Tag: unisalento

segni particolari: discalculico

Una bella storia di tenacia, di fiducia in se stessi, di passione per lo studio. Una storia divenuta “virale” oltre ogni aspettativa: l’abbiamo costruita assieme a Matteo Notarnicola, comunicando come all’Università del Salento un talentuoso studente discalculico sia riuscito a laurearsi in Matematica grazie all’aiuto di servizi dedicati e soprattutto alla propria energia e capacità di mettersi alla prova.

Matteo ha 25 anni, è originario di Veglie (Lecce) e il 25 ottobre scorso è riuscito a raggiungere il suo primo traguardo accademico dopo un inizio non proprio semplice. L’immatricolazione nel 2014, e nel secondo semestre il primo stop: nonostante nel percorso delle scuole superiori Matteo non avesse incontrato particolari difficoltà, all’Università ogni prova parziale scritta sostenuta va male e non riesce a sostenere alcuna prova orale. È qui che entra in scena Eliana Francot, docente di Geometria e Delegata del Rettore alla Disabilità, con una particolare competenza in tema di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). In aula Francot parla ai suoi allievi di questi disturbi, di cosa sono, di come si manifestano e del fatto che dal 2010 esiste una legge, ancora poco conosciuta, che tutela i diritti degli studenti che li presentano. Un campanello suona nella mente di Matteo, ed eccolo rivolgersi al “Servizio di Consulenza – Sportello BES/DSA”, attivo presso il Dipartimento di Storia Società e Studi sull’Uomo. Qui avvia l’iter diagnostico, e nel luglio 2015 il responso: “Disturbi misti delle capacità scolastiche”.

Secondo la diagnosi, Matteo possiede elevate abilità di ragionamento, ma “la decodifica degli stimoli verbali scritti non è automatizzata e la loro elaborazione risulta particolarmente laboriosa e lenta”: in pratica Matteo legge molto più lentamente dei suoi coetanei. Riguardo la capacità di scrittura, viene evidenziato che “in condizioni di compiti simultanei, come il prendere appunti o comporre un testo scritto, compare disortografia e lentezza esecutiva”. E ancora, sulle abilità di calcolo: “La prestazione di Matteo non è sufficiente riguardo il parametro rapidità del calcolo a mente” e “nelle prove che prevedono risposte a scelta multipla Matteo, potendo confrontare il risultato da lui ottenuto, riesce a individuare e correggere l’eventuale errore commesso. In assenza di scelta multipla Matteo mostra molta incertezza sui calcoli e malgrado imposti correttamente il procedimento, sbaglia 5 problemi su 10”.

Matteo non si scoraggia, anzi: ha finalmente capito il motivo per cui lo studio della matematica non va bene come vorrebbe. Ricomincia tutto da capo e, grazie al supporto dell’Ufficio Integrazione, comincia a utilizzare “strumenti compensativi” appositamente concordati per svolgere le prove scritte, in modo da “alleggerire” la fatica dello scrivere e del fare i conti a mente; usufruisce inoltre di altre opportunità dedicate, come quella di poter non rispettare i tempi di consegna delle prove. E così Matteo comincia a “volare”.

Questa storia a lieto fine, assieme alla voglia di Matteo d’esser d’aiuto ad altri studenti dislessici, l’abbiamo raccontata “fuori” dall’Università, col risultato di decine di articoli su testate locali e nazionali generaliste e specializzate, servizi televisivi e tanti post sui social.
«La professoressa Francot e la dottoressa Paola Martino mi avevano proposto di raccontare il mio percorso, con lo scopo sia di incoraggiare studenti universitari e delle scuole superiori a scommettere su se stessi», racconta Matteo, «sia di provare che è possibile per un ragazzo con disturbi dell’apprendimento riuscire a raggiungere – a patto di mettesi in gioco e lavorare sodo – un traguardo come la laurea. Non avevo alcun desiderio o ambizione a mettermi in mostra, né tantomeno la pretesa di avere un plauso particolare, ma solo la voglia di portare alla luce come un piccolo esempio di fatica e passione, accettazione di sé e voglia di superarsi, lavoro e coraggio possano renderci capaci di cose “belle”».

