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una delle tavole della mostra foto-poetica "we care" della scrittrice Diana Agámez e della fotografa Luisa Machacón

chi cura chi?

Sabato 4 novembre 2023 alle 12 chiuderò un capitolo e ne aprirò un altro. Concretamente, e pure simbolicamente, il passaggio sarà segnato da fotografie e parole. Quelle che hanno dato vita, o meglio una delle vite, a “We care”, una mostra, un progetto della scrittrice Diana Agámez e della fotografa Luisa Machacón, una riflessione fotografica e letteraria che parla di corpi ed erotismo femminile attraverso la narrazione della relazione tra una nonna e una nipote, Francisca “Pacha” Florez de Pájaro e Diana Agámez, tessuta in un quartiere di periferia di Cartagena de Indias, in Colombia.

Per chi è a Lecce o ci passerà, la mostra sarà visitabile fino al 18 novembre negli spazi del Centro sociale di viale Roma, su iniziativa di “Alice e le altre” con Collettiva edizioni. Periferia, direbbero alcuni. Se non fosse che Lecce è piccola e questa idea di periferia mi fa sorridere. Ma sì, in qualche modo è periferia. Per luogo, per contenuti. Un centro sociale per persone “anziane”. Parliamone. O meglio: ve ne voglio parlare.

Mi chiamo Loredana De Vitis e sono la curatrice di questa mostra. Di questa “edizione” di “We care”. Ma che dici? Che scrivi?, forse chiederete. Ecco, ho iniziato così per “posizionarmi”, come ho imparato a fare, per dire da dove parto. Ho 45 anni, vivo a Lecce, sono una scrittora, scrivo insomma in varie forme affermando di farlo a partire dal fatto d’essere – di identificarmi con – una donna. Cosa vuol dire lo ri-stabilisco ogni giorno, e non da sola.

Pensando alla mia esperienza finora e alla parola “cura”, l’associazione di idee illumina la scena della mia vita portando come su un palco un figlio, alcuni gatti e gatte, alcune relazioni significative, almeno tre eventi che si definirebbero “problemi di salute”, la morte di mio nonno, le storie e la quotidianità di donne per me importantissime, che hanno segnato la mia di storia, e la storia del mondo in cui vivo anche ora. Tra le quali, dallo scorso anno, c’è anche Diana Agámez.

Ho conosciuto “We care” proprio a Lecce nel 2022, nel corso di “Conversazioni sul futuro”: Diana era in città perché tra le vincitrici del concorso nazionale “Lingua madre”, che da tempo trova spazio in questo importante festival della mia città. Avevo amato subito il suo racconto “Il mio corpo: un luogo felice”, capace di delicatezza e chiarezza, con le sue parole nitide, nette, con la sua capacità di dire molto con poche immagini, di dirlo a me a partire da un’altra vita, un altro luogo, un’altra storia. Saputo della mostra, ascoltata Diana, guardate le immagini, quel racconto si è dissolto in un flusso di pensieri di cui non ho più saputo distinguere l’origine. Sentivo che io e Diana eravamo definitivamente connesse.

Ho lavorato anni fa, con la scrittura e con immagini del mio corpo, per un progetto che ho chiamato “io sono bellissima”, un progetto sostenuto da molte donne che – a partire da un lavoro collettivo – voleva suggerire la necessità di superare gli stereotipi della “bellezza” a partire da sé. A
partire da un’idea di bellezza che non separa il corpo dalla mente, dal cuore, dalle viscere, dai pensieri, dalle azioni. Quel progetto ha diversi punti in comune con questo, tra i quali anche l’aver lavorato con una fotografa “amica”, sorella direi [Susanna Tornesello, parlo di te].

È un grande impegno mettere in gioco il proprio corpo, assumere su di sé il rischio (la certezza) del giudizio altrui essendo programmaticamente allo stesso tempo coinvolte e distaccate. È un lavoro politico. Necessario.
Sono passati diversi anni, e questo per me non è più quel tempo, il tempo di quel mio corpo e di quel lavoro. Questo è il tempo di proporre – grazie ad “Alice e le altre” e a Collettiva – un altro lavoro politico che considero indispensabile, come avevo considerato il mio: il lavoro di questa mostra, nata dalla disponibilità di Diana e di Luisa Machacón di unire le foto originariamente realizzate al testo di Diana, fino a farne un’opera “foto-poetica”, in cui poesia e immagini sono simbiotiche.

“Non è un paese per vecchie” scriveva Loredana Lipperini alcuni anni fa. Non è nemmeno un paese per giovani, mi sono detta varie volte, e oggi mi chiedo per chi è questo paese, per chi è questo mondo. Per niente e nessuno, mi vien da rispondere, ma poi penso a Collettiva e guardo “We care” e mi dico che questo è il paese, il mondo, il luogo e il tempo di narrare, come lo è sempre stato. Narrare difficoltà e bellezza, narrare per ridare complessità. E provare a cambiarlo, questo mondo.

