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una carota bellamente intagliata. sul Leonardo in cucina di Maurizio Raselli

Le curiosità, gli interessi, le intuizioni, ma anche l’umanità di un genio che è stato pur sempre figlio del suo tempo sono stati al centro della giornata di studio “Leonardo dall’Officina alla Cucina”, organizzata all’Università del Salento come appuntamento del ciclo di iniziative “Leonardo Da Vinci e la Puglia, tra passato e futuro” promosse per il cinquecentenario della morte dell’inventore, artista e scienziato italiano. L’iniziativa è stata curata dai professori Giulio Avanzini e Paolo Bernardini, del comitato scientifico delle celebrazioni che hanno visto lavorare assieme l’Accademia Pugliese delle Scienze, l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, il Politecnico di Bari, l’Università del Salento, l’Università della Basilicata, l’INFN – Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il Museo Leonardo da Vinci di Galatone (Lecce), Sitael SpA e l’Autorità Portuale di Bari. Il 7 giugno 2019, nella sala conferenze del Rettorato, si è parlato di idraulica, macchine, osservazione dell’infinitamente piccolo e, appunto, di cucina, una delle passioni meno note di Leonardo, sulla quale si è soffermato Maurizio Raselli, “cuoco e piemontese, in quest’ordine”, come ama definirsi.

Maurizio, per parlare di Leonardo proviamo a partire da te. Il tuo ristorante, 3Rane a Lecce, lo racconti come l’approdo di un lungo peregrinare alla ricerca di te stesso. E il nome di questo approdo è ispirato alle esperienze culinarie del Genio. Perché?
Sarebbe bello, forse, raccontare di come possa essere stato illuminato dalla creatività di Leonardo, ma pure se così in qualche modo può esser stato, di certo il lato del Genio che più ci ha entusiasmato è stato quello strettamente terreno, più umano diciamo, meno idealizzato. Il fatto che la leggenda, sotto forma dell’irraggiungibile Codex Romanoff, racconti dell’esperienza di un giovane Da Vinci alle prese con le dinamiche che ben conosciamo alla taverna delle 3 Rane sul Ponte Vecchio a Firenze ci ha fatto sorridere, e forse sentire meno soli. Come dire, nel caso dovesse andarci male, beh potremmo sempre ripiegare sull’Arte (si riferisce, oltre che a se stesso, anche alla compagna Dodo, “partner concettuale” del progetto di ristorazione, ndr).

Leonardo è una delle tue fonti di ispirazione? Il limite tendente a infinito irraggiungibile ma necessario per darsi ogni giorno nuovi obiettivi?
A volte risulta difficile trovare l’origine di un’ispirazione. Alcuni piatti saltano fuori dalle mani come se fossero sempre esistiti, per altri invece il processo è più lungo e macchinoso. Certo quello su cui si può sempre contare è l’ispirazione concettuale, il filo rosso che dovrebbe legare ogni cosa che ruota intorno all’idea di ristorazione che ci si propone. In questo senso l’idea di Leonardo è stata fondamentale.
Dopo anni spesi nella ristorazione cosiddetta di lusso, il fine-dining tanto celebrato e oramai svuotato di ogni dignità, c’era qualcosa che non permetteva al mio meccanismo interiore di scorrere libero. Serviva un punto di rottura. Qui è dove si colloca il genio di Leonardo nel nostro sistema concettuale. A Lecce esisteva da sempre il cibo tradizionale, preparato con più o meno onestà, così come la ristorazione di alto livello. A noi è interessata l’idea di dare a tutti la possibilità di poter godere di un piatto cucinato con competenza a un prezzo trasversale. Così sono nate le 3 Rane, una trattoria gourmet, un piccolo rifugio per amanti del cibo e del vino lontano dall’apparire e dagli stereotipi. Solo piccoli produttori, zero grande distribuzione, vini naturali, contatto diretto e quotidiano con la materia, ambiente informale ma curato, alleggerito. La rottura che vede Leonardo protagonista nella storia del pensiero è stata, con le dovute proporzioni, ispirazione per il nostro concetto trainante di accessibilità.

Per il tuo intervento all’Università del Salento sei partito da un libro che hai raccontato esserti molto caro: “Note di cucina di Leonardo da Vinci”, di Jonathan e Shelagh Routh (edizioni Voland, 2005). Come l’hai scoperto e perché ti ha colpito così tanto?
Immagina una piccola casa, sviluppata in altezza, su tre piani minuscoli con il Mar Ligure che sbatte forte le onde quasi contro i vetri delle finestre. Siamo a Pegli, un minuscolo paesino appoggiato per sbaglio allo sdraiarsi di Genova, dove ho vissuto per anni. Immagina ogni centimetro di questa casa ricoperto di libri, e un pianoforte. Immagina una cucina piccolissima dove sempre qualche capolavoro era in procinto di nascere. Era la casa di Clara e Lello, iperattiva meraviglia lei, grandissimo cuoco lui, come solo un appassionato gourmet può essere. Non uno chef, sia chiaro. Un cuoco. I genitori della moglie di mio fratello, una casa che ho molto frequentato.
Un pomeriggio, tra le migliaia di titoli, ho visto il libriccino. Non ho smesso fino all’ultima riga. Leonardo da Vinci era un uomo. Non una divinità scesa dall’Olimpo, un’Idea astratta e inafferrabile. Passioni, e soprattutto errori. Il genio al servizio del quotidiano, le altitudini del pensiero piegate alle esigenze di tutti così come parti del mondo vero. E poi simpatico, reale. Questo cambio di prospettiva ha scardinato in me, come mille altre volte è successo, un dogma pre-esistente. L’infinitamente grande è anche infinitamente piccolo, come in alto così in basso, come più tardi ho appreso dalla filosofia ermetica. Quella è stata la scintilla. Ci sono voluti più di 10 anni, ma ora cerco di ricordarmelo ogni giorno.