E ci sei riuscito Matteo, a giudicare dall’attenzione ricevuta. Come ti spieghi tanto riscontro?
«Non lo so, non mi aspettavo una tale eco. Forse sembra quasi… folle che un discalculico voglia (e riesca) a laurearsi proprio in matematica, considerata dalla maggior parte della gente una sorta di “mostro incomprensibile”. Forse si tratta di quel pizzico di follia che è capace di rapire l’attenzione di tanti. Un altro aspetto chiave è probabilmente che si è trattato della conferma che il duro lavoro ripaga: soprattutto oggi si desidera e si ha bisogno di sperare che qualsiasi investimento (di tempo, talenti, capacità…) porti a un risultato soddisfacente. Infine, un altro motivo di tanto “successo” probabilmente sta nella genuinità di una storia che racconta il realizzarsi di un sogno attraverso l’impegno, la costanza, la caparbietà e la continua ricerca di andare oltre i propri limiti».

Sui social network anche qualche commento un po’ “cattivo”. Ti è dispiaciuto?
«Non più di tanto: ciascuno commenta secondo quanto crede giusto e vero, è inevitabile. Le persone che mi conoscono e mi sono state accanto in questi anni di studio sanno come stanno davvero le cose, i miei amici mi supportano e mi stimano, i miei docenti non mi hanno trattato in modo differente rispetto ai miei colleghi e questo è ciò che conta per me, il resto è superfluo. Mi dispiace solo che abbiano criticato tanto i miei docenti per aver applicato le regole e avermi dato ciò che meritavo, nulla di più, nulla di meno (Matteo si è laureato con 109/110, ndr): sono docenti esemplari e tutto quello che ho imparato è in parte grazie al loro lavoro e alla loro disponibilità».

Ora sei a Roma per il percorso specialistico, quali sono i tuoi progetti a lungo termine?
«Il progetto migliore che potrei avere (e che effettivamente sto perseguendo) è quello di non smettere mai di imparare, di avere la consapevolezza che ho tanto da apprendere e che devo lavorare sodo per diventare un “bravo matematico”. Vorrei poter proseguire gli studi fino al dottorato e poi… chissà, magari fare della mia passione il mio lavoro».

Nell’Università del Salento la presenza degli studenti dislessici dichiarati tali è in aumento: siamo passati dall’iscrizione di 6 studenti dislessici nell’Anno Accademico 2015/16 ai 25 dell’Anno Accademico 2017/18. «È una realtà che non può essere trascurata», sottolinea la professoressa Francot, «e a cui l’esempio di Matteo ha tanto da insegnare. La legge 170 del 2010 parla di interventi specifici che la scuola deve mettere in atto per individuare precocemente i casi sospetti di dislessia e/o discalculia. La prima può essere diagnosticata già alla fine del secondo anno della scuola primaria, mentre la seconda alla fine del terzo anno. La valutazione diagnostica può essere fatta esclusivamente da specialisti quali psicologi e/o neuropsichiatri infantili e non dagli insegnanti che, stando a quanto previsto dalla normativa, hanno invece il compito di segnalare alla famiglia eventuali difficoltà manifestate dall’alunno e non superate neanche a seguito di attività didattiche di recupero messe in atto ad hoc. Con una diagnosi precoce e con l’adeguato supporto specializzato, uno studente può imparare a utilizzare gli strumenti compensativi e le strategie di studio più adatte al suo specifico disturbo e procedere così nel percorso di studi alla pari dei suoi coetanei. Diversamente, con il passaggio da un grado di scuola al successivo e quindi con l’aumentare delle richieste, in termini di impegno di studio, il rischio di fallimento scolastico, con tutto quello che ciò comporta a livello psicologico, diventa estremamente più alto», avverte la docente, «L’esempio di Matteo ci dimostra come questa eventualità non sia poi così remota. È infatti arrivato a iscriversi all’Università senza avere la piena consapevolezza del suo disturbo, il suo impegno nello studio gli aveva consentito di compensare abbastanza bene le difficoltà incontrate fino a quel momento, contribuendo così a ‘mascherare’ il disturbo stesso. Nel momento in cui si è trovato a dover fare i conti con le notevoli richieste di studio previste in un corso di laurea in Matematica, ecco che il suo impegno non è stato più sufficiente. La possibilità di veder tutelati i suoi diritti attraverso l’applicazione della legge e il supporto fattivo dell’Ufficio Integrazione hanno fatto sì che, dopo un primo momento di smarrimento, Matteo riprendesse in mano la sua vita e con coraggio e determinazione portasse a termine quanto aveva iniziato. Ora sa bene quali sono i suoi punti di debolezza», conclude Francot, «ma cosa ancora più importante sa quali sono i suoi punti di forza. È su questi ultimi che deve far leva per realizzare i suoi sogni».

questo articolo è stato originariamente realizzato per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

professione papirologo

Il professor Mario Capasso, ordinario di Papirologia all’Università del Salento, ha fondato e dirige il Centro di studi papirologici e il Museo papirologico dell’Ateneo. Delegato ai Musei dal 2008 e Presidente nazionale dell’Associazione di Cultura classica, è direttore – con Paola Davoli – della missione archeologica UniSalento a Dime (Fayyum, Egitto).

