“Il metodo Aquilani” è l’ultimo romanzo di Elisabetta Liguori, ma non si legge. Si ascolta soltanto. La storia è stata scritta – fin dal principio – per essere ascoltata, ed è uscita [per ora] solo su Storytel, nota piattaforma di audiolibri, podcast ed ebook. Ho cominciato ad ascoltarla un sabato mattina, a colazione, cercando di liberare la mente e il cuore dalle aspettative: Elisabetta è un’amica, più di un’amica [siamo assieme “dentro” l’editrice indipendente Collettiva ed è una delle persone che per prima ha saputo delle mie idee per Orlando, per intenderci], e avevo seguito anche se indirettamente la gestazione, l’entusiasmo e i dubbi di questo lavoro. Ho continuato ad ascoltare “Il metodo Aquilani” camminando, ho finito di ascoltarlo – credo – davanti allo specchio una domenica mattina.
Non sono mai riuscita a distrarmi, non ho potuto che tendere attentamente le orecchie a questa storia evidentemente ispirata al caso Francesco Bellomo. Mi colpisce che la recensione inizialmente più severa su Storytel [“Assolutamente inverosimile. Va bene l’invenzione letteraria, ma alla sospensione dell’incredulità c’è un limite”], sia finita con “Non conoscevo la vicenda. Vero che la realtà supera la fantasia. Mi spiace che non ci sia la possibilità di cambiare le recensioni”. All’ascoltatrice era stato suggerito, da un’altra utente, di cercare su internet i termini “dress code magistratura”. Se “Francesco Bellomo” non vi dice niente, fate anche voi questa prova.
La sinossi ufficiale esordisce così:
A Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato a Roma, è arrivato un esposto contro il magistrato Primo Aquilani. Un giovane magistrato alle primissime armi viene incaricato di redigere la relazione disciplinare sugli inquietanti corsi di formazione tenuti dal collega messo sotto accusa, che sembrano essere stati la causa della tragica morte della figlia dell’autore dell’esposto.
Il romanzo mi ha colpito così tanto [le ragioni nelle prossime righe] che ho chiesto a Elisabetta di parlarne con me per scriverne qui, sul blog. La ringrazio di aver risposto a tutte le domande, svelandoci un po’ di sé e della sua scrittura, parlandoci un po’ del… “metodo Liguori”.
“Caso Francesco Bellomo”, dicevo. Elisabetta Liguori, cosa ti ha colpita della vicenda e perché hai deciso di tirarne fuori un romanzo? Quale il confine tra fatti e invenzione?
Il caso è stato la scintilla d’innesco per la mia storia. Mi colpì moltissimo, quando ne venni a conoscenza, proprio per il suo grande potenziale narrativo. Toccava tasti dolentissimi: la mancanza di futuro per i nostri giovani laureati, la fragilità emotiva che si nasconde dietro l’arte della seduzione, la capacità di immaginare mondi dove mondi non ci sono, i confini inafferrabili della manipolazione psicologica, la misura di ciò che siamo davvero disposti a fare per realizzare i nostri sogni. E, ovviamente, i giochi segreti nei palazzi del potere. Ho deciso di esplorare quei temi trasformandoli in fiction, perché non conosco altro modo per comprendere ciò che mi affascina e m’interroga.
Dal tuo lavoro quotidiano mi pare emergano anche altre ispirazioni per l’invenzione: la conoscenza della magistratura, ovviamente, ma anche le dinamiche dell’adozione. Come hai fatto convivere i tuoi saperi tecnici e le esigenze narrative?
Nelle scuole di scrittura americane viene chiamata expertice e non se ne può fare a meno. La conoscenza tecnica e concreta di ciò che vuoi raccontare, infatti, è un ottimo punto di partenza. Forse lo strumento che rende una scrittrice o uno scrittore più sicuri e saldi nel proprio mestiere. Per questa ragione, dopo aver scelto la forma del romanzo, ho cercato di mettere nella mia cassetta degli attrezzi ciò che, per lavoro, per esperienze professionali o per puro caso, conosco meglio. Da venticinque anni dirigo il Tribunale per i Minori di Lecce, un ambiente di provincia, soggetto a regole rigide posto al centro di un mondo difficile e vero; qui ne ho viste e ascoltate tante di storie come queste. È stato molto facile per me, quindi, far convivere sapere tecnico ed esigenze narrative; sarebbe stato più difficile se non avessi potuto farlo. Quello che volevo raccontare era la verità di tutti, la verità possibile. Nelle opere di fiction, di solito ci si spinge ben aldilà dei meri fatti di cronaca ed è esattamente ciò che ho fatto anche io, partendo dal dato reale a me noto per poi giocare con le probabilità, con il what if, spingendomi fin dove la mia mente riusciva a spingersi, senza mai perdere di vista la verità. Le cose nella realtà non sono ovviamente andate come ho le raccontate, ma sarebbe senza dubbio potuto accadere.
