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la chiamo Francesca, si chiama Speranza

Neri i capelli neri gli occhi olivastra la pelle lento il parlare pesate le parole, la chiami Francesca ma si firma Speranza. Come a scuola, prima il cognome? No, le piace proprio “speranza”. Speranza Francesca è la sua firma, continua a firmarsi così oltre ogni obiezione. Ferme le mani acuto l’osservare quasi violento lo scattare. Necessario indulgere nella prima sensazione di lievità, così da poter provare con tutto lo spaesamento del caso quanto Francesca sia d’una bellezza abissale: le sue foto ritraggono l’aldilà della realtà. Nata nel ‘78 a Cisternino (Brindisi), ha studiato Architettura d’interni all’Istituto Europeo di Design a Roma e decorazione dell’Accademia di Belle Arti a Lecce, vive e insegna tra il Salento e Mantova. «Utilizza il digitale senza mai abbandonare la pellicola», racconta di sé in terza persona, «continuando a lavorare in camera oscura. Predilige i forti contrasti, sia nella scelta dei soggetti che nella tonalità cromatica della sue fotografia. Ama la sperimentazione, sia nell’acquisizione che nella stampa delle immagini, in alcuni suoi lavori recenti ha proposto installazioni realizzate con stampa d’affissione in grande formato, in cui la fotografia si relaziona con lo spazio e dialoga con l’ambiente». In “Domestic landscapes”, questo dialogo con l’ambiente racconta le donne, l’interiore conflitto dei ruoli, l’ironia che spesso suscita il tentativo di adeguarsi agli stereotipi della femminilità.

La fotografia è il “tuo” mezzo, anzi tu e la fotografia forse siete la stessa cosa. Ma quando hai detto a te stessa: “sono una fotografa”?
Sono curiosa e un po’ nomade, la fotografia si sposa bene con questo mio modo di essere. È sempre stata presente nella mia vita, a livello intimo, domestico. La memoria fotografica mi affascinava, le immagini aprivano nella mia mente sconfinate fantasie. Poi il momento del distacco, quando sono diventata unica responsabile di quello che accadeva sotto ai miei occhi. Ho iniziato a fotografare in viaggio, tra la gente, le cose della mia vita e le cose della vita degli altri. La fotografia è diventata una parte del mio essere, il mio linguaggio e parte del mio modo di comunicare. È fedele compagna e testimone delle storie della mio presente. È trovarmi in situazioni a volte drammatiche a volte inaspettate, e sentire la necessità di usare la macchina fotografica per congelare quel momento. È una passione forte che invade i miei sensi e che mi porta a tradurre in immagini il reale.

“Forza” e “fotografia”. Racconta che legame ci vedi.
Quando si decide di aprire il proprio archivio a qualcuno si sceglie di svelare una parte della propria identità. Questo è rischioso, può non essere inteso oppure criticato. La forza è quella parte del carattere che si deve coltivare per consolidare la propria identità, ciò che ti permette di esprimere con determinazione e senza filtri le costruzioni visive.

Donne e uomini: cosa accade nell’atto del fotografare?
Percepisco differenze in alcune relazioni, vedo sguardi diffidenti. Quando fotografo questa sensazione è più forte. In alcuni contesti la figura di una donna è “fuori luogo”, e lo sguardo degli altri diviene arma inibitoria da cui difendersi. Quando scegli di continuare a fotografare, magari in una situazione pericolosa, oppure drammatica, quell’essere “spudorata” è una trasgressione alle regole di comportamento.

Quali sono le tue fotografe di riferimento?
Difficile tracciare una genealogia esclusivamente al femminile. La fotografia italiana è stata il mio punto di partenza: Gardin, Migliori, Scianna, autori e artisti dallo stile semplice e puro. Poi la fotografia internazionale, quella delle donne: Diane Arbus, Margaret Bourke White, Sarah Moon, Nan Goldin. Poi ci sono le autrici di riferimento: Francesca Woodman, di cui amo la fotografia, lo stile, la scelta dei dettagli e la sensibilità fragile; Ellen Kooi, fotografa olandese che ho scoperto un po’ per caso, in una mostra a Parigi. Nelle sue fotografie ho scoperto un legame forte con il mio linguaggio.

