Autore: Loredana De Vitis

“il minore dio creatore” interpretato da Lea Barletti

Per l’ultima delle messinscena d’affanni in cinque quadri e un casello ho diretto Lea Barletti in una “rilettura” de “il minore dio creatore”.

Lea ha improvvisato, assieme a me, la maggior parte delle scene. Poi ha lasciato che le suggerissi alcuni gesti. Infine mi ha consentito di indulgere. La ringrazio infinitamente di questo grande regalo.

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“il minore dio creatore” – scritto e diretto da Loredana De Vitis, interpretato da Lea Barletti

mình thật tuyệt (diario) / giorno 3, parte terza

Alessandra-la-grande-Tigre è tornata in Vietnam pochi giorni prima del mio arrivo. Ha impacchettato tutto nutrendo il desiderio d’avere, un giorno, una casa come il Castello errante di Howl, ed è sbarcata – da Roma – di nuovo qui, dove una parte importante della sua vita è cominciata. Camminando lungo la riva del lago Hồ Tây, commentiamo teneramente i baci furtivi di giovani coppie sedute su romantiche (a maggior ragione se sgarrupate) sedie a sdraio all’ombra di piccoli ombrelloni cocacola.

La parte importante della sua vita cominciata in Vietnam ha anche due ragioni che si chiamano Roberto-il-lungo-acquatico e Iris-la-piccola-Tigre. Finalmente li rivedo, Roberto altissimo e Iris con quel suo sorriso così… violento! Sorrido salutando il-lungo-acquatico perché anche qui, come mi hanno raccontato succede in Italia, l’altezza di Roberto è argomento di commento, quando non proprio di conversazione. M’è successo con l’ambasciatore (“E insomma quella volta… sono entrati così nella mia stanza, lei e questa bambina e quest’uomo… altissimo! Lo conosce? È così alto, e dire che io sono alto!”); e m’è successo con mister-Tâm (“Are you a journalist? Yes! As Roberto, Alessandra’s husband. He is so tall!”). E via racconti su questa famiglia degna d’un fumetto.

Osservando Iris continuo a sorridere: gioca allegra sul prato mentre con Ale si sovrappongono pensieri sulle ore trascorse e le cose viste, sul popolo vietnamita, la storia e la filosofia, su cosa speriamo per noi, su cosa ci auguriamo accada domani. Domani, quando “mình thật tuyệt” concluderà i suoi primi nove mesi di scritti, immagini ed e-mail.

Ed ecco un’altra piccola grande storia cui ho la fortuna di assistere. Una delle case che Roberto-il-lungo-acquatico si è incaricato di vedere mentre la-grande-Tigre si occupa di me pare sia quella giusta. Con Ale e Iris lo raggiungiamo, tolgo anch’io le scarpe per entrare e cerco di restare in silenzio e in disparte nel corso della trattativa coi proprietari. Non voglio essere di troppo, non voglio turbare anche solo con la mia presenza un momento molto intimo. Roberto sorride ancora e mi spiega che farà tante, tante domande: “C’è sempre qualcosa che viene fuori all’ultimo momento. Ti sembra d’aver chiarito tutto, e invece…”.

Così attendo sull’uscio cercando d’osservare la conversazione con la coppia vietnamita che affitta quest’appartamento molto luminoso su due piani. Un edificio pensato per gli occidentali e a un prezzo per occidentali (in dollari). L’umidità del lago si sente fin dentro le ossa, mentre Iris è davvero una piccola-Tigre saltellando e prendendo possesso di ambienti che sente già suoi.

Io e Iris abbiamo un rapporto che alterna momenti di studio e diffidenza a grandi risate. Alterniamo questi sentimenti anche a cena. Siamo “da Paolo westlake”, dove la “traduzione” del mio progetto è stata concepita e nutrita e dove di concepimenti e nutrimenti ne sanno… a pacchi. Una storia, quest’ultima, che però non mi pare il caso di raccontare. Sul biglietto da visita di questo delizioso ristorante su tre piani c’è scritto “The traditional Italian thin crust pizzas baked on our fired pizza oven”. Sono ad Hanoi soltanto da tre giorni e l’Italia mi pare lontanissima. Perciò me la godo davvero con Paolo, Luca e Giulia e il via vai di vietnamiti alcuni dei quali sono vestiti come per andare in discoteca. Io e Iris facciamo a gara a chi è più piccola e capricciosa contendendoci decine di tappi di sughero. Scorre divinamente un vino bianco italiano che bevo per la prima volta e che infine quasi affoga pane, mozzarella, pomodori e altro di così semplice, buono e ben composto che mi pare d’aver raramente mangiato tanto bene in Italia.

Di ritorno, mi fermo a osservare una decina d’uomini che guardano la tv in una casa diroccata. “No, è in costruzione”, mi spiega Fabio, “qui gli operai lavorano tutto il giorno. Vengono spesso dalle campagne e non hanno dove andare. Per risparmiare, dormono nelle case che stanno costruendo. E si attrezzano come possono”.

Continuando a camminando, con un terribile mal di piedi, mi sorprendo a pensare d’essere sulla strada di casa.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 3, parte seconda

Si chiama Văn Miếu Quốc Tử Giám, “Tempio della Letteratura”, il posto che mi ricorda le ragioni della mia attrazione per le “cose orientali”. Entriamo e ho subito voglia di togliermi le scarpe. Mi guardo intorno, osservo cosa accade e ascolto Alessandra-la-grande-Tigre che con la sua tipica foga mi spiega dove siamo.