La storia nasce per essere ascoltata, a me sembra evidente dall’andamento della narrazione. Il protagonista conduce chi ascolta nei meandri dei suoi pensieri e sentimenti, goccia a goccia a volte. A tratti mi sono quasi sentita in imbarazzo, nell’entrare nella sua intimità. Sono certa che è anche conseguenza dell’efficacia della voce, in ogni caso la tua bravura di narratrice era nota e questa prova lo evidenzia ulteriormente. Quali sono le differenze tra scrivere per la carta e scrivere per l’audio?
Le differenze sono tante, ma non tantissime. Sicuramente nel caso di un romanzo letto a voce alta il rapporto con il lettore/ascoltatore deve essere oggetto di una cura più attenta e puntuale. La storia viene sussurrata direttamente nelle sue orecchie, parla alla sua pancia, produce suoni che devono restare nella sua mente e, possibilmente, creare una forma dolce di dipendenza. Il nemico è l’abbandono, il sonno, la mente che vaga altrove, la distrazione, lo sganciamento. Per questo scopo esistono tutta una serie di strumenti tecnici quali il cliffhanger [interruzione brusca in corrispondenza di un colpo di scena, ndr], la tenuta dei dialoghi, le durata delle pause descrittive, i respiri, il recapping, per acchiappare l’ascoltatore. Si tratta di ausili di scrittura tecnica che, diversamente dall’ispirazione letteraria, lo stile o la visione dell’autore, possono essere insegnati e dunque appresi. Ciò detto, il resto non cambia: si scrive per amore, per necessità, per rabbia, che sia fatto a voce alta o sulla pagina, le domande, le motivazioni, la sofferenza, la fatica, l’ostinazione e la gioia vitale di chi scrive sono le medesime.
Come è stato sentire la storia letta da un uomo? Nel leggerla e rileggerla, durante la stesura, te la immaginavi così?
Ascoltare il mio personaggio mi ha dato i brividi. Non avevo immaginato nulla di specifico prima, ma so di aver molto desiderato. Desideravo ascoltare il giovane uomo tormentato a cui aveva dato vita, mentre parlava, pensava e si muoveva nello spazio. Nello stesso tempo avevo molta paura di lui, come il dr. Frankenstein della sua creatura. In verità, ne ho ancora molta.
Come hai lavorato sul personaggio principale? Ci racconti qualcosa dell’immedesimazione che, immagino, sia stata da parte tua necessaria?
Credo di aver conosciuto personalmente il giovane magistrato, protagonista della mia storia, anzi credo di averne incontrati molti come lui tra i miei coetanei. Individui irrisolti, schiacciati dal bisogno di arrivare ed essere riconosciuti attraverso lo sguardo altrui, emancipandosi da modelli sociali o famigliari castranti o fortemente idealizzati. Il mio è un eroe che crede di intraprendere un certo tipo di viaggio, invece si ritrova a farne uno del tutto diverso, nella direzione opposta. Un eroe attratto dalla propria ombra che, come sempre accade in questi casi, pur essendo un uomo mi somiglia molto.