Se dovessi dare un consiglio a te Francesca di qualche anno fa, quella degli “inizi”, quale sarebbe?
Con il tempo ho scoperto che un buon equilibrio e tanta determinazione ti porta a ottenere quello che desideri. Le direi di affermare se stessa senza timore, di essere testarda e di dare il giusto peso alle critiche degli altri. È fondamentale credere nelle proprie capacità e lavorare per ottenere i migliori risultati, ciò che ti circonda spesso ti mette in crisi, ma l’essere in crisi è l’inizio della rinascita.

Che mi dici del confronto con altri “ambienti” artistici, fuori della Puglia?
Non è cosa semplice, è un po’ ricominciare tutto dall’inizio. Ti espone alle critiche, può mettere in discussione il tuo modo di fare e di essere, ma è indispensabile per rafforzarsi e per far maturare il tuo lavoro.

A cosa stai lavorando adesso?
Negli ultimi due anni alcuni eventi hanno cambiato la mia vita. Vivo in Lombardia e mi trovo spesso in giro tra varie città dell’Italia settentrionale e dell’Europa. Il mio essere curiosa e viaggiatrice mi permette di trovarmi in luoghi e in situazioni nuove, a volte border-line. Cerco adesso, al Nord, elementi del territorio con caratteristiche geografiche e antropologiche che soddisfano il mio linguaggio. La serie “Landscapes” si è arricchita di nuovi elementi e di nuove forme espressive. Poi, oltre a continuare a fotografare e cercare nuovi spunti per la mia fotografia, mi concentro sulla post-produzione dell’archivio degli ultimi due anni, per tracciare un percorso omogeneo e coerente della mia ricerca. Continuo a utilizzare il digitale ma, negli ultimi tempi, sono ritornata alla fotografia analogica. Amo lavorare in camera oscura, mi piace la sperimentazione con la luce, l’interazione con i materiali, la sovrapposizione delle discipline, senza regole o cliché. Questo mi permette di portare avanti un percorso puramente estetico, legato al fascino dell’immagine e alla potenzialità del segno.

Claudia bellissima è stata da me

Claudia Bruno bellissima è stata da me, per iosonobellissima.

Ha riempito la mia casa e la mia vita di sorrisi, s’è accorta di certa elettricità, dice che mi ha vista “da vicino”. Vorrei tanto sapere che vuol dire esattamente, ma ho paura a chiederglielo così esplicitamente.

Abbiamo parlato di danze, di uomini, di donne, di politica, di cibo.

L’ho chiusa in casa, tanta l’abitudine a vivere da sola. Non si è arrabbiata per niente: le ho riportato le chiavi correndo sulla bicicletta e ha soltanto sorriso masticando un biscotto.

Siamo state in piazzaduomo e in piazzasantoronzo, ho fatto proprio la… leccese, le ho cantato canzoni sceme, le ho detto di santirene, le ho spiegato quanto siamo assurdi.

Claudia ha molto osservato, ha notato un bel po’ delle mie ossessioni, tipo quella d’avere un contenitore o un posto specifico per quasi ogni cosa.

Le ho raccontato la leggenda del demone piovra e lei, giustamente, ha sintetizzato come tutte: è un polpo.

Vorrei che tornasse presto, anche se ne sono stata pure terribilmente gelosa. Julia l’ha subito amata. Julia ama tutti, direte voi. Non è vero! Ha voluto dormire con lei. Con lei! Ero gelosa, gelosissima! Comunque abbiamo recuperato: Julia ha fatto cento volte le fusa a me e mi sono messa l’anima in pace.

E poi, tornata lì dove vive, Claudia l’ha raccontata così.

cose imparate in tre giorni

la poesia è un’arma spietata, non ti risparmierà
il gallo non canta solo all’alba, soprattutto di domenica
la pietra delle case pugliesi d’inverno ha un odore inconfondibile
i pozzi sono gli antenati dei condizionatori
la neve al nord è come la livella al sud
esiste un porta-cosa, per ogni cosa
una santa ne vale almeno tre
non tutti i binari sono impermeabili
per pregare, puoi suonare i passi in una chiesa vuota
se avete la pressione alta, forse volete uccidere qualcuno
“via delle anime” esiste
zoppicare è tutto tranne che un impedimento nel procedere
la coda è fondamentale
le parole si camminano
il migliore amico della donna è il polpo
la massima espressione della presenza è il silenzio
l’amore per una terra è un indicibile segreto
perdere la carta d’identità in aereo può essere un avvertimento
il rustico leccese dà dipendenza e assuefazione

La amo.