Quello che so è che mi sento molto bene, che respiro piuttosto profondamente, che il relativo silenzio dell’ambiente m’aiuta ad ascoltare meglio quello che sento. Attraversando i cortili, guardando i piccoli specchi d’acqua, cercando d’analizzare il “senso” delle geometrie degli ambienti, sento una fortissima emozione nel percepire il “peso” attribuito allo studio, alla conoscenza, al sapere.

Sotto uno dei porticati, decine di grandi stele di pietra sono adagiate su tartarughe giganti: così si ricordano i dottori di ricerca. E tutt’intorno una surreale quiete nonostante le decine e decine di turisti. E poi sassi, riproduzioni d’animali, un’architettura complessa e senza nemmeno un chiodo, teche con abiti di seta ricamata e carta e inchiostri, infine Confucio.

Cammini, passi attraverso portali il cui legno non devi toccare coi piedi, ascolti suonare troppi brevi minuti di antichissime melodie, poi non puoi che tentare di rendere omaggio a tanta bellezza. Chiedo ad Ale una foto sotto una delle grandi gru di legno vicine alla statua di Confucio. Da circa due anni piego quasi ogni giorno piccole gru di carta. Poi saliamo verso il tetto, per ammirare gli incastri del legno e le tegole decorate. Ovunque volano đồng. Anche noi ne abbiamo lasciati, non so dire il mio perché.

Spostandoci in macchina per raggiungere il Phủ Tây Hồ, il “Tempio della Dea Madre”, che Ale-la-grande-Tigre m’aveva spiegato da tempo essere “la più antica e autoctona delle forme di culto vietnamite”, passiamo davanti al Lăng Hồ Chí Minh, il mausoleo di Hồ Chí Minh. Poche battute tra me e Ale.

  • Voleva essere cremato.
  • Ah. E perché l’hanno imbalsamato allora?
  • Bella domanda.
  • Un personaggio così. Se dice “crematemi”, cavolo crematelo.
  • Ogni tanto scompare.
  • In che senso?
  • Penso vadano a… rifargli il trucco.

E tutt’intorno biciclette, grossi cesti con frutta e fiori su decine di biciclette. E motorini, qualunque tipo di trasporto su decine e decine di motorini.

Il Phủ Tây Hồ mi ricorda, all’inizio, certi giochi elettronici in cui velocemente devi preparare cibo orientale: riso e gamberetti da comporre in forme tutte uguali, come in tartine da mangiare in un boccone solo. Le bancarelle, lungo la strada che porta al Tempio, vendono questo genere di cibo, e molto altro. I doni alla Dea Madre sono frutta, dolci, ma anche lattine di birra o di coca. Ale sorride: forse è tutto… molto kitsch, ma non è la prima cosa che si percepisce. La prima è invece una straordinaria energia.

Insomma, dopo Confucio, eccomi al cospetto della Dea Madre. Riproduzioni d’animali anche questa volta su tutti gli altari. Tartarughe e gru, certo. Ma soprattutto noto i draghi attorcigliati. E tutt’intorno decorazioni di lacca dorata e rossa, divinità buddiste, incensi che si consumano piano, preghiere lievi. Voltandoci, il lago Hồ Tây d’un colore grigiastro.

Mi spiega la-grande-Tigre, placida, cosa possa significare affidarsi alla Dea Madre. Niente di “facile” all’orizzonte. Mentre cala il sole, acqua e cielo si confondono in una foschia che rende il nostro parlare uscendo dal Tempio ancora più… epico. Lentamente ci spostiamo lungo la riva del lago. Ci attendono Roberto-il-lungo-acquatico, Iris-la-piccola-Tigre e una cena molto attesa.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 3, parte prima

18 ottobre

La colazione con frutta fresca è rapidissima: io e Nhung abbiamo fretta. Il programma della mattinata prevede una riunione con Alessandra-la-grade-Tigre e Hanh (altra meraviglia con cui Ale ha lavorato alla “traduzione” del mio progetto qui in Vietnam), e un pranzo con l’ambasciatore Lorenzo Angeloni. Insomma, ci prepariamo per l’evento finale di “io sono bellissima”, la valigia non arriva e io sono senza sapone, senza calze e senza scarpe. Nhung m’accompagna al supermercato e mi guarda dubbiosa mentre scelgo soltanto prodotti vietnamiti. «Ma come», mi dice in un inglese quasi convulso, «con tutta la roba occidentale che abbiamo qui?». È che mi diverte molto osservare le etichette e aprire i barattoli per sentirne l’odore. Bagno schiuma, shampoo, della biancheria e una confezione di gomme da masticare che pare un astuccio di cachet. Alla cassa Nhung insiste perché verifichi il resto.

Ho fretta, sempre più fretta. Mi servono delle scarpe e devo tornare a cambiarmi per i miei incontri “ufficiali”. Lungo la grossa Au Co, il cui traffico riesci (incredibilmente) a dimenticare osservando il chilometrico nastro a mosaico colorato che la percorre, ci fermiamo – così mi pare di capire – al primo (e ultimo) negozio utile. Il mio piede, che è lungo 37 ma indossa il 38 perché è grassoccio, non entra nella maggior parte delle scarpine femminili disponibili in questo bugigattolo tutto specchi e tappeti. Un 39, mi serve un 39! Trovato: per qualche decina di đồng ne prendo un paio che ha troppa, troppa punta, ma che mi pare il meno peggio. Ho fretta, sempre più fretta. Nhung approva. Dice che “nonostante” siano basse e semplici vanno bene.