Professor Capasso, il suo è un mestiere che coincide così chiaramente con una grande passione che viene naturale partire dalla più ovvia delle domande. Com’è cominciata?
«Ho cominciato seriamente a pensare di dedicarmi al mestiere di papirologo frequentando i corsi di Papirologia all’Università di Napoli, negli anni Settanta del secolo scorso: mi affascinava il contatto diretto con il testo antico, la sfida, se posso usare questo termine abusato, che la sua decifrazione in qualche modo lancia a colui che ha il compito di decifrarlo. Decifrare per la prima volta un testo è stabilire un contatto diretto con colui che lo ha scritto o fatto scrivere, una persona vissuta molti secoli fa».

In vent’anni di scavi, abbiamo visto scoprire al suo gruppo di lavoro numerosi reperti importanti in modo costante. Quali sono i segreti di una così prolifica attività di ricerca?
«Non ci sono segreti in questo mestiere: occorrono passione, entusiasmo, abnegazione, fiducia. Quando sono impegnato in Egitto per l’annuale Campagna di Scavo, mi sveglio al mattino pensando che quel giorno sarà un gran giorno, un giorno di una grande scoperta. Poi magari la grande scoperta non si verifica, ma quale altro lavoro può definirsi altrettanto esaltante?».

Come descriverebbe l’emozione della più recente scoperta? Si prova sempre lo stesso sentimento?
«L’emozione che si prova nello scoprire un oggetto importante, che sia un papiro o una statua, è qualcosa di elettrizzante, una sorta di euforia, che ripaga dei tanti sacrifici che questo nostro mestiere ci impone. La scoperta dei due leoni è stato un momento esaltante, per noi dello staff, ma anche per gli operai, umili contadini che per poche lire egiziane al giorno svolgono un lavoro certamente faticoso, ma che sono orgogliosamente consapevoli del loro ruolo».

Parliamo della recente conferma alla presidenza nazionale dell’Associazione di Cultura Classica. Di cosa si occupa, in dettaglio, l’associazione?
«L’AICC, nata nel 1897, si prefigge di tutelare e divulgare le nostre gloriose tradizioni classiche. Organizza congressi, gare di greco e di latino, seminari, conferenze, viaggi di studio. Soprattutto vigila affinché le nostre discipline classiche siano adeguatamente rappresentate nell’ordinamento scolastico e in quello universitario».

Cosa della classicità crede che manchi di più?
«Delle tante definizioni che si possono dare della classicità mi piace quella che vuole che la classicità è il rispetto per l’uomo, la fiducia nella centralità dell’individuo, del suo pensiero, dei suoi sentimenti, della sua libertà. Al giorno d’oggi si tende a perdere di vista tutto questo, che rappresenta il grande insegnamento lasciatoci dagli antichi».

In un panorama di sempre più scarsi finanziamenti per la ricerca scientifica, quanto soffre la ricerca “umanistica” rispetto a quella – per esempio – con applicazioni per l’industria?
«La ricerca umanistica soffre moltissimo rispetto a quella scientifica, che, va detto, pure non gode di ottima salute, ma certo dispone di più risorse. Si tratta di una situazione non solo italiana ma certo in Italia, che è la culla della cultura umanistica e che riserva una percentuale irrisoria, appena lo 0,19% del PIL per la tutela del suo patrimonio culturale, noi umanisti viviamo una situazione che non esito a definire drammatica».