Ilaria Seclì diafana e feroce

T’appare diafana, sorriso largo di piccoli denti, risata acuta e lieve, ricci capelli tenuti assieme da mille mollette, sigarette frequenti. La leggi, poi, di ferocia attraversata. Ilaria Seclì, salentina nata a Ginevra, poeta di energia stra-ordinaria dentro voce e passi lievissimi, da anni errante tra il nord e il sud di un’Italia che le piace sempre meno, l’ho scoperta e amata per “Destino al mercato”, una poesia divenuta naturalmente uno dei manifesti di “io sono bellissima”.

Ilaria, il “grande pubblico” – così pare che si dica – ti ha conosciuta per aver scritto “Lo zoo dei proletari”. Una poesia incredibile in sé, figurarsi scritta a 19 anni. Ma ti rendi conto?
Lo zoo dei proletari è un grido, un’alternativa a un atto violento. Nasceva dalla rabbia, dalla volontà di abbattere argini e costrizioni che ammanettano la libertà individuale. Mi riferivo a certi schemi educativi che tendono a “recintare sperando di salvare”, che negano, impediscono, per evitare di. Un processo alle intenzioni di vivere. Pensavo al potere che un individuo esercita nei confronti di un altro individuo limitandone potentemente la libertà. Prima forma astratta di proprietà privata da ostacolare, denunciare, la più subdola, pervicace, pericolosa, i cui effetti sono molteplici e duraturi. Insomma, la storia di una diciannovenne di un’estrema e arretrata provincia che a 11 anni leggeva Leopardi, le Confessioni di Rousseau e I fiori del male di Baudelaire. Ricordo bene che lo scrissi in meno di un’ora, un pomeriggio di primavera. Rileggendolo, penso alla forza, alla ferocia, al coraggio.

Quella è stata la tua prima poesia?
No, la prima poesia credo di averla scritta a 9, 10 anni. Ero sola in casa, fui “presa”. Uno stato di percezione alterata, caotica pienezza. Caos armonico. E l’urgenza di trasferire su carta quel vortice, quell’estasi, quell’ubriacatura, quelle visioni che mi attraversavano e che mi portavano, ricordo, nel “bosco”, una parola che evocava ciò che avrei amato e che avrei visto, per la prima volta, molti anni dopo. Sentivo che c’era altro, altrove, che nessuno aveva educato alla familiarità con un regno invisibile in cui i sensi si affinano, si espandono per esplorare modi, mondi, sentieri misteriosi, sconosciuti. Tutto ciò che nessuno si affrettava a farti sapere, a trasmetterti, a insegnarti. Ciò che è nel prodigio non passa dalla pedagogia, dall’educazione. E ciò che deve compiersi trova sempre il modo, ti trova se ti deve trovare.

La più classica delle domande, te l’avranno fatta mille volte. Rispondi anche questa volta, ma in tre parole: cos’è la poesia?
Una visitazione. La Poesia è l’Inizio, un eterno primo sguardo. Il miracoloso. Più di tre parole, ho sforato. In verità a questa domanda bisognerebbe rispondere col silenzio.

E che cosa ti dà?
Ogni risposta sarebbe riduttiva, come per la domanda cosa ti dà il respiro, aprire gli occhi, stare al mondo?

C’è forza nella poesia?
Sì, una forza di grazia. Ho posto la mia fiducia nel vivo che non muore.

C’è differenza secondo te, nel fare poesia (o nel creare, in generale), fra donne e uomini?
Non mi interessa il genere di chi scrive ma l’onestà con cui si fa guidare nella scrittura, la ricerca e lo sforzo di perfezionamento, l’assenza di smania di arrivare da qualche parte. Conta l’atteggiamento, che dovrebbe essere di umiltà, come di chi ha la facoltà di ricreare il mondo nello spazio bianco consapevole di essere uno strumento, un medium.