Nella tua relazione era evidente una grande emozione, assieme a un sincero schermirti per essere tra tanti accademici che, al contrario di te, erano in quel momento nel “loro” ambiente. D’altra parte definisci le tue 3Rane come un “ristoro” che propone “cucina artigiana di ricerca”. Insomma, qualche punto di contatto con il mondo dell’università è evidente. Come è arrivata la proposta a intervenire del professor Giulio Avanzini? Cosa ti ha entusiasmato di più dell’idea?
Era difficile non farsi coinvolgere dall’entusiasmo del professor Avanzini. Lui ha dato davvero molto per la riuscita delle giornate leonardesche. Abbiamo un’amica in comune che ha fatto da filo conduttore attraverso le nostre passioni. Oltre la cucina e la mia famiglia, non necessariamente in quest’ordine, ho sempre amato leggere. Si può dire che io sia un piccolo lettore compulsivo, leggo di tutto, da sempre, e appena posso. Mi capita spesso di leggere più libri in un giorno solo, iniziati e finiti, a patto di averne il tempo.
Ho un diploma classico e una laurea in Scienze della Formazione, ma cerchiamo di capirci: sono sempre un cuoco, mediocre per giunta, non un accademico. La proposta di Giulio mi ha lusingato e certo anche un poco preoccupato. Sono avvezzo a parlare in pubblico, nei miei viaggi ho spesso affrontato grandi situazioni sociali in cui mi si chiedeva di intrattenere, anche in inglese, diverse persone. Ma l’argomento era sempre la cucina, la mia cucina. Più comfort di così… invece l’idea di affrontare un tema con un così alto profilo mi ha imbarazzato. Confesso di aver vissuto il mio intervento piuttosto male. Mi sono sentito impacciato e fuori luogo. Certo finché il calore dei professori coinvolti non mi ha sostenuto. Di questo conservo un meraviglioso ricordo, e un grande senso di supporto. Del resto aiutare le menti a evolvere credo sia uno dei traguardi dell’Università.

Tra i piatti consigliati della tua cucina leggo “Ravioli del plin ripieni di fegatini di pollo, sedano rapa in crema e bollito, battuto di podolica pugliese”. Ma Leonardo non era vegetariano? Scusami la battuta, mi interessa parlare del tuo approccio alle materie prime.
Beh, se l’alternativa fossero le folaghe molto frollate o i testicoli di montone al latte credo che considererei l’alternativa vegetariana anch’io… o forse almeno per la colazione, venerando da piemontese ogni singola vena di grasso della carne ben marezzata! A parte le battute, si discute ancora sull’etica alimentare di Leonardo. Non credo fosse completamente vegetariano, almeno non nella concezione moderna del termine dove il Principio viene sempre più spesso posposto rispetto alla moda. Certo amava il bello e il buono, in ogni loro forma, dunque credo non amasse il cruento attimo proprio della macellazione ma era sempre un uomo del XV secolo. Il sangue era piuttosto comune, certo più del tofu.
L’ingrediente esige rispetto, competenza e tecnica, oltre a un’immensa dose di amore.Conosco macellai che amano in un modo viscerale le bestie che poi diventano il medium del loro lavoro. Persone spinte da un’etica integerrima, che offrono più amore agli animali che sanno poi se ne andranno, perché questo è quello che sono, di quanto non facciano vegetariani di ora che magari non mangiano il pesce ma ostentano cinture di pelle di vitellino senza nemmeno soffermarsi sul significato delle parole. Dignità e coerenza sono sempre più importanti, nella scelta dell’ingrediente, del piatto e nella vita in generale.
Io conosco personalmente tutte le persone che aiutano la natura a produrre ciò di cui mi servo per cucinare. Conosco chi spreme le olive per il mio olio, chi pigia l’uva per i vini che amo, chi zappa la terra per le verdure che compro e chi macella gli animali che cucino e mangio. L’ingrediente principale è l’etica del cuoco.

Le recensioni sulla tua cucina e il tuo ristorante dicono di una capacità di tenere assieme gli opposti – lato cucina – e di una grande gentilezza e ospitalità – lato accoglienza. Come sei arrivato a questa formula? A guidare ogni passo sembra essere essenzialmente la tua personalità.
Anthony Bourdain scriveva che le cucine tendono ad assomigliare agli chef che le guidano. Credo sia una grande verità estesa poi al ristorante tutto, se il cuoco è anche il gestore o il proprietario della struttura. È vero, le 3 rane mi assomigliano, moltissimo. C’è molto di imperfetto, ma non di lasciato al caso. L’idea della perfezione occidentale è un concetto limitante. Lo scintillio preconfezionato da discount della creatività. Il perfetto non include il suo opposto, il manchevole. L’imperfetto è necessario. Le crepe delle porcellane in Asia valgono più dei vasi stessi, perché li rendono vivi, con una storia. Da noi questo problema non si pone. Le 3 rane sono un bel posto, ma restano un’osteria, una trattoria. Dove l’oste o il trattore sono quelli che decidono, ma che anche mettono in gioco tutto il loro essere.
Io ho costruito il locale, fisicamente. Mi sono costruito da solo i banconi, ho messo io il pavimento, gli impianti, mi sono montato da solo la cucina che era stata lasciata sul marciapiede da uno zelante corriere. Ho disegnato il locale, la cucina. Ho abbattuto pareti e costruite di nuove. Ho dipinto, rasato, avvitato, tolto e messo quasi tutto quello che si vede. Ho sanguinato, fisicamente, ho pianto in alcuni momenti e riso in altri. La mia fidanzata Dodo stava aspettando il nostro bimbo, nato a fine dicembre del 2017 mentre io costruivo il locale. Ci ho messo 5 mesi. Un bambino è nato a dicembre, Martino. L’altro nel marzo successivo, le 3Rane.
Credo che questo abbia influito molto nel creare l’atmosfera di reale identità che ora si respira tra inostri 6 tavolini. Io mi sentirei di consigliarlo a chi dovesse essere così pazzo da ascoltarmi. Costruite il vostro locale con il sangue e il sudore, ogni goccia versata tornerà come nutrimento per la nascita della sua propria identità.