Quindici minuti per cambiarmi (Nhung approva anche questo) e via verso il bar dove m’aspettano Ale e Hanh. L’appuntamento è al Kinh Do Cafe, dove Catherine Deneuve s’è fermata durante una pausa delle riprese del film “Indocina”. Abbracci e sorrisi rendono Hanh ancora più bella. Minuta, delicatissima, elegante, ha una forza tutta sua nel commentare il programma della giornata di domani e il lungo percorso che ci ha condotte fin qui. Capelli neri e lunghi, dita sottili su un iPad foderato di pelle marrone, coordina le nostre ordinazioni parlando velocemente con un’assai antipatica vietnamita che entra ed esce dal retrobottega attraversando una tenda luccicante. Di tutto il buono che potrei ordinare, mi viene in mente soltanto dell’acqua. Vorrei dell’acqua fresca e un bicchiere, grazie. Poi? Niente, grazie. Dall’acqua fresca e un bicchiere. Hanh muove rapida le dita sull’iPad, Ale-la-grande-Tigre si sofferma su ogni dettaglio, io mi guardo attorno osservando le foto di Catherine Deneuve sulle pareti e mi viene in mente la volta che, dovendo per la prima volta dire cosa conoscessi della lingua francese, me ne sono uscita con oui je suis catherine deneuve. Che coraggio…

E di nuovo abbiamo fretta. Il pranzo con l’ambasciatore è in un elegante ristorante poco distante. Nomi e strade si confondono nella mente, saluti istituzionali lasciano presto il posto a chiacchiere informali su argomenti d’ogni genere, dalla cooperazione alla letteratura. Angeloni sorride quando ammette d’esser stato travolto dall’energia della grande-Tigre e sorrido anch’io nel mangiare ancora maluccio con le bacchette una sorta di tagliolini al granchio intinti in una gustosissima zuppa. Ci serviamo da grandi vassoi in acciaio, io comincio a riconoscere quello che mi piace e mi faccio consigliare qualcosa di nuovo, ci offrono yogurt per dessert. La domanda fatidica, prima o poi, sarebbe arrivata. Ed eccola.

Allora, dottoressa, cosa ne pensa? È soddisfatta?

Ci penso qualche istante, bevo un sorso di succo di lime.

Credo che “mình thật tuyệt” sia un bell’esempio di integrazione tra attività artistica, attività politica, impegno istituzionale e contributo imprenditoriale. Per nove mesi donne d’ogni età da ogni parte del Vietnam ci hanno scritto d’essere bellissime. Per me è un sogno realizzato, la prova che ho avuto una buona idea. Un’idea che funziona, che può “spostare” qualcosa anche in donne di una cultura tanto distante dalla mia. E la prova che una buona idea ha bisogno d’essere accolta, compresa, amata e diffusa. Come è successo qui.

Angeloni sorride ancora, guarda Alessandra e ci invita ad andare avanti. Non c’era neppure bisogno di suggerirlo: io e la-grande-Tigre ne parliamo da un paio di mesi. Non finisce qui. L’ambasciatore ci lascia, noi restiamo ancora mezz’ora a parlare dei nostri desideri.

E a proposito dei nostri desideri, è arrivato il momento di prenderci ora qualche ora per noi.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 2

17 ottobre

All’arrivo ad Hanoi il cielo è plumbeo e l’umido proprio come me l’avevano preannunciato. Sudo e mi confermo nell’idea di provare una e una sola invidia: quella per le persone che non sudano. Io sudo. È terribile. Sudo, sono le 8 del mattino ed è presto fatto il calcolo. Ho viaggiato per circa 24 ore tutto compreso (cioè comprese pure le sei ore di fuso in avanti). Eccomi in Vietnam. È il 17 ottobre, sudo e tutto va bene. Ho il mio visa-upon-arrival in tasca, compilo la richiesta coi miei dati, consegno la mia fototessera, pago 25 dollari, intasco la mia brava ricevuta e mi presento al gabbiotto per il controllo.

L’età delle donne vietnamite è impossibile da definire. Almeno, io non ci riesco. Consegno passaporto e visto a una ragazza che mi pare quindicenne, riprendo il passaporto con un sorriso e… azz!!!, infilo il corridoio sbagliato. La tipa urla! Oddio, che ho fatto? “Per di qua”, sembra dirmi con sguardo feroce. “I’m sorry”, sussurro. Poi corro a prendere il bagaglio. E aspetto. Sul nastro niente. Aspetto. Niente. Aspetto. Niente. Aspetto. Niente.

Altra quindicenne con un foglio: “DEVITIS”.

  • Miss Devitis?
  • Ehmmm… De Vitis, yes. What’s up?
  • Your baggage is lost in Moscow.
  • What’s???
  • Please, we have to compile a form.

Oh cazzo, ammetto d’aver pensato. Oh cazzo. Al banco dell’Ufficio Lost&found descrivo la valigia e spiego che, al momento, non so fornire né un numero di telefono né un indirizzo vietnamita ai quali rintracciarmi.

  • I’ll call you later. Ok?
  • Ok.

All’uscita dall’aeroporto m’aspetta mister-Tâm. Mi sorride e in un inglese placido e lento mi dice che aveva creduto d’aver sbagliato giorno. No, no, è che m’hanno perduto la valigia e ho dovuto compilare un foglio e poi… ufff, salve Tâm, lieta di conoscerti. Mister-Tâm ha fatto la guerra. Non mi dice granché su questo, ma l’essenziale sì, e immediatamente: Tâm ha fatto la guerra. In 45 minuti in auto tra l’aeroporto e Hanoi abbiamo il tempo di chiarire, appunto, l’essenziale. Io sono una giovane giornalista italiana coi genitori insegnanti, lui fa l’autista e con quei capelli nerissimi, lo sguardo deciso e mani grandi e ferme… ha fatto la guerra. La mia mente s’affolla di pellicole di film e documentari mentre dal finestrino osservo il paesaggio e il traffico. Mister-Tâm ha fatto la guerra e mi chiede della mia famiglia. Mi limito a rispondere alle domande piuttosto asetticamente, mentre nella mente le scene dei film e dei documentari sulla guerra in Vietnam si sovrappongono al paesaggio: l’acqua, la vegetazione, il cielo plumbeo, il traffico e, all’arrivo ad Hanoi, le contraddizioni d’ogni posto del mondo che si muove con questa velocità.