Quali sono i tuoi riferimenti di poetesse e/o scrittrici? Perché?
Amelia Rosselli per la scomposta viscerale grazia, eleganza, per la disperazione fatta bouquet di margherite e chiodi, e offerta. Ecco, Alejandra Pizarnik, figlia dell’insonnia: “Sono stata tutta un’offerta, un puro vagare di lupa nel bosco”. Sua voce di selva e silenzio perfetto. Silvia Molesini, sguardo che vortica spietato sull’ordine imperfetto delle cose. Sonda ruvida tra le fughe del com’è, del cos’è stato e del cosa avevamo pre-visto, canto barbaro di grazie perdute e assenze. E altre a cui penserò tra un secondo. Ah, ecco, Antonia Pozzi, denso dialogo con la natura e il mistero che indica, armonico conversare tra l’assente e il maestoso. Catherine Pozzi la cui conoscenza devo a un libro di Marco Dotti. Catherine, il buio d’oro.

Dovessi dare un consiglio a te Ilaria di qualche anno fa, quella degli “inizi”, quale sarebbe?
A me piccola direi di non prestare orecchio a ciò che sembra più facile, che crea apparenti agi, comodità, di resistere al processo di conformazione che pratica strade meno impervie, di continuare ad avere cura di quello sguardo e di ascoltare ciò che tace e che per altre vie si rivela. Mi direi di non cedere all’ambizione che fa spesso delle cose di poesia palchi da bagaglino. Consigli inutili perché non mi sono tradita, almeno nella poesia.

Il confronto con altri “ambienti” artistici, fuori della Puglia: cosa hai notato?
In qualche caso una maggiore attitudine a fare rete, collaborare. E poi una maggiore valorizzazione anche economica del lavoro artistico.

Hai tre raccolte poetiche nel cassetto. Pensi troverai un modo di tirarle fuori?
Ah, gli inediti… tra cui la creatura più amata e riuscita, “L’impero che si tace”, prose poetico-geografiche scritte viaggiando. Non ho fretta, evidentemente. Aspetto l’occasione/proposta migliore, magari quella che si sottrae al costume imperante di chiedere soldi per la pubblicazione. È un’impresa, lo so, ma non è impossibile. Bisognerebbe trovare modi per entrare nel “sistema”, dice qualcuno, crearsi varchi, anelli, ponti, farsi strada. Ecco, non ne ho né il tempo né la voglia né l’attitudine. Credo ancora nei rapporti umani guidati dalla schiettezza, dalla gratuità, accadono casualmente per rivelarsi poi necessari.

Ilaria Seclì ha pubblicato “D’indolenti dipendenze” (Besa 2005), “Chiuderanno gli occhi” (con Antonio Diavoli, Quaderni di Cantarena, Genova, 2007), “Del pesce e dell’acquario” (LietoColle 2009). Nel 2007, con l’attore e regista Adamo Toma, ha inscenato lo spettacolo teatrale tratto dalla raccolta inedita “La sposa nera”. Sillogi in antologie: “Poeti Circus, i nuovi poeti intorno ai trent’anni” (a cura di Giuseppe Goffredo, Poiesis edizioni 2006), “Il Segreto delle fragole” (a cura di Giampiero Neri e Fabiano Alborghetti, LietoColle 2006), “Sud del Sud dei Santi” (a cura di Michelangelo Zizzi, LietoColle 2013).

mình thật tuyệt (diario) / giorno 3, parte terza

Alessandra-la-grande-Tigre è tornata in Vietnam pochi giorni prima del mio arrivo. Ha impacchettato tutto nutrendo il desiderio d’avere, un giorno, una casa come il Castello errante di Howl, ed è sbarcata – da Roma – di nuovo qui, dove una parte importante della sua vita è cominciata. Camminando lungo la riva del lago Hồ Tây, commentiamo teneramente i baci furtivi di giovani coppie sedute su romantiche (a maggior ragione se sgarrupate) sedie a sdraio all’ombra di piccoli ombrelloni cocacola.