Lei lavora con giovani ricercatori e ricercatrici e tanti appassionati. Qual è l’augurio che si sentirebbe di rivolgere?
«Che con la fine di questa devastante crisi internazionale i fondi messi a disposizione delle Università possano tornare almeno a livelli decorosi, in modo che questi giovani possano concretamente sperare di dedicarsi serenamente alle loro ricerche: abbiamo già perso più di una generazione di giovani eccellenti; considero questo una sorta di peccato mortale verso di essi ma anche verso il futuro dell’Italia».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

nell’immagine i professori Capasso e Davoli con lo staff di ricerca in Egitto

la lingua della consapevolezza

Pensare di intervistare un “Accademico della Crusca” può dare qualche grattacapo: mentre ragioni sulle possibili domande da porgli ti chiedi se, pur nel convincimento d’aver maturato una certa consapevolezza nell’uso dell’italiano, finirai comunque per dire qualcosa che lo farà rabbrividire e che solo per cortesia non ti rimprovererà. Rosario Coluccia, Preside della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università del Salento, è stato nominato “Accademico della Crusca” il 12 dicembre scorso. Lo ha deciso il Collegio dell’Accademia con un metodo semplice, secco, diretto: la cooptazione. Ebbene la buona notizia è che, nel corso della nostra intervista su questo bel risultato peraltro dotato di un paio di ‘record’ (non si vedeva un pugliese nell’Accademia dai tempi del cerignolese Nicola Zingarelli, nel ’23, e a oggi Coluccia è l’unico Accademico che insegni in un’Università meridionale), il professore non m’ha rimproverato di nulla. Mi sono però fatta l’idea che sia stato semplicemente perché ho deciso che tutti i miei grattacapi potevano utilmente diventare altrettante domande.

Preside, nella Crusca era già “socio corrispondente”. Come dev’essere interpretata questa nomina? La successiva tappa di un percorso già scritto?
«No, non c’è alcun automatismo. Il Collegio dell’Accademia non si muove sulla base di candidature o auto-candidature o schemi di “carriera” o considerazione del percorso accademico o dell’età anagrafica, ma sceglie dopo aver valutato l’attività scientifica degli studiosi. Rispetto a quand’ero “corrispondente”, la differenza è che adesso posso partecipare anche alle decisioni che riguardano la vita dell’Accademia».

Parliamone. Abbiamo corso un grosso rischio, vero? Mi riferisco ai finanziamenti pubblici.
«Sì, la stessa sopravvivenza dell’Accademia era in pericolo. È finita bene: nell’ultima Finanziaria si è stabilito di destinare un finanziamento ordinario continuativo all’Accademia dei Lincei e all’Accademia della Crusca. Una decisione forte, molto significativa, perché dà l’idea di una precisa strategia politico-culturale, in un momento in cui tutti siamo chiamati a costruire un futuro meno incerto senza sprecare neppure un centesimo. Questi fondi ci consentono finalmente di programmare un’attività stabile e duratura, oltre a garantire le spese fisse: personale e patrimonio librario».

Che cosa significa essere “Accademico della Crusca” esattamente? Qual è la vostra attività?
«Prima di tutto si pubblicano tre importanti riviste (Studi di filologia italiana, Studi di grammatica italiana e Studi di lessicografia italiana, ndr), ma soprattutto si fornisce un servizio di consulenza linguistica. Facciamo una breve premessa storica. Per nostra fortuna, da cinquant’anni a questa parte siamo un popolo italofono, abbiamo cioè raggiunto l’unita linguistica: tutti parliamo italiano, e questo ci consente di sentirci parte di uno stesso tessuto sociale. Sono stato di recente al Quirinale, assieme ad altri linguisti, e il Presidente Napolitano in quell’occasione ha voluto sottolineare proprio la capacità della lingua italiana d’essere fattore fondante della nostra identità nazionale. Cinquant’anni fa eravamo in una situazione molto diversa. Niente contro i dialetti, ma non possono servire per tutte le esigenze comunicative di una società complessa. Ecco, tornando alla domanda, il nostro lavoro consiste nello sciogliere le incertezze negli usi linguistici. Il nostro obiettivo finale, anche civile, è fornire gli strumenti perché si parli e si scriva l’italiano in modo diverso a seconda delle circostanze, educare a un uso consapevole e ‘variato’ della lingua».

A questa consapevolezza pensavo preparando questa intervista. Mi dice chi ha questo compito “educativo”? La scuola, l’Università?
«La scuola, l’Università e chiunque abbia mansioni di responsabilità linguistica, per esempio i giornalisti (touché, ndr). Tutti, parlanti e scriventi, devono poter aspirare a un uso della lingua che vari a seconda delle circostanze in cui si comunica, si parla o si scrive. La regola è apparentemente semplice: nessuna concessione al lassismo e nessun vagheggiamento del purismo. Un esempio. La preposizione “a” è diversa dalla terza persona verbale “ha”, su questo non si può derogare, non si possono tollerare errori nello scritto. Ma se in un sms scriviamo “x” in luogo di “per” può andar bene, è importante che non lo si ripeta in un tema, in una tesi, in una relazione per un seminario».