Leggendo la tua biografia sembra che tu abbia lavorato praticamente ovunque. Quali credi siano state le esperienze più importanti, e perché?
Ma no, quale ovunque! È vero, ho viaggiato. Ho sacrificato molto per imparare. Ma molti altri hanno fatto il mio stesso percorso. La vita di uno chef può sembrare folle a chi non è del mestiere. Orari impossibili, fatica sovrumana, calore insopportabile, anni e anni di apprendistato alle corti di chef spesso bipolari, aggressivi, egotici e violenti senza alcuna dignità riconosciuta se non rapportata alla capacità di sopportare tutto questo. Io ho cominciato molto presto: 16 anni, nei fine settimana, quando magari il sabato mattina sarei stato interrogato al Liceo nell’ora di Greco, la sera prima stavo lavando bicchieri alle due di notte. La cosa strana è che non lo facevo per necessità. La mia famiglia ha sempre provveduto ai miei bisogni di ragazzo. A volte addirittura mentivo per andare a lavorare. Forse sono sempre stato cosciente del processo di costruzione della mia competenza. Sapevo di dover sacrificare.
Poi l’Europa, l’Inghilterra e la Scozia, le Maldive, l’India, la Russia, in Siberia… più di dieci anni di solitudine e ricerca di qualcosa. Ogni esperienza è stata propedeutica a quella successiva. Ora sono un cuoco, è vero, ma soprattutto sono un marito e un padre. Ringrazio ogni istante di solitudine e sacrificio se mi hanno permesso di guardare dormire il nostro bambino la notte, quando rientro.

Lecce è il tuo approdo e la tua base. L’amore è la tua guida in ogni scelta, in cucina come nella vita? Quali progetti hai per il futuro?
Il rapporto tra la mia compagna e me è basato su una reciproca comprensione, una grande complicità. Ci assomigliamo molto, anche se lei non lo ammetterebbe mai!Entrambi con radici solide, ma anche con rami aerei, per così dire. Lecce è il presente, il futuro verrà da sé. A me basta stare con loro, poi il mestiere è nelle mani come dicono i Maestri.
Se ho cucinato un risotto per Sua Maestà Luminosa il Re del Ladack, nel palazzo reale di Leh, al confine tra Himalaya e Cina, su un buco in terra dove avevo acceso un fuoco con le sterpaglie trovate in terra, a quasi 3500 metri di altitudine sotto una tempesta di pioggia dell’autunno del Karakorum, credo di poter, ripeto credo, cucinare qualcosa quasi ovunque. Per ora, però, il presente ha ancora molto da dare.

Consigliaci un menu leonardesco da provare, magari, proprio nel tuo ristorante.
Menù leonardesco? Riporto quello che Leonardo, allora maestro di cerimonia alla corte degli Sforza, propose a Ludovico il Moro in occasione di una festa tenutasi in onore di una nipote del Signore:
un involtino d’acciuga in cima a una rondella di rapa scolpita a mo’ di rana
un’altra acciuga, avvolta attorno a un broccolo
una carota, bellamente intagliata
un cuore di carciofo
due mezzi cetrioli su una foglia di lattuga
un petto di uccello
un uovo di pavoncella
un testicolo di pecora freddo alla panna
una zampa di rana su una foglia di tarassaco
uno stinco di pecora cotto sull’osso
…e io, piccolo cuciniere ignorante, che mi ostino a fare i ravioli!

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino” (settembre/ottobre 2019)
la foto di Maurizio Raselli è di Sonia Gioia (per gentile concessione)

Fulvio Tornese L'ingegno collezione privata Loredana De Vitis

Fulvio Tornese o de “L’ingegno”: dialogo a proposito di una testa spaccata

Con una casa più grande e soprattutto più soldi avrei di certo comprato più quadri, ma probabilmente sarebbero stati meno importanti. Meno importanti per me. Non si dovrebbe collezionare quadri, solo cercare ciò in cui ci si può rispecchiare. A me è successo anche con “L’ingegno”, un olio su tavola infinitamente attraente: il colore ha delle crepe, il protagonista sembra venuto da un altro pianeta ma indossa una giacca che sceglierei se la vedessi in un negozio della Terra, nell’occhio aperto sembrano muoversi microscopici esseri, il paesaggio sullo sfondo è familiare e immaginifico, ferma un momento in un tempo sospeso tra passato presente e futuro. Ma è quella testa spaccata la cosa più significativa: sono certa d’aver voluto questo quadro perché ho capito che ciò che stavo vivendo in quel momento m’aveva… aperto la testa.

L’autore si chiama Fulvio Tornese, è un architetto, un pittore, un illustratore, un allestitore, un artista capace di fare grandi cose con piccoli mezzi e piccole cose con grandi mezzi. Lo vedo quasi ogni giorno per lavoro, abbiamo parlato praticamente di tutto, abbiamo molti punti di vista in comune e altrettanti diametralmente opposti. Ho scritto di lui, una volta, per presentare i suoi “libri d’artista”, volevo scriverne ancora ma come altro avrei potuto se non come potrei fare in un giorno qualunque, incontrandolo per lavoro?

  • Ciao, Fulvio.
  • Ciao Loredana.
  • Giura di dire la verità tutta la verità nient’altro che la verità.
  • Tuttatutta? […] Vabbè, lo giuro.
  • Scrivi “lo giuro”.
  • Di nuovo? […] Lo giuro. “È già il test?” (cit. Blade Runner, l’interrogatorio a Leon).
  • Sì, è già il test.

Fulvio Tornese ha quasi sessant’anni ma gliene dareste molti molti meno, indossa cravatte nere sui jeans e scarpe comode che gli rendono più agevole camminare, per le riunioni di lavoro s’infila spesso una giacca scura, si distrae se gli viene in mente qualcosa che vorrebbe dipingere. E allora apre un quadernino, prende una matita o un pennarello a punta fine, da un paio d’anni a questa parte capita che accenda l’iPad. Poi torna all’architettura.

  • Hai studiato architettura.
  • Sì.
  • Com’era a Firenze?
  • Perfetto.
  • Hai iniziato a dipingere prima ancora.
  • Ho studiato al Liceo Artistico e dipingo da quando avevo 15 anni.
  • Perché? Come è accaduto?
  • In realtà devo aver cominciato prima, credo di avere ancora a casa dei miei qualcosina fatta intorno ai 13 anni. Credo dipendesse dalla voglia di raccontare storie, storie epiche, fantastiche. Credo.