Giunta da Fabio, che m’ospita, ecco il mio angelo custode. Nhung è deliziosa e ha una soluzione per tutto: ho bisogno di rintracciare Alessandra-la-grande-Tigre che è arrivata in Vietnam da poco e ha cambiato numero (cinque telefonate, di cui tre in Ambasciata), ho bisogno di dire dove sono e dove far arrivare la mia valigia (tre telefonate in aeroporto), ho bisogno di un collegamento wifi per far sapere in Italia che sono viva (andiamo in un caffè), ho bisogno di uscire ma sono stanchissima (prendiamo lo scooter), non ho calzini e le altre scarpe sono nella valigia rimasta a Mosca (la soluzione per questa non ve la spiego). Casa di Fabio (e Fabio non c’è) è luminosa ed essenziale. Ci sentiamo, mi dà il benvenuto e m’invita a mangiare quello che mi pare. Ne approfitto e attingo dal frigo qualche nem cuốn. Sono piccoli rotoli di verdure e gamberi crudi che vanno intinti in salsa di soia chiara e piena d’aglio e peperoncino. Ci aggiungo un’insalata di cetrioli pomodoro e formaggio dolce e un dolce con ananas caramellato. Il cuoco, Tuấn, è bravissimo a mescolare sapori vietnamiti e italiani. Sono… cotta. Dopo un paio d’ore di sonno profondissimo, eccomi a scrivere sulle scale, in giardino. Mi pare un momento perfetto: posso restare a scrivere qui, nascosta nel fogliame, per un po’? Uhmmm, non ora. Bisogna muoversi.

In mattinata Nhung m’aveva fatto capire i fondamentali: sei sposata? vivi sola? da quanto tempo vivi sola? com’è casa tua? Poco più di 50 metri per una persona sola sono buoni, m’aveva fatto notare: qui in città tre persone vivono in 25 metri. E infatti la vita si svolge soprattutto per strada.

Nei miei giri pomeridiani con Alessandra-la-grande-Tigre che finalmente riesco a riabbracciare (“Non preoccuparti Lore, qui in Vietnam le cose si complicano con grande semplicità e con altrettanta semplicità si risolvono. Andrà tutto bene, vedrai!”), finalmente torno a esercitare con una certa lucidità l’osservazione del mondo. Ale m’aiuta a decodificare quello che vedo con un fiume di racconti suggestivi, sempre al confine tra realtà e leggenda. Per strada si legge, si studia, si tagliano i capelli, si mangia in “caffè” allestiti con piccoli sgabelli in plastica. M’immagino la bellezza di questi posti quando era il legno il principale materiale utilizzato. Il traffico è regolato dai clacson e dalla capacità di districarsi senza cadere (e non ho visto alcun incidente), l’architettura affianca vecchie case costruite in verticale e tempietti da cartolina a palazzi severamente sovietici e grattacieli di cemento e vetro.

Alessandra-la-grande-Tigre m’aiuta anche a ordinare l’abito che ho deciso d’indossare per la cerimonia conclusiva di mình thật tuyệt. Mi porta da Thao silk co., nella città vecchia, dove tre vietnamite con sguardo fiero e piglio deciso ci accerchiano: decido il tipo di seta e, nel farmi prendere le misure, opto per un modello tagliato “comodo”, un po’ più largo di come s’usa qui comunemente, del tradizionale ao dai.

  • I pantaloni? Chiedono se li vuoi neri o bianchi.
  • Ma no, la seta è blu, è un abbinamento orribile. (traduzione in corso)
  • Loro non ci badano. Aspetta. (traduzione in corso)
  • Chiedono se li vuoi di seta blu, ma ti costerà di più. (Ale sorride)
  • Di più quanto?
  • L’equivalente di due o tre euro. (Ale sorride e sorrido anch’io con un po’ d’imbarazzo)

Ordinato. La seta scelta è blu e lilla cangiante con disegni tipici, l’abito mi costerà 1.680.000 đồng (60 euro circa). Continuo a esercitarmi con la moneta locale acquistando poi una scheda telefonica (80mila đồng in un negozietto gestito da un ometto senza un braccio che ha capito subito che sono “straniera”), e mi gusto un frullato di mango dalla terrazza di un locale così nascosto e “oscuro” che mi pare d’essere in un altro film. Sono rapita dalla vista del lago Hoàn Kiếm, circondato dalle luci del caos contemporaneo e immerso nell’eterno antichissimo immobile presente della tartaruga d’oro che sono certa nuota nelle sue acque.

Stordita seguo Ale che racconta, stordita sorrido a bambine e bambine che mi paiono così socievoli, stordita stringo la mano a Fabio, stordita saluto la-grande-Tigre, stordita ceno con Fabio cui faccio domande sull’organizzazione della vita e della diplomazia, stordita e con molto impegno uso le bacchette per mangiare bún chả. È buonissima questa carne di maiale alla piastra bagnata in brodo di pesce e accompagnata da verdure e spaghetti di riso. Sono le 9, sono sazia di cibo, di parole, di immagini. Sono a pezzi. Fabio mi perdonerà, ma ho proprio bisogno d’andare a dormire. A domani. Buonanotte Hanoi.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 1

16 ottobre 2012, in viaggio

Sul mio volo Alitalia per Roma, partito con 20 minuti di ritardo per un “controllo tecnico” (ah sì? quale?), viaggiano un sacco di maschi adulti vestiti di scuro e coi capelli imbiancati. Le poche donne che vedo sono per la maggior parte con uno dei maschi adulti suddetti e indossano orecchini d’oro e perle e anelli impegnativi. Di donne della mia generazione “non accompagnate” ce n’è invece solo una: io.