Insomma, un anno fa ho conosciuto Diana Agámez, ho incontrato le sue parole, mi sono immersa nelle immagini che con Luisa Machacón aveva realizzato e le ho fatto la più intima delle domande: ti va di lavorare insieme perché “We care” divenga un progetto condiviso? Ed eccoci qua.

Perché considero “We care” un importante lavoro politico?

Perché parla del rapporto inter-generazionale tra persone anziane e persone giovani, alcune delle quali svolgono un “lavoro” di cura che oltrepassa l’idea di “lavoro”: la mostra mette a tema, in modo sfaccettato, la natura multipla di queste relazioni, caratterizzate da sentimenti contrastanti, dall’attaccamento al desiderio di fuga, dall’amore alla fatica.

Perché le autrici sono originarie dell’America Latina e oggi vivono in Europa: possiamo attraverso il loro sguardo narrare storie che oltrepassano nostri confini, che li rendono permeabili, e così saltare fuori dal nostro stagno, pur bello e confortevole, e crescere come essere umani.

Perché la mostra, pur toccando “temi che scaturiscono da rilevanti trasformazioni demografiche e sociali contemporanee” – come recita la scheda ufficiale – nulla cede sul piano dell’autenticità artistica. Non c’è “tecnica” per comunicare un messaggio, c’è narrazione pura. Sui corpi delle
donne nessuno stereotipo, nessun “aggiustamento” per compiacere un gusto ormai sempre più plasmato dagli strumenti digitali. Questi corpi, queste persone, queste donne sono protagoniste. In sé, per sé.

Queste donne sono protagoniste come ho immaginato possano essere tutte le persone che vedranno la mostra, a partire da me. Protagoniste nel riappropriarsi della capacità e del potere di narrare. Nel raccontare i corpi che cambiano, le storie delle relazioni, di ciò che invecchia continuando a desiderare.

A Lecce dal 4 al 18 novembre 2023 la mostra foto-poetica “We care”

Per tutte queste ragioni e per altre che troveremo assieme l’idea di ambientarla in un “centro sociale”, uno spazio che ci ha accolto e per il quale mi sento grata. Una proposta fatta al Comune di Lecce e accolta dall’Assessora al Welfare e alle Pari opportunità Silvia Miglietta. Un’idea politica cui tenevo particolarmente. Perché in questo luogo possiamo incontrare persone che mai avremmo potuto, e portare persone che mai avrebbero visto e saputo. Così vogliamo rimettere a tema il legame tra tre parole: genere, azioni e generazioni, e così magari, tra non molto, pubblicare un nuovo libro denso delle nostre storie. È quello che desidero di più ora, dopo aver realizzato il desiderio di portare a Lecce questa mostra, e in una “versione” che fino a qualche mese fa non esisteva, e che ora invece esiste ed è anche nostra. Se avete storie da raccontare, scrivetemi, o scrivete a Collettiva.

Ringrazio ancora Diana Agámez e Luisa Machacón per aver accettato di lavorare assieme, tessendo una nuova relazione artistica e umana. Silvia Miglietta e il suo gruppo di lavoro per l’ascolto, la sensibilità, l’impegno. Daniela Finocchi, che ha ideato Lingua madre, per aver iniziato anni fa la sua tessitura e per portarla avanti con entusiasmo instancabile. E soprattutto grazie alla redazione di Collettiva, per aver voluto aver cura di questo progetto, per osservare, leggere e scrivere ogni giorno e per costruire ogni minuto, per tutto ciò di cui è capace, che non smette di destare la mia meraviglia.

Parte di questo testo è inserito nel catalogo della mostra (32 pagine a colori, grafica di Roberta Cleopazzo), disponibile a richiesta scrivendo a Collettiva.

Monica al di là di Monica

Questa è la presentazione scritta per “Além do além”, mostra personale di Monica Lisi in esposizione a Torchiarolo (Brindisi) dal 22 dicembre 2010 al 9 gennaio 2011 nelle sale del Centro Frizzoli (piazza Municipio).

Monica Lisi ha spesso le mani sporche di colore. Cosicché non puoi fare a meno di domandarti cosa abbia dipinto questa volta in tua assenza. Non dico che un’artista (vi prego di notare l’apostrofo) debba dipingere in presenza del suo pubblico, no. Dico solo che, se ami un’artista, vorresti saperne di più. E invece, poiché Monica è una di quelle persone che ha con le tecnologie della comunicazione un rapporto difficile, è difficile che risponda al telefono. È difficile che risponda alle mail, è difficile che si faccia trovare, è difficile che aggiorni il suo blog, è difficile che comunichi cosa accade. Cosicché non può meravigliarti che, finalmente in contatto con lei (quindi di persona), Monica ti sorprenda perché nel frattempo ha rimescolato le carte della sua arte e molto probabilmente anche quelle della sua vita. Ecco perché, quando Monica ha le mani sporche di colore, sei curiosa di sapere cosa ha combinato questa volta.