Ne ha raccontate parecchie dipingendo, ha costruito personaggi d’ogni foggia, negli anni sono cambiati e da qualche tempo gli vedo dipingere anche alcune donne. Molti uomini popolano i suoi paesaggi, parecchi in passato sono stati giganti, poi sono arrivati poeti equilibristi danzatori sognatori. I miei preferiti sono i guerrieri.

  • Com’è stato tornare a Lecce?
  • Avventuroso, avevamo un vecchio camion da cantiere, che un mio amico mi aveva prestato, lo abbiamo riempito all’inverosimile, coperto con un telone, quando siamo arrivati eravamo contenti di avercela fatta.
  • Com’è vivere a Lecce?
  • Si vive bene.
  • Com’è lavorare a Lecce?
  • Si lavora bene: piccola città, distanze umane. Riesci a fare un sacco di cose, in una giornata di lavoro.
  • Com’è dipingere a Lecce?
  • Perfetto.
  • Cos’è la perfezione?
  • Una cosa ben fatta.

Fulvio ne ha fatte diverse, alcune delle quali in giro per l’Europa, l’Asia e il Medio Oriente. Non è diplomatico, non è politicamente corretto, ma nemmeno dice le cose come farei io tirandoti un pugno in faccia.

  • Il bello di viaggiare (per l’arte).
  • Ti riferisci alle mostre in giro per il mondo? È bello e interessante certo, ma non mi fa impazzire.
  • E cosa ti fa impazzire, invece?
  • Nel senso che mi piace da morire? Nella mia personale classifica una le batte tutte: un piatto di spaghetti a ottobre in un localino sul mare, con qualcuno che amo.
  • Il bello di restare (per quello che ti pare).
  • È che puoi avere tempo per finire quello che stai facendo.
  • E che cosa stai facendo adesso?
  • Dipingo carte.

Fulvio Tornese dipinge continuamente. Tutto è pittura: quello che legge che ascolta che dice che progetta che descrive persino che mangia che cucina assume inesorabilmente l’aspetto d’un dipinto. Basta osservare e quelle origini le puoi rintracciare.

  • Il rapporto tra architettura e arte nella tua vita.
  • Se ti riferisci al fare, ti potrei rispondere che sono entrambe cose che faccio e con le quali ho la dimestichezza del mestierante.
  • Ok, potresti rispondermi così. E in che altro modo potresti?
  • Potrei parlarti di due fasi, due momenti della mia vita… hai una quarantina d’anni a disposizione?
  • Non ne sono sicura, quindi passiamo ad altro. Descrivi che rapporto pensi ci sia tra architettura e arte, in generale.
  • Nel fare architettura hai delle regole, quasi dei protocolli, che scandiscono tutto il processo creativo. Dall’idea iniziale fino alla realizzazione finale, ogni passaggio è codificato e la corretta esecuzione di ognuno di questi è garanzia di giusta riuscita del passo successivo. Per l’arte è diverso, almeno per la pittura. Puoi intervenire e correggere e adattare fino a che non ti liberi del quadro. Talvolta ci sono opere con date di esecuzione di due, tre anni. Però questo non significa che fare architettura sia limitante per la creatività. Anzi, essendo una forma complessa del fare, pone sfide talvolta più affascinanti, specie di trappole davanti alle quali un bravo architetto non si tira mai indietro. I risultati magari sono altra cosa.
  • Ti liberi di un quadro come di un demone? O di chi o cos’altro? Un parassita? Un ospite sgradito?
  • Una cosa è realizzare un lavoro, altra è il suo possesso materiale, può tranquillamente goderne qualcun altro.

Anche se è un po’ diverso per la scrittura, capisco il sentimento.

  • Progetti per dipingere?
  • Il mio fare pittura si è modificato nel corso del tempo e a causa del tempo a disposizione. Dalla fase di trance/smarrimento davanti alla tela (ero quasi un bambino) sono approdato al lavoro per fasi. Visualizzo, prendo appunti, schizzo su block notes o su Ipad, metto da parte, recupero, collaziono il tutto in testa e poi comincio il lavoro finale. Che poi come ho detto prima non finisce mai.
  • Dipingi per progettare?
  • Avendo cominciato con soggetti urbani, talvolta all’inizio mi è venuta la tentazione di fare architettura partendo dalle sghembe costruzioni che dipingevo. Fare piante prospetti e sezioni di cose che apparentemente non potevano stare in piedi, il tutto senza il supporto del computer… certi mal di testa. Ma erano virtuosismi, ho pensato. Poi qualche hanno fa a Pechino ho visto la sede della China Central Television di Rem Koolas, e mi sono divertito a immaginare come sarebbe una città fatta di linee verticali che se ne fregano della gravità e di linee orizzontali che si dissociano dalle regole prospettiche.
  • E l’hai dipinta.
  • Ci provo qualche volta.

Fulvio Tornese ci è anche riuscito, qualche volta. Puoi metterti davanti a certi quadri e lasciare che il disequilibrio ti faccia provare una qualche vertigine. Devi starci davanti, piuttosto vicino.

  • Cosa significa “allestimento”?
  • Sicuramente il momento in cui la progettazione diventa veramente “mettersi al servizio”. È una forma di progetto che però deve essere preceduta dalle scelte del curatore, alle quali tu dai sostanza fisica e spaziale.

Il più bell’allestimento che gli ho visto realizzare e che ho potuto vedere da vicino è stato per Randy Klein: ha dato il senso del movimento a decine di piccole sculture che quel senso ce l’avevano dentro.

  • Tre modi per scegliere il formato e tre per il supporto.
  • Formato e supporto sono scelte interconnesse strettamente: se voglio fare una cosa piccola scelgo quasi sempre il legno, se devo fare una cosa grande o grandissima scelgo la tela, se mi voglio rovinare la vita scelgo il legno e cerco di dargli una trama, se voglio perdere il sonno scelgo la tela e ne irrigidisco la superficie.
  • Tre modi per scegliere un titolo.
  • Ne esiste uno solo e lo scopri la mattina tra le 5.45 e le 6.15, prima stai ancora dormendo e dopo sei ormai già con un miliardo di cose sceme e inutili in testa.

