammatiche a volte inaspettate, e sentire la necessità di usare la macchina fotografica per congelare quel momento. È una passione forte che invade i miei sensi e che mi porta a tradurre in immagini il reale.
“Forza” e “fotografia”. Racconta che legame ci vedi.
Quando si decide di aprire il proprio archivio a qualcuno si sceglie di svelare una parte della propria identità. Questo è rischioso, può non essere inteso oppure criticato. La forza è quella parte del carattere che si deve coltivare per consolidare la propria identità, ciò che ti permette di esprimere con determinazione e senza filtri le costruzioni visive.
Donne e uomini: cosa accade nell’atto del fotografare?
Percepisco differenze in alcune relazioni, vedo sguardi diffidenti. Quando fotografo questa sensazione è più forte. In alcuni contesti la figura di una donna è “fuori luogo”, e lo sguardo degli altri diviene arma inibitoria da cui difendersi. Quando scegli di continuare a fotografare, magari in una situazione pericolosa, oppure drammatica, quell’essere “spudorata” è una trasgressione alle regole di comportamento.
Quali sono le tue fotografe di riferimento?
Difficile tracciare una genealogia esclusivamente al femminile. La fotografia italiana è stata il mio punto di partenza: Gardin, Migliori, Scianna, autori e artisti dallo stile semplice e puro. Poi la fotografia internazionale, quella delle donne: Diane Arbus, Margaret Bourke White, Sarah Moon, Nan Goldin. Poi ci sono le autrici di riferimento: Francesca Woodman, di cui amo la fotografia, lo stile, la scelta dei dettagli e la sensibilità fragile; Ellen Kooi, fotografa olandese che ho scoperto un po’ per caso, in una mostra a Parigi. Nelle sue fotografie ho scoperto un legame forte con il mio linguaggio.
Se dovessi dare un consiglio a te Francesca di qualche anno fa, quella degli “inizi”, quale sarebbe?
Con il tempo ho scoperto che un buon equilibrio e tanta determinazione ti porta a ottenere quello che desideri. Le direi di affermare se stessa senza timore, di essere testarda e di dare il giusto peso alle critiche degli altri. È fondamentale credere nelle proprie capacità e lavorare per ottenere i migliori risultati, ciò che ti circonda spesso ti mette in crisi, ma l’essere in crisi è l’inizio della rinascita.
Che mi dici del confronto con altri “ambienti” artistici, fuori della Puglia?
Non è cosa semplice, è un po’ ricominciare tutto dall’inizio. Ti espone alle critiche, può mettere in discussione il tuo modo di fare e di essere, ma è indispensabile per rafforzarsi e per far maturare il tuo lavoro.
A cosa stai lavorando adesso?
Negli ultimi due anni alcuni eventi hanno cambiato la mia vita. Vivo in Lombardia e mi trovo spesso in giro tra varie città dell’Italia settentrionale e dell’Europa. Il mio essere curiosa e viaggiatrice mi permette di trovarmi in luoghi e in situazioni nuove, a volte border-line. Cerco adesso, al Nord, elementi del territorio con caratteristiche geografiche e antropologiche che soddisfano il mio linguaggio. La serie “Landscapes” si è arricchita di nuovi elementi e di nuove forme espressive. Poi, oltre a continuare a fotografare e cercare nuovi spunti per la mia fotografia, mi concentro sulla post-produzione dell’archivio degli ultimi due anni, per tracciare un percorso omogeneo e coerente della mia ricerca. Continuo a utilizzare il digitale ma, negli ultimi tempi, sono ritornata alla fotografia analogica. Amo lavorare in camera oscura, mi piace la sperimentazione con la luce, l’interazione con i materiali, la sovrapposizione delle discipline, senza regole o cliché. Questo mi permette di portare avanti un percorso puramente estetico, legato al fascino dell’immagine e alla potenzialità del segno.