A Roma, passata dal terminal 1 al terminal 3 in direzione Mosca, il panorama è decisamente più vario ma la sostanza non cambia. Molte donne di molti paesi, molte velate. Indossano grandi tuniche in tonalità dal bianco ghiaccio all’avorio con ricami e a volte perline, e sono sempre accompagnate da maschi adulti alcuni dei quali hanno copricapo di cotone. Sotto le tuniche, le suddette donne velate indossano soprattutto scarpe da ginnastica (sempre chiare, ma che varietà!), e pantofole d’ogni foggia. Al check-in la domanda fatidica.

  • Ha il visto per entrare in Vietnam?
  • Ce l’ho!
  • Posso vederlo?
  • Certo!
  • Ah, non ha l’originale col timbro rosso?
  • Beh, me l’hanno spedito via e-mail!
  • Ah, certo, allora va bene ma mi raccomando non lo perda altrimenti non la fanno entrare e dovrà tornare indietro.
  • Lo so.
  • Ecco, bene.
  • Ehmmmm… ok, allora me lo ridà per favore?
  • Cosa?
  • Mi ridà il visto per favore?
  • Cosa?
  • Il mio visto!
  • Ah certo, scusi. Ce l’ho qui. Certo, giustamente. Scusi.

Pochi metri più in là, mentre pago al volo “Norwegian Wood” prima di correre verso il gate stabilito, trovo la commessa con un’aria molto annoiata. Probabilmente io sono troppo seria, troppo formale, troppo cortese, e soprattutto mi macchio di un grave delitto: non voglio la busta.

Bevuto caffè e mangiate due merendine, comprata dell’acqua e osservato una varietà umana molto rassicurante, eccomi al suddetto gate. Accanto a me una coppia molto carina credo russa. Lei ha unghie impressionanti: curve e appuntite, lunghe un centimetro buono oltre i polpastrelli, sono percorse da un disegno geometrico rosa e rosso con piccole decorazioni dorate. Immagino che siano un’ottima scusa per non fare cose noiose (Non posso, non vedi che unghie?). Questa me la segno. Lui ha occhi chiarissimi e una cicatrice che dal lato sinistro della bocca segna la guancia per circa tre centimetri.

Ok, ho appena visto un piccione. Dev’essere lo stesso che ha visto Alessandra-la-grande-Tigre l’altro giorno e che ha pubblicato su faccialibro. A questo proposito, non vedo l’ora di rivedere lei, Iris-la-piccola-Tigre e anche Roberto-il-lungo-acquatico.

Il volo per Mosca parte con 40 minuti di ritardo o più, e da un nuovo gate. Questa serie di contrattempi ha comportato un’interessante coincidenza che però non ho nessuna voglia di raccontarvi. Andiamo oltre.

A bordo, un terribile sonno mi fa crollare con la testa sul finestrino e un rivolo di saliva di cui mi accorgo appena in tempo. Pranzo saltato. Amen. A parte la sfortuna dell’ultimo posto a metà cabina, cosa che mi impedisce di abbassare il sedile, sono comoda. Accanto a me nessuno e il signore passata la quarantina brizzolato con fede d’oro giallo lato corridoio è molto, molto educato. Legge Ken Follet dopo aver dato una rapida occhiata a la Repubblica. The niente male e due altre merendine. Sul sedile davanti si guarda su iPad “Wanted”. Quant’è bello Morgan Freeman? Parecchio. Però devo ammettere che anche James McAvoy ha un suo perché. Lo ammetto. Ammetto anche che qualche anno fa questo era praticamente l’unico genere d’uomini che mi piaceva sul serio: ero nella fase piccoli, belli e tormentati. Per fortuna ho smesso. È una fase dalla quale ogni donna occidentale dovrebbe uscire, secondo me.

Mosca. Banco transiti, altri controlli, breve attesa, ultimo imbarco. Sul volo per Hanoi Aeroflot tiene tantissimo a farci sapere ogni possibile dettaglio tecnico: come prendiamo quota, dove siamo, cosa succede esattissimamente ogni dieci minuti. Che ansia. Perché devo sapere tutte queste cose? Preferisco osservare russi e vietnamiti che attorno a me decidono di mostrarmi i calzini assieme a una serie di odori corporei che preferisco non identificare.

Tra frustranti tentativi di riposare, mangio cibo che credo venga considerato “internazionale” e mi dedico con molto impegno alla visione di film in inglese. Il massimo volume nelle cuffie monouso è così basso, in proporzione a quello di chissà che diamine dell’aereo, che l’osservazione di russi e vietnamiti è inevitabile. Sulla sinistra, dall’altro lato del corridoio, un ragazzone in calzini blu e vecchia borsa in cuoio beve continuamente coca corretta con whisky, o meglio whisky corretto con coca (le assistenti di volo ne sono divertite), a destra un paio di vietnamiti – dopo ripetuti tentativi di incastro – si separano (il primo passa alla fila davanti, il secondo mi sorride poggiando i piedi sul sedile accanto al mio).

Otto ore sono lunghe, per quanti film tu possa vedere quanti caffè bere quanti tentativi di lettura fare quanti sorrisi scambiare quanto cibo ingurgitare quanto sonno riuscire o non riuscire ad avere.

  • Fish or meat?
  • Fish, thanks.
  • You’re welcome.