I titoli dei quadri di Fulvio Tornese sono quasi storie a sé: Il signor Giovanni, Facilitazioni per campeggiatori, Legittima soddisfazione, L’opinione degli altri, Il lanciatore di nuvole, Vorrei che tu, Un amore inadatto. M’è venuta spesso la tentazione di scriverle, ma non è una cosa che farei con leggerezza.

  • Quanto conta la tecnica?
  • Come l’aria: te ne accorgi quando manca, eccome se te ne accorgi.
  • Esiste l’ispirazione?
  • Credo di sì.
  • Il senso delle [s]proporzioni.
  • Devi essere equilibrato per gestire la sproporzione e so che certe volte è meglio che non mi ci metto.
  • Il senso della serialità.
  • Per me è una scelta creativa, mi permette di lavorare sulle modifiche di uno stesso tema per essere più chiaro ed esplicito.

Delle ultime serie la mia preferita si chiama “catalogo di acconciature per giovani alberi”.

  • Tra “dentro” e “fuori”.
  • Scelgo il dentro.
  • Tra “pubblico” e “privato”.
  • Non esiste questa distinzione, esiste il diritto al privato per chiunque.

Sua moglie Carla Pinto è una direttrice artistica e una curatrice molto attiva e brillante, suo figlio Pietro è così importante per lui che ogni volta che lo nomina, fosse anche la centesima, lo chiama Pietro-mio-figlio.

  • Chi è Carla?
  • Mia moglie.
  • Ho letto che “continui a dipingere” “sostenuto” dalla sua “complicità”.
  • Infatti. Non credo ci sia una parola più adatta, che forse dovrebbe essere accompagnata alla parola “risata”.
  • Chi è Pietro?
  • Mio figlio.
  • Ho letto che è il tuo paziente selezionatore di musica.
  • Conosce i miei gusti e mi guida all’ascolto delle novità. Non solo di dischi, ma quando è possibile anche ai concerti. Chiarisco sempre che di pogare non se ne parla neanche.

Si prende molto sul serio e pochissimo sul serio, non alterna questi atteggiamenti ce li ha in contemporanea. Porta con una certa eleganza le sue contraddizioni di vivente pensante. Si capisce osservando il suo “misuratore del mondo”.

  • Il misuratore del mondo funziona?
  • Solo se è spinto da una forte convinzione interiore.
  • Quanto c’entra la politica?
  • Per me c’entra sempre, mi piace pensare che la facciamo tutti anche quando siamo convinti di subirla.

Michela la Lupa

[Avvertenza. Questo non è uno scritto sull’autismo. Questo è uno scritto su Michela. Michela Del Tinto.]

Michela si firmava Mollaian quando l’ho conosciuta, scura e riccia, oppure rossa e liscia, oppure bionda e mossa, ma sempre densa e intensa [come adesso], pittrice autodidatta, nata lupa, cresciuta lupa e lupa ritrovata. Avevo diciannove anni, coi soldi messi da parte con le ripetizioni di fisica [fisica, ho scritto fisica, intendevo fisica, sì] ho comprato due suoi quadri. A rate. Non erano accanto quando li ho visti, ma accanto li ho sempre tenuti: uno rosso e uno azzurro, in cornici grezze dipinte degli stessi colori e tenute insieme usando una sparapunti, trattati da tutti con sospetto per anni finché, finalmente, li ho appesi trionfanti al centro della scena quando ho potuto decidere in casa mia.

“Quando ci siamo conosciute avevo un rapporto molto stretto col colore, un rapporto in cui mi sono concessa il lusso di essere primitiva, anarchica, senza disciplina orari e istruzioni. A pelle ti sentivo libera e diretta, non cambiavi con le persone a seconda di chi c’era. Questo di te mi piaceva molto”.

Michela Del Tinto è una lupa e corre coi lupi, Clarissa Pinkola Estés ne avrebbe potuto raccontare, dipingeva e a volte lo fa ancora, vende tappeti orientali col marito lupo pure lui, e dà un nome che non ho mai sentito dare a nessun altro all’universo di suo figlio Teo: lo chiamano “autismo”, lei lo chiama Altrove. Un posto dov’è stata pure lei, racconta, un posto dove forse siamo stati/e in molti/e, dico io.

“Se non la guardi dal punto di vista che è tuo figlio è molto interessante, però è tuo figlio e sei nella merda”.

Teo era piccolo, io me lo ricordo.

“Teo spegneva l’interruttore e io ero sola. Sola. Ero sola e me la dovevo cavare da sola. C’è stato un lunghissimo periodo in cui non avevo mezzi per comunicare con lui, perché il suo autismo di allora non consentiva usuali connessioni. Ne ho cercate altre, ma non sono state sufficienti. E allora, visto che non potevo andare avanti, sono tornata indietro, alla mia parte animale. La Lupa”.

A Michela non piace l’autismo per come lo raccontano, e per come lo trattano le fa schifo. Michela s’è fatta lupa e un altro lupo ha imparato ad allevare provando ad accompagnarlo nell’Altrove, volendo che Teo fosse libero autonomo indipendente, con una dignità sua una dignità normale normalissima, in cui l’autismo è solo “una delle sue caratteristiche, quella neurobiologica”.

“Quando sento dire ‘ragazzi speciali con genitori speciali’ mi sento impazzire, mi sento soffocare. Che significa? Siamo tutti speciali, ognuno a modo suo. E gli autistici non sono più speciali degli altri e non sono tutti speciali allo stesso modo. È un’etichetta più invalidante dell’autismo stesso. Li vedi i ragazzi disabili che vanno a passeggio tutti assieme con gli ‘educatori’? Che pena. Li trattano da deficienti e li fanno guidare da gente deficiente davvero. No, mio figlio mai. Mai l’ho messo in condizioni di essere umiliato, e mai lo farò. Non ha senso farli interagire solo tra di loro, bisogna integrarli nella realtà quotidiana, dalla quale possono apprendere qualcosa. Isolandoli in un contesto protetto rischiano la decrescita, l’involuzione. A scuola, per esempio, i momenti della vera integrazione sono la merenda, l’educazione fisica, l’ora di religione. Bisogna creare una vera, duratura, rete d’amicizie. Non servono mezzi, manca spesso la voglia di sedersi e lavorare”.