La parte importante della sua vita cominciata in Vietnam ha anche due ragioni che si chiamano Roberto-il-lungo-acquatico e Iris-la-piccola-Tigre. Finalmente li rivedo, Roberto altissimo e Iris con quel suo sorriso così… violento! Sorrido salutando il-lungo-acquatico perché anche qui, come mi hanno raccontato succede in Italia, l’altezza di Roberto è argomento di commento, quando non proprio di conversazione. M’è successo con l’ambasciatore (“E insomma quella volta… sono entrati così nella mia stanza, lei e questa bambina e quest’uomo… altissimo! Lo conosce? È così alto, e dire che io sono alto!”); e m’è successo con mister-Tâm (“Are you a journalist? Yes! As Roberto, Alessandra’s husband. He is so tall!”). E via racconti su questa famiglia degna d’un fumetto.

Osservando Iris continuo a sorridere: gioca allegra sul prato mentre con Ale si sovrappongono pensieri sulle ore trascorse e le cose viste, sul popolo vietnamita, la storia e la filosofia, su cosa speriamo per noi, su cosa ci auguriamo accada domani. Domani, quando “mình thật tuyệt” concluderà i suoi primi nove mesi di scritti, immagini ed e-mail.

Ed ecco un’altra piccola grande storia cui ho la fortuna di assistere. Una delle case che Roberto-il-lungo-acquatico si è incaricato di vedere mentre la-grande-Tigre si occupa di me pare sia quella giusta. Con Ale e Iris lo raggiungiamo, tolgo anch’io le scarpe per entrare e cerco di restare in silenzio e in disparte nel corso della trattativa coi proprietari. Non voglio essere di troppo, non voglio turbare anche solo con la mia presenza un momento molto intimo. Roberto sorride ancora e mi spiega che farà tante, tante domande: “C’è sempre qualcosa che viene fuori all’ultimo momento. Ti sembra d’aver chiarito tutto, e invece…”.

Così attendo sull’uscio cercando d’osservare la conversazione con la coppia vietnamita che affitta quest’appartamento molto luminoso su due piani. Un edificio pensato per gli occidentali e a un prezzo per occidentali (in dollari). L’umidità del lago si sente fin dentro le ossa, mentre Iris è davvero una piccola-Tigre saltellando e prendendo possesso di ambienti che sente già suoi.

Io e Iris abbiamo un rapporto che alterna momenti di studio e diffidenza a grandi risate. Alterniamo questi sentimenti anche a cena. Siamo “da Paolo westlake”, dove la “traduzione” del mio progetto è stata concepita e nutrita e dove di concepimenti e nutrimenti ne sanno… a pacchi. Una storia, quest’ultima, che però non mi pare il caso di raccontare. Sul biglietto da visita di questo delizioso ristorante su tre piani c’è scritto “The traditional Italian thin crust pizzas baked on our fired pizza oven”. Sono ad Hanoi soltanto da tre giorni e l’Italia mi pare lontanissima. Perciò me la godo davvero con Paolo, Luca e Giulia e il via vai di vietnamiti alcuni dei quali sono vestiti come per andare in discoteca. Io e Iris facciamo a gara a chi è più piccola e capricciosa contendendoci decine di tappi di sughero. Scorre divinamente un vino bianco italiano che bevo per la prima volta e che infine quasi affoga pane, mozzarella, pomodori e altro di così semplice, buono e ben composto che mi pare d’aver raramente mangiato tanto bene in Italia.

Di ritorno, mi fermo a osservare una decina d’uomini che guardano la tv in una casa diroccata. “No, è in costruzione”, mi spiega Fabio, “qui gli operai lavorano tutto il giorno. Vengono spesso dalle campagne e non hanno dove andare. Per risparmiare, dormono nelle case che stanno costruendo. E si attrezzano come possono”.

Continuando a camminando, con un terribile mal di piedi, mi sorprendo a pensare d’essere sulla strada di casa.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 3, parte seconda

Si chiama Văn Miếu Quốc Tử Giám, “Tempio della Letteratura”, il posto che mi ricorda le ragioni della mia attrazione per le “cose orientali”. Entriamo e ho subito voglia di togliermi le scarpe. Mi guardo intorno, osservo cosa accade e ascolto Alessandra-la-grande-Tigre che con la sua tipica foga mi spiega dove siamo.

Quello che so è che mi sento molto bene, che respiro piuttosto profondamente, che il relativo silenzio dell’ambiente m’aiuta ad ascoltare meglio quello che sento. Attraversando i cortili, guardando i piccoli specchi d’acqua, cercando d’analizzare il “senso” delle geometrie degli ambienti, sento una fortissima emozione nel percepire il “peso” attribuito allo studio, alla conoscenza, al sapere.