Otto ore così, ed eccomi. Eccomi finalmente ad Hanoi.

messinscena d’affanni / quadro 5 di 5, su “il minore dio creatore”

La parola “fine” m’è sempre piaciuta. Provo un senso di compiutezza soltanto a sentirla. Fine. Finito. Concluso. Le mie messinscena d’affanni si sono chiuse il 22 settembre 2012 (scheda). Grazie per l’ultima volta a Ubaldo che ha colto molto bene il senso di “svuotamento” che ho desiderato dare alla serata.


“Messinscena d’affanni” è finita. L’ultima foglia è caduta il 22 settembre, in una piacevole e calda serata di inizio autunno. Il racconto messo in scena è stato il minore dio creatore. A dire il vero, più che messo in scena, si potrebbe dire messo in video. Sì, lo so non si dice e, forse, non vuol dir nulla. Ma è proprio così. Perché grazie all’eleganza, l’espressività e potenza vocale di Lea Barletti, il racconto di Loredana De Vitis ha trovato una nuova vita e una nuova dimensione. A fare tutto il resto ci ha pensato il contesto che non si finirà mai di elogiare: km97.

E non dipende dall’assenza o presenza di occhiali che offuscano. “Mi tolgo gli occhiali e mi godo il panorama”, scrive Loredana nel migliore dei suoi racconti. No, in questa serata è tutto vero, tutto creazione del personalissimo e intimo “minore dio creatore che plasma per me quello che voglio” in molto meno dei canonici 7 giorni della creazione.

A fine serata c’è l’abbraccio virtuale di Loredana a tutti i presenti. In attesa di qualche nuova fulminante iniziativa che siamo sicuri arriverà presto. È un arrivederci, non è un addio, ma si potrebbe chiudere, tuttavia, con le parole di Paolo Conte: “È tutto un grande addio, un giorno Gondrand passerà, col camion giallo porterà, via tutto quanto e poi più niente resterà”.

testo a cura di Ubaldo Villani-Lubelli, immagini di Annalinda Piroscia

chi e cosa c’è dietro la sigla UVL

Ubaldo Villani-Lubelli è il mio spacciatore ufficiale di musica elettronica e l’autore delle surreali cronache delle mie messinscena d’affanni. Per il suo 34mo compleanno voglio svelare come tutto è cominciato, pagandogli tra l’altro un conto da lungo tempo in sospeso. In un giorno che non ricordo più del luglio 2010, nel giardino di casa sua, ci facevamo delle grandi risate parlando delle mie storie d’amore inventato. Ubaldo le aveva lette in anteprima e nel commentarle se n’era uscito così: rapsodiche, eleganti, post-moderne. È stato a quel punto che gli ho chiesto: «Posso scriverlo in quarta di copertina?». Per uno come Ubi (questo è il suo nomignolo, una volta per il compleanno – complice Alessandra – ho cercato una decina di motti latini con questa particella e ne abbiamo riso per giorni), la domanda era retorica. Ha risposto in una frazione di secondo: «Certo!». E io: «Firmiamolo “UVL”, come fosse chissà quale rivista». Altre risate e un altro caffè.

Insomma, UVL sta per Ubaldo Villani-Lubelli. Uno che ha una laurea e un dottorato in filosofia, uno che fa il ricercatore a Lecce e il giornalista freelance per testate nazionali raccontando e commendando la politica del “paese più odiato del momento” (cit. UVL). Uno che ha quattro tatuaggi marchio del suo primo, ormai mitico, “periodo tedesco” e i capelli che crescono praticamente solo in verticale. Uno che prova particolare gusto nel passare dalla seriosità più compita alla provocazione più scorretta. In fissa col muay-thai da un paio d’anni scarsi (almeno ch’io ricordi), ti sorprendi di tanta passione per quella cosa che chiamano “pallone” considerato il resto di cui scrive. Suo Potsdamer-Platz, un blog che raccoglie pezzi suoi e proposte di lettura su politica, attualità e cultura in Germania; suo Zampanò, sulla testata online 20centesimi, altro blog in cui periodicamente ci ricorda che non c’è nulla di nuovo sotto il sole e che basta rileggere certi classici per comprendere quello che accade. Tutto molto semplice. Tutto qui. Tutto qui? «In effetti sono il festival delle contraddizioni», sorride lui. “Esattamente come le persone vive”, come ha scritto di me una volta Gianluca Bassi.

Ubi, adesso di te dici “lavoro come ricercatore in Storia delle Istituzioni politiche e parlamentari alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Salento”, ma io ricordo la mia reazione la prima volta che ho letto “filosofo”. Ti definivi così fino a non molto tempo fa. Era inquietante.

(ride) «Lo spunto me l’hanno dato in Germania. Lì amici, collaboratori e colleghi dicevano “sei un filosofo” volendo fare una sintesi dei miei interessi. Ero perplesso io per primo, e in fondo era una definizione parziale come lo sono tutte le definizioni. In ogni caso, “filosofo” rivela un’attitudine. Sono stato in Germania già nel corso degli studi universitari, poi per il dottorato al Thomas-Institut. Ho lavorato principalmente all’edizione di testi medievali, fatto ricerca sulla filosofia tardo-medievale tedesca. In seguito, come ricercatore a contratto a Colonia, ho insegnato filosofia medievale e approfondito interessi filosofici e storici».

Puoi fare i nomi dei filosofi su cui hai lavorato? Te lo chiedo perché conosco già la risposta: non li conosce nessuno.