Michela-la-Lupa aiuta Teo a far comunicare questo mondo e il suo Altrove, impiega energie straordinarie perché questa comunicazione sia il più possibile paritaria. Perché anche l’Altrove ha una sua dignità.

“Quindici anni di trincea. Sono un canale da cui quotidianamente mio figlio attinge informazioni vitali. Faccio tutto quello che è necessario perché sia autonomo e questo, mentre mi dà la possibilità di offrigli degli strumenti, me ne fa conoscere direttamente l’essenza. Provo spesso stupore, meraviglia, perché in questo viaggio ho modo di conoscere, osservare, studiare, sperimentare e creare continuamente”.

Michela ti guarda ti squadra ti penetra, non ti lascia modo di chiudere le imposte di dissimulare di rimanere sospesa di prendere tempo. O ci sei fino in fondo o ci sei fino in fondo, l’alternativa è scappare. Ma come fai a scappare davanti a quegli occhi quelle labbra quei seni, quel modo di muoversi di ridere di parlare, quella forza potenza energia che vengono fuori anche nel silenzio e nell’immobilità? Quei quadri a diciannove anni m’avevano smosso le viscere e ancora quando li guardo mi guardo dentro, mi ci fotografo davanti e scrivo “periodo rosso” o “periodo blu”.

“Mi frequento per conoscermi bene, vivo molto intensamente la mia vita sia in discesa che in salita. Credo nella legge dell’attrazione, bisogna prendere quello che fa bene. Adesso è molto facile, tutti vogliono bene a Teo, ma io ho il cuore in riserva e l’anima che non parte. Ci sono dei limiti che vengono superati troppo facilmente, e che invece devono essere rispettati, come quelli di tutti”.

Michela s’è fatta Lupa e ha recuperato l’istinto. Sull’istinto s’è basata e ha fatto quello che ha creduto capito voluto. Lo fa ancora, e nel seguire quell’istinto che le ha “salvato la vita” si incazza risponde spiega insiste. Lo fa anche quando sembra inutile assurdo improduttivo.

“Mi hanno detto che era autistico, io l’ho guardato e gli ho detto: noi ce la caveremo, ma ti farò il culo. Ho fatto così. Ho letto tutto, so cosa dice la scienza, ma devo la mia vita agli scrittori, non ai medici. Niente psicofarmaci per Teo, niente schifezze. Non parlo in generale, parlo della mia esperienza personale: non sono tutti uguali. Non esiste un’‘autistica persona’, ci sono ‘persone autistiche’. Devi conoscere bene tuo figlio, e per conoscere tuo figlio devi conoscere te stesso. A quattro anni volevano sedarlo, ma noi volevamo prima conoscerlo. Non devi delegare, devi essere in prima linea come genitore, usare la scienza nel modo più adatto al caso specifico. Ecco perché dico che devo la mia vita agli scrittori, non ai medici. Gli stimoli emotivi che m’hanno ispirato salvato guidato sono venuti dalla letteratura”.

L’autonomia di Teo.

“La sua autonomia è la mia priorità assoluta. E la vedo all’orizzonte, albeggia, cresce in proporzione alle risorse che pian piano scopre di avere, che acquisisce di giorno in giorno”.

No, non si preoccupa del dopo-di-noi.

“Come fai a occuparti del dopo-di-noi se non conosci cosa accade mentre-noi? Io non sono concentrata sul mondo, io sono concentrata su Teo”.

Non ho voluto leggere un granché sull’autismo, non prima d’aver scritto di Michela. Michela che una volta al telefono con Teo s’è fatta una risata: “I calzini sono nel tuo cassetto. Senti, ma che vuoi da me?”. Molta tenerezza ma nessuna indulgenza, molta comprensione ma nessuno sconto. Tutte le madri di uomini dovrebbero puntare all’autonomia.

“I prossimi saranno anni cruciali. Seguiremo lezioni di teatro. Basta vocine acide poco attraenti. Dizione, postura. E poi danza. Dev’essere un uomo attraente”.

Un programma che consiglierei a tutti gli uomini. Ciao, Michela. Al prossimo caffè, alla prossima cena. “Saluti a tutti. Autistici e non”.

Ilaria Seclì diafana e feroce

T’appare diafana, sorriso largo di piccoli denti, risata acuta e lieve, ricci capelli tenuti assieme da mille mollette, sigarette frequenti. La leggi, poi, di ferocia attraversata. Ilaria Seclì, salentina nata a Ginevra, poeta di energia stra-ordinaria dentro voce e passi lievissimi, da anni errante tra il nord e il sud di un’Italia che le piace sempre meno, l’ho scoperta e amata per “Destino al mercato”, una poesia divenuta naturalmente uno dei manifesti di “io sono bellissima”.

Ilaria, il “grande pubblico” – così pare che si dica – ti ha conosciuta per aver scritto “Lo zoo dei proletari”. Una poesia incredibile in sé, figurarsi scritta a 19 anni. Ma ti rendi conto?
Lo zoo dei proletari è un grido, un’alternativa a un atto violento. Nasceva dalla rabbia, dalla volontà di abbattere argini e costrizioni che ammanettano la libertà individuale. Mi riferivo a certi schemi educativi che tendono a “recintare sperando di salvare”, che negano, impediscono, per evitare di. Un processo alle intenzioni di vivere. Pensavo al potere che un individuo esercita nei confronti di un altro individuo limitandone potentemente la libertà. Prima forma astratta di proprietà privata da ostacolare, denunciare, la più subdola, pervicace, pericolosa, i cui effetti sono molteplici e duraturi. Insomma, la storia di una diciannovenne di un’estrema e arretrata provincia che a 11 anni leggeva Leopardi, le Confessioni di Rousseau e I fiori del male di Baudelaire. Ricordo bene che lo scrissi in meno di un’ora, un pomeriggio di primavera. Rileggendolo, penso alla forza, alla ferocia, al coraggio.