Per darvi un’idea della “voce” del protagonista, ecco un passaggio del romanzo:
Perché Aquilani aveva scelto la guerra di Antonino tra tutte le altre guerre possibili, con le quali far colpo sui suoi allievi? Non contava quanto fosse saldo il sistema fondato da Aquilani, la sua inattaccabilità, la sua immoralità, la forza delle sue costruzioni, era sempre nel singolo che si celava l’anello debole. Lui aveva scelto di raccontare quell’anello debole. Una sola persona capace d’inceppare un intero meccanismo. Sapevo quanto fosse importante, lo sapevo perché già molte volte, in altri contesti, in altri momenti, era stato io quell’anello. Ero stato anche io un bambino pieno di domande, un erede infelice con l’insana abitudine di complicare ogni cosa. Era stata l’infelicità a rendermi complesso e dunque vulnerabile, ma potenzialmente infinito. L’infelicità accelera il pensiero, lo rende imprudente, vischioso. Gli infelici hanno radici umide, che rammollano e infettano il terreno, possono distruggere le piante più vigorose. L’infelicità libera gli ormoni. Gli infelici sono anelli deboli. E Aquilani era infelice. Per la miseria, se lo era, nonostante il suo enorme successo. Talmente infelice da poter narrare la parabola che dall’infelicità porta alla felicità come nessun altro.
Un’altra sensazione provata nell’ascolto è stata quella di… soffocamento. La storia è capace di calarci in un ambiente (come tanti, certo, ma non cambia la sensazione) fatto di ipocrisie, non detti, caste chiuse per ceto ed età (non continuo). L’ambiente, lo sfondo, ci viene sempre dalle parole in prima persona del protagonista. Come hai lavorato sulla differenziazione tra “primo piano” e “scena”, considerato che tutto doveva essere narrato solo a voce?
Quello descritto è l’ambiente che il protagonista crede di conoscere meglio, perché ci è nato dentro. Si tratta dello stesso ambiente del padre, infatti. Le sue descrizioni, dunque, sono autentiche, tangibili, tattili, ma mentre nella prima parte del romanzo sono filtrate dal desiderio e dal senso di appartenenza, gradualmente cambiano colore. Quando il protagonista è costretto ad attribuire al suo mondo, e ai suoi abitanti, moventi inediti e imprevisti, al suo desiderio si aggiunge lo stupore. Lentamente subentra la vergogna, intesa come emozione secondaria, che deriva cioè proprio dalla scoperta di essere dissimili dal gruppo sociale a cui si credeva di appartenere o a cui si desiderava appartenere.
La scrittura di questa storia ha un’origine laboratoriale, giusto? Ci racconti qualcosa di questa esperienza?
Durante la stesura di questo testo, ho avuto la fortuna d’incontrare un editor molto abile, Leonardo Patrignani: è stato lui a fornirmi gli strumenti tecnici specifici di cui ti parlavo, strumenti che io non utilizzavo abitualmente. Leonardo ha giocato con me, mi ha messo sotto pressione, ha lottato in un costante corpo a corpo con i miei personaggi, mi ha provocato, ha rotto molti dei pattern che tendevo a ripetere scrivendo, aprendo scenari alternativi. Questa cosa ha funzionato, soprattutto poiché si trattava di un testo lungo e articolato in episodi, per il quale era necessario sforzarsi di tenere sempre alta la tensione narrativa e resistere.
Cosa desidereresti per questa storia? Un destino sulla carta te lo auguri?
Oh, sì, assolutamente sì. Datemi la carta, vi prego, non posso farne a meno. Un eroe che non finisce anche sulla carta non può durare per sempre.
Non voglio svelare il finale, ma te lo chiedo: amor vincit omnia?
No, non credo purtroppo, credo che la verità sia più forte dell’amore, ma neanche quella vince su tutto.
Francesco Bellomo è stato di recente assolto dalle accuse di stalking e molestie. Rispondimi solo se vuoi: le sentenze stabiliscono la verità o rispondono semplicemente a codici interpretabili?
Non c’è nulla di più difficile da provare in un processo della manipolazione, del plagio, e quella di Bellomo è stata una storia di manipolazione. Dal mio punto di vista, ovviamente solo dal mio, resta più interessante capire come sia stato possibile, e come lo sia ancora, che degli individui preparati, intelligenti, colti, maturi, in perfetta salute, abbiano potuto accettare, e forse ancora oggi accettino, metodi di studio e di lavoro tanto manipolatori. Questa, in sintesi, è la domanda che mi ha spinto a scrivere un’opera di totale fantasia come è “Il metodo Aquilani”.
Elisabetta Liguori ha scritto anche “Il credito dell’imbianchino” (Argo), in cinquina al premio Berto, “Il correttore” (Pequod), “La felicità del testimone” (Manni); cura laboratori di scrittura e lettura creativa, è responsabile della collana Le sagge per Collettiva edizioni indipendenti.
Il suo profilo Instagram: @elisabetta.liguori68