Sotto uno dei porticati, decine di grandi stele di pietra sono adagiate su tartarughe giganti: così si ricordano i dottori di ricerca. E tutt’intorno una surreale quiete nonostante le decine e decine di turisti. E poi sassi, riproduzioni d’animali, un’architettura complessa e senza nemmeno un chiodo, teche con abiti di seta ricamata e carta e inchiostri, infine Confucio.

Cammini, passi attraverso portali il cui legno non devi toccare coi piedi, ascolti suonare troppi brevi minuti di antichissime melodie, poi non puoi che tentare di rendere omaggio a tanta bellezza. Chiedo ad Ale una foto sotto una delle grandi gru di legno vicine alla statua di Confucio. Da circa due anni piego quasi ogni giorno piccole gru di carta. Poi saliamo verso il tetto, per ammirare gli incastri del legno e le tegole decorate. Ovunque volano đồng. Anche noi ne abbiamo lasciati, non so dire il mio perché.

Spostandoci in macchina per raggiungere il Phủ Tây Hồ, il “Tempio della Dea Madre”, che Ale-la-grande-Tigre m’aveva spiegato da tempo essere “la più antica e autoctona delle forme di culto vietnamite”, passiamo davanti al Lăng Hồ Chí Minh, il mausoleo di Hồ Chí Minh. Poche battute tra me e Ale.

  • Voleva essere cremato.
  • Ah. E perché l’hanno imbalsamato allora?
  • Bella domanda.
  • Un personaggio così. Se dice “crematemi”, cavolo crematelo.
  • Ogni tanto scompare.
  • In che senso?
  • Penso vadano a… rifargli il trucco.

E tutt’intorno biciclette, grossi cesti con frutta e fiori su decine di biciclette. E motorini, qualunque tipo di trasporto su decine e decine di motorini.

Il Phủ Tây Hồ mi ricorda, all’inizio, certi giochi elettronici in cui velocemente devi preparare cibo orientale: riso e gamberetti da comporre in forme tutte uguali, come in tartine da mangiare in un boccone solo. Le bancarelle, lungo la strada che porta al Tempio, vendono questo genere di cibo, e molto altro. I doni alla Dea Madre sono frutta, dolci, ma anche lattine di birra o di coca. Ale sorride: forse è tutto… molto kitsch, ma non è la prima cosa che si percepisce. La prima è invece una straordinaria energia.

Insomma, dopo Confucio, eccomi al cospetto della Dea Madre. Riproduzioni d’animali anche questa volta su tutti gli altari. Tartarughe e gru, certo. Ma soprattutto noto i draghi attorcigliati. E tutt’intorno decorazioni di lacca dorata e rossa, divinità buddiste, incensi che si consumano piano, preghiere lievi. Voltandoci, il lago Hồ Tây d’un colore grigiastro.

Mi spiega la-grande-Tigre, placida, cosa possa significare affidarsi alla Dea Madre. Niente di “facile” all’orizzonte. Mentre cala il sole, acqua e cielo si confondono in una foschia che rende il nostro parlare uscendo dal Tempio ancora più… epico. Lentamente ci spostiamo lungo la riva del lago. Ci attendono Roberto-il-lungo-acquatico, Iris-la-piccola-Tigre e una cena molto attesa.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 3, parte prima

18 ottobre

La colazione con frutta fresca è rapidissima: io e Nhung abbiamo fretta. Il programma della mattinata prevede una riunione con Alessandra-la-grade-Tigre e Hanh (altra meraviglia con cui Ale ha lavorato alla “traduzione” del mio progetto qui in Vietnam), e un pranzo con l’ambasciatore Lorenzo Angeloni. Insomma, ci prepariamo per l’evento finale di “io sono bellissima”, la valigia non arriva e io sono senza sapone, senza calze e senza scarpe. Nhung m’accompagna al supermercato e mi guarda dubbiosa mentre scelgo soltanto prodotti vietnamiti. «Ma come», mi dice in un inglese quasi convulso, «con tutta la roba occidentale che abbiamo qui?». È che mi diverte molto osservare le etichette e aprire i barattoli per sentirne l’odore. Bagno schiuma, shampoo, della biancheria e una confezione di gomme da masticare che pare un astuccio di cachet. Alla cassa Nhung insiste perché verifichi il resto.