Quella è stata la tua prima poesia?
No, la prima poesia credo di averla scritta a 9, 10 anni. Ero sola in casa, fui “presa”. Uno stato di percezione alterata, caotica pienezza. Caos armonico. E l’urgenza di trasferire su carta quel vortice, quell’estasi, quell’ubriacatura, quelle visioni che mi attraversavano e che mi portavano, ricordo, nel “bosco”, una parola che evocava ciò che avrei amato e che avrei visto, per la prima volta, molti anni dopo. Sentivo che c’era altro, altrove, che nessuno aveva educato alla familiarità con un regno invisibile in cui i sensi si affinano, si espandono per esplorare modi, mondi, sentieri misteriosi, sconosciuti. Tutto ciò che nessuno si affrettava a farti sapere, a trasmetterti, a insegnarti. Ciò che è nel prodigio non passa dalla pedagogia, dall’educazione. E ciò che deve compiersi trova sempre il modo, ti trova se ti deve trovare.

La più classica delle domande, te l’avranno fatta mille volte. Rispondi anche questa volta, ma in tre parole: cos’è la poesia?
Una visitazione. La Poesia è l’Inizio, un eterno primo sguardo. Il miracoloso. Più di tre parole, ho sforato. In verità a questa domanda bisognerebbe rispondere col silenzio.

E che cosa ti dà?
Ogni risposta sarebbe riduttiva, come per la domanda cosa ti dà il respiro, aprire gli occhi, stare al mondo?

C’è forza nella poesia?
Sì, una forza di grazia. Ho posto la mia fiducia nel vivo che non muore.

C’è differenza secondo te, nel fare poesia (o nel creare, in generale), fra donne e uomini?
Non mi interessa il genere di chi scrive ma l’onestà con cui si fa guidare nella scrittura, la ricerca e lo sforzo di perfezionamento, l’assenza di smania di arrivare da qualche parte. Conta l’atteggiamento, che dovrebbe essere di umiltà, come di chi ha la facoltà di ricreare il mondo nello spazio bianco consapevole di essere uno strumento, un medium.

Quali sono i tuoi riferimenti di poetesse e/o scrittrici? Perché?
Amelia Rosselli per la scomposta viscerale grazia, eleganza, per la disperazione fatta bouquet di margherite e chiodi, e offerta. Ecco, Alejandra Pizarnik, figlia dell’insonnia: “Sono stata tutta un’offerta, un puro vagare di lupa nel bosco”. Sua voce di selva e silenzio perfetto. Silvia Molesini, sguardo che vortica spietato sull’ordine imperfetto delle cose. Sonda ruvida tra le fughe del com’è, del cos’è stato e del cosa avevamo pre-visto, canto barbaro di grazie perdute e assenze. E altre a cui penserò tra un secondo. Ah, ecco, Antonia Pozzi, denso dialogo con la natura e il mistero che indica, armonico conversare tra l’assente e il maestoso. Catherine Pozzi la cui conoscenza devo a un libro di Marco Dotti. Catherine, il buio d’oro.

Dovessi dare un consiglio a te Ilaria di qualche anno fa, quella degli “inizi”, quale sarebbe?
A me piccola direi di non prestare orecchio a ciò che sembra più facile, che crea apparenti agi, comodità, di resistere al processo di conformazione che pratica strade meno impervie, di continuare ad avere cura di quello sguardo e di ascoltare ciò che tace e che per altre vie si rivela. Mi direi di non cedere all’ambizione che fa spesso delle cose di poesia palchi da bagaglino. Consigli inutili perché non mi sono tradita, almeno nella poesia.

Il confronto con altri “ambienti” artistici, fuori della Puglia: cosa hai notato?
In qualche caso una maggiore attitudine a fare rete, collaborare. E poi una maggiore valorizzazione anche economica del lavoro artistico.

Hai tre raccolte poetiche nel cassetto. Pensi troverai un modo di tirarle fuori?
Ah, gli inediti… tra cui la creatura più amata e riuscita, “L’impero che si tace”, prose poetico-geografiche scritte viaggiando. Non ho fretta, evidentemente. Aspetto l’occasione/proposta migliore, magari quella che si sottrae al costume imperante di chiedere soldi per la pubblicazione. È un’impresa, lo so, ma non è impossibile. Bisognerebbe trovare modi per entrare nel “sistema”, dice qualcuno, crearsi varchi, anelli, ponti, farsi strada. Ecco, non ne ho né il tempo né la voglia né l’attitudine. Credo ancora nei rapporti umani guidati dalla schiettezza, dalla gratuità, accadono casualmente per rivelarsi poi necessari.

Ilaria Seclì ha pubblicato “D’indolenti dipendenze” (Besa 2005), “Chiuderanno gli occhi” (con Antonio Diavoli, Quaderni di Cantarena, Genova, 2007), “Del pesce e dell’acquario” (LietoColle 2009). Nel 2007, con l’attore e regista Adamo Toma, ha inscenato lo spettacolo teatrale tratto dalla raccolta inedita “La sposa nera”. Sillogi in antologie: “Poeti Circus, i nuovi poeti intorno ai trent’anni” (a cura di Giuseppe Goffredo, Poiesis edizioni 2006), “Il Segreto delle fragole” (a cura di Giampiero Neri e Fabiano Alborghetti, LietoColle 2006), “Sud del Sud dei Santi” (a cura di Michelangelo Zizzi, LietoColle 2013).

con una risata Gianna di ucciderà

Gianna Greco è stata una delle prime musiciste con cui ho tessuto una relazione significativa. L’ho conosciuta nelle Shotgun Babies, la cui fondatrice – Cristina Cagnazzo – ha lavorato con me alle presentazioni dei miei racconti per due anni.

Gianna ride con tutta la faccia, apre quella bocca dai denti perfetti, ingrossa il petto e, se non hai forza sufficiente, t’uccide con la sua energia piana e strafottente. Se ne frega, Gianna, ha imparato a fregarsene di tutto e di tutti. Ha pianto, l’hanno fatta piangere, se ne frega. Lacca le unghie di rosso o di nero, prende il basso e se ne frega.

Salentina dell’85, formazione classica, laurea in scienze politiche, ha studiato musica da autodidatta e poi canto e basso a livello professionale. Compone, arrangia e suona il basso nelle Shotgun Babies, nei MUFFX e, dal 2012, nel Putan Club nelle sue varie formazioni. Tra queste, con quel mito vivente che è Lydia Lunch. Co-fondatrice dell’etichetta Ill Sun Records, ha suonato anche per Opa Cupa, Mentally Doof e Baye Fall.