(ride) «Soprattutto Enrico di Lubecca, ma anche Meister Eckahrt, Raimondo Lullo, Domenico Gundissalino e l’italiano Restoro d’Arezzo. Lo sai che è, anche se sconosciuto, importante quasi quanto Dante? Domenico Gundissalino, poi, mi piace moltissimo: sconosciuto in Italia, ha un nome stupendo. Non trovi? Tutti autori le cui opere (escluso Eckahrt e Lullo) non sono tradotte in italiano. Li ho letti in latino o in traduzione tedesca».

Torniamo a te. Com’è avvenuto il “passaggio” al giornalismo?

«Non lo so, anche perché un vero e proprio passaggio non c’è mai stato. Ho sempre fatto molti (e diversi) lavori nella vita, come impone oggi il mercato. So che ho sempre avuto un interesse molto forte per la politica. Mi è sempre piaciuto analizzarla, capirla e spiegarla. Mi sono sempre interessato, in particolare, di politica estera. Per questo è stato naturale, trascorrendo tanto tempo in Germania, approfondire quella tedesca. E allora dopo aver scritto, saltuariamente, di politica pugliese su giornali locali, ho pensato di professionalizzare questo interesse cercando contatti con testate nazionali che fossero interessate ad articoli di attualità e politica dalla e sulla Germania. Così sono arrivate le collaborazioni con L’Occidentale, Liberal, Longitude, ma anche la Fondazione italiani europei e tanti blog tra cui tengo a ricordare Berlino Cacio e Pepe di Andrea D’Addio».

Quando scrivi della Germania fai continui paragoni con l’Italia. E poi trovo divertente il modo in cui caratterizzi i personaggi. Ho letto descrizioni di tatuaggi e di caratteristiche caratteriali in articoli in cui non me l’aspettavo. Che cos’è? Un metodo di analisi?

(ride) «Qui torniamo alla filosofia, che secondo me dovrebbe essere la base di qualsiasi formazione, è la “disciplina” per eccellenza. Scrivo partendo da questa base, mi chiedo come posso suscitare interesse scrivendo di cose che a un pubblico generalista non interessano affatto. Cerco dettagli che possano essere espressione di una cultura, aspetti divertenti o emblematici. Cerco di trovare elementi legati alla letteratura o alla società. Per me la scrittura giornalistica non è fredda cronaca, è racconto».

Insomma hai quattro anime: filosofo e giornalista, italiano e tedesco. Non ti senti un po’ dissociato?

(ride) «Se è per questo sono anche traduttore dal tedesco e possiamo aggiungere che, da circa un anno, faccio tutto questo da Lecce, l’estremo lembo meridionale d’Italia, dove trascorro gran parte dell’anno – anche se passo diversi periodi in Germania tra Colonia, Amburgo, Monaco e Berlino. A settembre sarò, per esempio, ad Amburgo. Tornando alla tua domanda, in effetti vivo una sorta di shock psicologico costante». (ride) «Beh, come ho detto sono uno che viaggia parecchio e questo mi aiuta. Italiani e tedeschi sono popoli oggettivamente molto diversi. Per esempio in Germania si continua ad avere un’idea un po’ romantica dell’Italia, ma la realtà ora è ben altra rispetto a quella di Goethe. Si scontrano con l’inaffidabilità italiana e ci vanno pesanti, ma anche una parte consistente degli italiani usa toni inutilmente eccessivi e provocatori nei confronti dei tedeschi. Non è un bel periodo per chi, come me, si sente principalmente cittadino europeo».

Il tuo cursus è interessante e, se permetti, di una rapidità non così frequente in Italia. Ho un percorso simile quanto a velocità e mi capita di dover dire “non sono giovane!” quando chiedo di più. A te è mai successo? Scommetto di sì.

«Lavoro da 13 o 14 anni e in effetti in Italia mi è difficile spiegarlo. Si sa: qui fino a 35-40 anni sei considerato “giovane”. Questa pessima retorica giovanilistica non mi piace. Sono adulto, mi ritendo tale e voglio essere considerato tale. Mi è capitato d’avere scontri per questo. In Germania, invece, non mi è mai successo, conta soltanto quello che produci».

Immagino di poterti chiedere comunque cosa vuoi fare da grande.

«Voglio scrivere, scrivere è il mio leitmotiv, la cosa che più mi piace, che sento maggiormente. Spero di poterlo fare con maggiore intensità. Vorrei essere una finestra costantemente aperta sulla Germania, raccontarla e spiegarla – a prescindere dove mi porterà la mia vita, in Italia o altrove».

Post scriptum. Ho scattato personalmente le foto a corredo di questa intervista. Guardate attentamente la prima: non è carino il cane di peluche nella vetrina alle spalle di Ubi? 😉

messinscena d’affanni / quadro 4 di 5, su “chatt’ami ti prego chatt’ami”

Per la quarta (e penultima) volta il caro Ubaldo si diverte a scrivere delle mie “messiscena”. In deliziosa forma di chat, ecco un dialogo con l’amico Dario Goffredo, assente giustificato il 21 luglio 2012 (scheda), quando al km97 abbiamo drammatizzato il mio racconto “chatt’ami ti prego chatt’ami”.