L’italiano è una lingua viva.
«Straordinariamente, come è straordinaria la nostra tradizione. Letteratura, musica, cucina e gastronomia, moda, cultura in generale: l’Italia è molto amata e ricercata all’estero. Cinquantotto milioni di persone parlano italiano nel nostro Paese e molti altri milioni nel resto del mondo. In più l’Italia è percepita come una terra gradevole, con un importante patrimonio artistico e un popolo accogliente».

La Crusca si occupa di “conoscenza storica della lingua” e “conoscenza critica dell’attuale evoluzione della lingua”. Partiamo da questo, perché lo scenario che ha appena descritto mi fa venire in mente una parola forse abusata: contaminazione. Da molti anni uno dei suoi ‘tormentoni’ è l’uso dei forestierismi o sbaglio?
(sorride, ndr) «Non esistono lingue pure, ma è inutile ricorrere a un forestierismo se c’è una valida parola italiana che possiamo usare. Quando una parola straniera è inutile, è inutile: perché dire drink invece di bevanda? O meeting invece di incontro? E così via. Noi invece abusiamo dei forestierismi. Guardiamo come si comportano grandi Paesi europei a noi vicini (Francia, Spagna, Germania) e cerchiamo d’essere meno arrendevoli verso le mode forestiere, quindi meno provinciali: certe volte, usando forestierismi inutili, facciamo solo ridere. Non si tratta di chiudersi, ma di mantenere salda la propria identità».

La lingua si è evoluta anche in un altro senso: ci sono parole che si utilizzano oggi più di qualche anno fa, e magari in modo errato. Mi viene in mente “assolutamente”. Che ne pensa?
«Confermo. Occorre prestare molta attenzione all’uso delle parole, evitare di ricorrere a stereotipi. Ci si appoggia a certe parole come fossero stampelle buone per ogni percorso. Crediamo in questo modo di arricchire la lingua ma in realtà ne facciamo un uso povero, ripetitivo: quante volte in questi giorni sentiamo dire (e leggiamo) che “l’Italia (o Roma, o il Molise, eccetera) è nella morsa del gelo”? Non sappiamo usare un’espressione meno trita? E poi ci sono gli eufemismi, forme di rispetto linguistico che hanno una matrice ideologica. In genere sono parole che si riferiscono a vita, morte, sesso, difetti fisici, i nostri tabù: “è andato nel mondo dei più”, “mi vedo con quella ragazza”, “è un non vedente”, eccetera. Ma a volte esageriamo con la prudenza. Un esempio per tutti: arriveremo a dire “non chiomato” per non dire “calvo”, “non masticante” per non dire “sdentato”, per non correre il rischio di offendere chi non ha i capelli o non ha i denti?».

Sarebbe ridicolo, credo. Qual è il suo giudizio sull’italiano dei giovani universitari?
«Una volta i modelli erano pochi e fissi. Alle Elementari avevamo Pinocchio e il Libro Cuore, l’italiano si imparava quasi esclusivamente sui testi scolastici. Oggi è enorme, pervasiva, l’influenza della tv, delle chat, di internet. Che dovremmo fare allora? Rinunciare alla nostra azione? No, non dobbiamo rinunciare alla nostra missione. Non ho timori a definirla così: è la nostra missione operativa educare a un uso consapevole e variato della lingua. Certo, non è semplice, ma perché lo studio dovrebbe esserlo? Usare le nostre risorse cerebrali richiede fatica, allenamento, ma ne vale la pena. Bisogna lavorarci».

Nei mesi scorsi la Società Dante Alighieri ha promosso la campagna “Adotta una parola”, che ha avuto molto successo. Quale parola adotterebbe?
«Voglio indicarne due, fatica e prospettiva. La prima per quello che ci siamo detti poco fa, la seconda perché vedo per i ragazzi un futuro molto incerto. Una volta sapevamo che con l’impegno saremmo stati premiati. Oggi non è più così. Il mio in un certo senso è stato un percorso fortunato, perciò mi piacerebbe che la parola prospettiva tornasse a riguardare davvero la vita di tutti».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

<div class="clearfix"></div>