Ho fretta, sempre più fretta. Mi servono delle scarpe e devo tornare a cambiarmi per i miei incontri “ufficiali”. Lungo la grossa Au Co, il cui traffico riesci (incredibilmente) a dimenticare osservando il chilometrico nastro a mosaico colorato che la percorre, ci fermiamo – così mi pare di capire – al primo (e ultimo) negozio utile. Il mio piede, che è lungo 37 ma indossa il 38 perché è grassoccio, non entra nella maggior parte delle scarpine femminili disponibili in questo bugigattolo tutto specchi e tappeti. Un 39, mi serve un 39! Trovato: per qualche decina di đồng ne prendo un paio che ha troppa, troppa punta, ma che mi pare il meno peggio. Ho fretta, sempre più fretta. Nhung approva. Dice che “nonostante” siano basse e semplici vanno bene.

Quindici minuti per cambiarmi (Nhung approva anche questo) e via verso il bar dove m’aspettano Ale e Hanh. L’appuntamento è al Kinh Do Cafe, dove Catherine Deneuve s’è fermata durante una pausa delle riprese del film “Indocina”. Abbracci e sorrisi rendono Hanh ancora più bella. Minuta, delicatissima, elegante, ha una forza tutta sua nel commentare il programma della giornata di domani e il lungo percorso che ci ha condotte fin qui. Capelli neri e lunghi, dita sottili su un iPad foderato di pelle marrone, coordina le nostre ordinazioni parlando velocemente con un’assai antipatica vietnamita che entra ed esce dal retrobottega attraversando una tenda luccicante. Di tutto il buono che potrei ordinare, mi viene in mente soltanto dell’acqua. Vorrei dell’acqua fresca e un bicchiere, grazie. Poi? Niente, grazie. Dall’acqua fresca e un bicchiere. Hanh muove rapida le dita sull’iPad, Ale-la-grande-Tigre si sofferma su ogni dettaglio, io mi guardo attorno osservando le foto di Catherine Deneuve sulle pareti e mi viene in mente la volta che, dovendo per la prima volta dire cosa conoscessi della lingua francese, me ne sono uscita con oui je suis catherine deneuve. Che coraggio…

E di nuovo abbiamo fretta. Il pranzo con l’ambasciatore è in un elegante ristorante poco distante. Nomi e strade si confondono nella mente, saluti istituzionali lasciano presto il posto a chiacchiere informali su argomenti d’ogni genere, dalla cooperazione alla letteratura. Angeloni sorride quando ammette d’esser stato travolto dall’energia della grande-Tigre e sorrido anch’io nel mangiare ancora maluccio con le bacchette una sorta di tagliolini al granchio intinti in una gustosissima zuppa. Ci serviamo da grandi vassoi in acciaio, io comincio a riconoscere quello che mi piace e mi faccio consigliare qualcosa di nuovo, ci offrono yogurt per dessert. La domanda fatidica, prima o poi, sarebbe arrivata. Ed eccola.

Allora, dottoressa, cosa ne pensa? È soddisfatta?

Ci penso qualche istante, bevo un sorso di succo di lime.

Credo che “mình thật tuyệt” sia un bell’esempio di integrazione tra attività artistica, attività politica, impegno istituzionale e contributo imprenditoriale. Per nove mesi donne d’ogni età da ogni parte del Vietnam ci hanno scritto d’essere bellissime. Per me è un sogno realizzato, la prova che ho avuto una buona idea. Un’idea che funziona, che può “spostare” qualcosa anche in donne di una cultura tanto distante dalla mia. E la prova che una buona idea ha bisogno d’essere accolta, compresa, amata e diffusa. Come è successo qui.

Angeloni sorride ancora, guarda Alessandra e ci invita ad andare avanti. Non c’era neppure bisogno di suggerirlo: io e la-grande-Tigre ne parliamo da un paio di mesi. Non finisce qui. L’ambasciatore ci lascia, noi restiamo ancora mezz’ora a parlare dei nostri desideri.

E a proposito dei nostri desideri, è arrivato il momento di prenderci ora qualche ora per noi.

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