12.26
Ciao Dario!
12.29
Ciao, Ubaldo!
12.31
Come va?
12.33
Insomma, il matrimonio è stato faticoso.
12.35
In effetti i matrimoni sono sempre faticosi… e tutti uguali. Mai nessuno che esca fuori dagli schemi. In ogni caso te lo sei meritato. Ti ho dovuto sostituire! 🙂
12.36

12.37
Si, lo sai, lo sai! Ma è andata bene. Sono cose che mi divertono.
12.39
Racconta, dai!
12.40
Non te lo meriti, ma è stata una bella serata, a parte il fatto che mancavi tu.
12.41
Insisti… non potevo!
12.42
Ci mancherebbe pure che potevi e non fossi venuto. Comunque: bellissima serata estiva. Cielo stellato, bella musica.
12.44
Cristina Cagnazzo?
12.45
Sì, ieri era tutta in rosso. Questa volta ho notato anche il fiore rosso sui capelli.
12.47
🙂
12.47
Molto bravo anche Giovanni. Un attore naturale.
12.48
Non lo conosco.
12.49
Dovresti … conoscerlo, intendo.
12.50
E Andrea?
12.50
C’era anche lui. Sfinito come al solito. Ma era tutto organizzato alla perfezione. Come sempre. Quel Casello è proprio bello! … Poi c’erano i quadri di Monica Lisi, i disegni di Jack Bollino eccetera.
12.53
Un po’ ripetitivo?!
12.54
No, ma che dici… e poi: non sei mai venuto… sorvolo e non infierisco! C’erano anche dei vecchi computer a fare da sfondo e delle tastiere, servivano alla messa in scena del racconto. E, poi, ancora: candele e delle sedie…
12.57
… quali sedie?
12.58
… quelle da chiesa… non so come si chiamino.
13.00
Ah…
13.01
Ho capito… che non hai capito. È la “morale dei miei” di cui parla Loredana nel racconto … ma l’hai letto il racconto?!
13.02

13.02

13.03
E Loredana? Era il suo compleanno…
13.04
No, non proprio, era ieri. Comunque era felice, almeno così sembrava. Rimandata come attrice, promossa come scrittrice.
13.06
Ahahah
13.07
Ha anche presentato il suo nuovo libro: “tanto già lo sapevo”.
13.08
Che bella sorpresa, sarà contenta?
13.09
… penso di sì.
13.10
Ok, ora ti lascio e vado a mare.
13.12
Ok, io penso a ciò che devo scrivere per raccontare e descrivere la serata.
13.14
Sono proprio curioso.
13.15
Fai bene ad esserlo…
13.16
A cosa stai pensando?
13.17
Be patient!

testo a cura di Ubaldo Villani-Lubelli, immagini di Annalinda Piroscia

messinscena d’affanni / quadro 3 di 5, su “Voglio venire via con te”

Il mix voce recitante / chitarra elettrica / danza contemporanea / arte contemporanea pare abbia sortito l’effetto che speravo: un piccolo, grande shock! Ecco il racconto del terzo appuntamento (9 giugno 2012, scheda) della rassegna messinscena d’affanni in cinque quadri e un casello, ispirata alle mie “storie d’amore inventato”.


Il centro del mondo non esiste. Eppure una qualsiasi città nel profondo Sud dei Santi può essere il centro di un microcosmo, il luogo di persone di provenienza diversa – Melbourne, Harlesden, Watford, Amsterdam, Petilia Policastro, Manduria, Brindisi, Lecce. È il bello della società moderna: varia, multiculturale, eterogenea e imprevedibile. È questo il senso più profondo dell’opera di Monica Lisi che ha fatto da cornice allo spettacolo ispirato al racconto Voglio venire via con te di Loredana De Vitis realizzato al km97, che non è il chilometro di una superstrada qualsiasi, ma un suggestivo ex casello ferroviaro già restaurato e decorato (divinamente), per l’occasione, dalla solita “insopportabile” pignoleria della protagonista indiscussa della serata: Loredana De Vitis.

Vittima, si fa per dire, delle maniacali richieste devitisiane il malcapitato Andrea Verardi, ormai candidato ufficiale, dopo tre serate e quattro mesi di terapia al fianco di Loredana, al ruolo di martire, santo, beato e se vi viene in mente qualcos’altro… proponetelo pure. Il martirizzato Andrea è costretto a girare tutta la sera a risolvere problemi e a migliorare la già ottima organizzazione: dal suono alle candele, dalle luci alla musica fino alla vendita dei libri (di Loredana, naturalmente). Per Andrea ci solo desideri altrui da realizzare. Ma si sa. La perfezione è una bestia che non lascia spazio all’improvvisazione. E poi lo fa benissimo.

A presentare la serata c’è la varesina (l’accento non lascia alcun dubbio) Giovanna Parmigiani, antropologa di professione. Straniera in ogni luogo, si spera che almeno al km97 abbia trovato, per poche ore, pace, accoglienza e casa. Giovanna Parmigiani ci ha ricordato quanto i testi di Loredana De Vitis siano ricchi di spunti sulla sapienza del corpo. Amen.

La musica dark, intensa e penetrante – ma soprattutto inedita – della serata è della bravissima Cristina Cagnazzo. Per darsi un tocco più femminile indossa un vestitino estivo, un bel rossetto rosso e un impresentabile fiore rosso sui capelli. Promossa. In ogni caso non si ben comprende se il carisma e il magnetismo che emana siano dovuti al suo fascino, alla sua bravura o al potere della chitarra elettrica. Forse una combinazione e miscela perfetta di questi tre elementi.

Lo spettacolo è poi completato da Alessandra Pallara e del suo phisique du rôle. La sua performance di contorsioni sensuali, leggiadre ed elastiche riempiono lo spazio… fisico e mentale. La Genesi alle sue spalle, un quadro dell’onnipresente (quando c’è di mezzo Loredana) Monica Lisi, s’intona con il linguaggio del corpo di Alessandra Pallara che in pochi metri quadrati non solo deve aver percorso diversi chilometri ma anche, cosa molto più difficile e complessa, comunicato il senso della vita e dell’esistenza. Il rapporto tra linguaggio e scrittura, tra corpo e vita. I suoi movimenti e il flusso energetico sembravano rappresentare l’albero della vita.

testo a cura di Ubaldo Villani-Lubelli, immagini di Annalinda Piroscia

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