Perché Monica ha questo di meraviglioso: che è nella vita, terribilmente, violentemente, amorevolmente, tragicomicamente nella vita. E allora l’al di là che in questa mostra Monica evoca non è un altrove fuori da questa vita, ma qualcosa di profondamente dentro. In un punto così profondo che molti di noi non possono, non vogliono, non sanno, non riescono a vederlo. Cosicché sembra essere divenuto – appunto – un altrove. A ben pensarci viviamo fuori di noi, non vi pare?, espropriati della nostra autenticità, del contatto con la parte più intima di noi. Quest’intimità, invece, Monica la coltiva. Ogni giorno. Non solo con l’arte. L’intimità è qualcosa che Monica non ha paura di condividere, dando prova da sempre di un coraggio molto molto raro. Perché Monica non ha paura, non ha paura di vivere, perché Monica vive. E anche per questo comunica poco con i mezzi elettronici.

Ecco, allora, che quando Monica lavora sull’identità apre l’armadio, guarda i suoi abiti e pensa al suo portafoglio. Quando Monica lavora sull’identità pensa a cosa indossa e al luogo in cui è stato prodotto, pensa a quanto le ha fatto risparmiare oggi e a quanto le farà spendere domani. Domani, quando avremo completamente smesso di produrre nel luogo in cui abitiamo, quando la sapienza delle mani non avrà più alcun valore, in che scenario ci muoveremo? Cosa avremo davanti a noi? Quanto ci costerà allora quello che indossiamo? Da dove diremo di venire? Dove penseremo d’esser nati a quel punto?

Quando Monica lavora sulla spiritualità pensa a cosa ha provato entrando in luoghi sacri non nella forma, ma sacri per la sacralità dello spirito di chi ci entra con un perché, con una speranza, con il bisogno di credere in un legame più profondo tra le persone, e tra le persone e qualcosa di ‘altro’ dalla materia che vive nella materia stessa. Così Monica lavora immergendo le mani in questa materia, porta con sé la sua vita e quella delle persone che ha intorno, porta con sé il suo lavoro, la sua fatica, la sua inarrestabile riflessione, il suo incontenibile viaggiare. Poi torna e… si sporca le mani.

Quando Monica si guarda intorno Monica si guarda dentro, così racconta artisticamente l’inquinamento, la salute e i diritti attingendo a ciò che le è accaduto dentro. Monica guarda il lungo segno alla base del suo collo e pensa a cosa ha provato, Monica legge “il fumo uccide” e pensa a suo padre, Monica partecipa al dolore del mondo e reagisce camminando come fosse Mary Poppins con un ombrello, però, carico di bruttura e d’ansia. «Come possono non vedere?», mi ha chiesto una volta, «come possono le persone non riflettere, non chiedersi da dove viene tutto questo dolore?». Monica se l’è chiesto, ha guardato suo figlio e sua figlia, ha pensato alle sue amiche e ai suoi amici, ha pensato alla sua arte e ne ha voluto fare un gesto politico.

Un gesto che vuole scuotere, metterci di fronte uno specchio (o davanti alla sua macchina fotografica, magari) e farci domandare da dove veniamo, qual è la nostra identità e come pensiamo di coltivarla, quale futuro immaginiamo per noi e per le generazioni che verranno. Senza retorica, senza moralismi, senza ovvietà. Le domande delle domande di tutti i tempi, cui restituire senso. Qui non si tratta di dare valore a un luogo specifico in quanto luogo geograficamente definito e chiuso in se stesso nelle sue caratteristiche fisiche, sociali, culturali, nelle sue problematiche apparentemente, appunto, locali. Qui si tratta del riappropriarsi di sé in una prospettiva più ampia, che parte da un luogo e ha il mondo come orizzonte. Monica ha una foto davanti a una porta azzurra, alle sue spalle la scritta Além do além. Siamo a Lisbona, lì ha colto questo spunto quasi magico dell’idea dell’“al di là di là”, di un viaggio che definisce «iniziatico» verso – credo – una rinnovata consapevolezza di sé.

Quella che Monica per prima, e in prima persona, ci dona in questa mostra, in queste opere aperte a tecniche differenti che sollecitano tutte (per forma, per materia, per colore, per movimento) il nostro profondo, in questo nero che non riesce in nessun modo a soffocare i colori che conosciamo essere propri di quest’artista. Perché Monica fa un gesto politico, politicamente/artisticamente ci chiede di agire, di guardarci intorno, di guardarci dentro e di compiere gesti politici. Di incidere sulle nostre vite e sul mondo attorno a noi. Monica al di là di Monica è insomma in queste opere come è al di qua dell’espropriazione del senso. Forte, veemente, ancorata a una vita densa densissima, Monica invita a squarciare questa vita, a leggerla di nuovo, a viverla davvero. Una vita ironica beffarda bastarda ma una vita una vita una vita.

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