«Diciotto anni fa ho cominciato a suonare la chitarra. Credevo di non essere portata per la musica. Il basso è arrivato sette anni dopo. Mi piaceva da tempo, e quando l’ho sfiorato per la prima volta ho sentito qualcosa nello stomaco: lì ho capito che era il mio strumento! Ho sempre avuto un rapporto di odio/amore con la musica in generale e con il basso in particolare. A un certo punto l’ho anche lasciato completamente. Due anni e mezzo senza suonare: mi sentivo incapace e poco portata».

Non ci credo.
«Davvero. Poi, dopo un concerto nato per caso con un musicista che adoravo e tutt’ora adoro – un vero mito per me!, ho ripreso e non mi sono più fermata. Adesso il basso è il mio modo preferito di mettermi in gioco. Con il basso tiro fuori il mio vero carattere».

Parli di François R. Cambuzat, si può dire?
«Ovvio, sì! Certo che si può dire… si DEVE dire!!!».

Ti sento parlare spesso di rabbia. Tu sei incazzata. Con chi? E perché?
«È una rabbia atavica, incrostata da anni di brutte esperienze e di altre bellissime che poi hanno lasciato l’amaro in bocca. Credo che sia più che evidente che attualmente viviamo in un’era… “invivibile”, e che per sopravvivere ci si deve inventare giorno per giorno. Bene. Io invento la mia vita, passo dopo passo, mettendoci tutto quello che posso metterci, a testa alta e senza troppi giri di parole e con tanta rabbia. In particolare con la musica riesco a tirare fuori quello che ho dentro».

Hai un rapporto molto fisico col basso. A me piace da morire. Una volta a un tuo concerto ho riso un sacco perché un amico era sconvolto dalle tue cosce. Diceva: “Le mostra troppo. Perché fa così? Che provocazione è?”. Ho tentato di spiegargli che “provocare” era l’ultima delle tue intenzioni e l’ho invitato a godersi lo spettacolo.
«Ahahah, ti prego presentami il tuo amico! Beh, prima cosa: sul palco sono esattamente come sono nella vita. Non uso pantaloni da nove anni. Gonne, vestiti… solo ed esclusivamente questo. Seconda cosa: no, non è una provocazione. Quando suono so solo di essere me nella versione più felice e soddisfatta, il “guscio” in cui mi trovo è nulla di più che un contenitore. Ogni volta che suono noto con profondo piacere che se durante i primi minuti del concerto molti uomini sono più attenti alle mie cosce che al suono del mio basso, alla fine del concerto hanno dimenticato di avere di fronte una donna».

T’ho coinvolto in iosonobellissima perché penso che tu sia femminista, come me. È vero?
«Dire d’essere femminista per me significa ammettere che c’è un problema, e non mi piace. Invece il problema esiste. Capita di doversi confrontare con gente che senza averti mai sentita suonare crede che tu non sia capace per il solo fatto che sei una donna. Questa è una doppia sfida che, non lo nascondo, mi dà il doppio del gusto. Vivo questo aspetto come un motivo per fare di più ogni volta».

Dovessi dare un consiglio alla Gianna di qualche anno fa, quella degli inizi, quale sarebbe?
«Spacca tutto!!! (ride, ndr)».

Parliamo dell’esperienza internazionale con il Putan Club: cosa ti sta insegnando?
«Forse è ancora presto per dirlo, ma posso provarci. Innanzitutto mi sta insegnando ad avere un rapporto più professionale con la musica, che da due anni è diventato il mio unico lavoro. E poi tanta sicurezza in più. Suonare ogni giorno davanti a migliaia di persone mi ha dato grande soddisfazione e tantissima grinta in più. Quello che mi ha fatto ridere è stato rendermi conto che all’estero sono abbastanza conosciuta. La gente sa chi sono, da dove vengo, quanti anni ho, quali sono i gruppi in cui suono. Che dire… nemo propheta in patria? (ride, ndr)».

Lydia? È un’artista incredibile, una storia dolorosissima. Come si lavora con lei?
«Divinamente bene. Una donna magnifica, con cui è solo un piacere e un onore poter condividere il palco… e poi è maledettamente r’n’r! Quindi l’ADORO!».

Non dai nessun segno di “sudditanza” rispetto a questi grandi nomi.
«Preferisco non dipendere da nessuno. Il mio percorso da bassista deve proseguire e spero migliorare grazie al mio sudore e basta».

Hai un sacco di progetti.
«Sì. Quest’inverno uscirà il disco delle Shotgun Babies sul quale abbiamo lavorato intensamente per mesi. Da qui, tour in Italia e in Europa per tutto il 2013 e 2014. Tra settembre e ottobre 2013 sarò in tour con il Putan Club in Spagna e Portogallo. Faremo un nuovo giro in Italia fino al Libano a partire da gennaio 2014, ad aprile 2014 saremo per un mese tra Cina, Giappone e Vietnam, a maggio ripartiremo per l’Europa dell’Est. Nel frattempo sto componendo pezzi per un mio progetto da sola. Avvertivo l’esigenza di farlo ormai da molto tempo e finalmente ci sono riuscita. Entro aprile 2014 conto di concludere la composizione, in modo da poter organizzare un bel tour per l’autunno 2014… on the road again!».

E poi?
«E poi voglio una casa tutta mia. È il momento».

Ilaria Guidantoni tunisina italiana [e anche il contrario]

Un’amica di un’amica cercava una giornalista che presentasse “un libro sulla Tunisia in cui c’è attenzione per le donne”. È così che ho conosciuto Ilaria Guidantoni. L’ho vista due volte e ci siamo scritte alcune decine di e-mail, ho letto tre dei suoi libri e lei uno dei miei. Ho chiesto di lei, sbircio le sue foto. Il fatto che la trovi sempre ben vestita e pettinata, che porti borse e occhiali firmati, che indossi pellicce e che abbia un piglio sempre piuttosto formale normalmente mi farebbe passare ogni desiderio di approfondimento. Invece Ilaria mi incuriosisce terribilmente: trovo irresistibile il suo innamoramento per la Tunisia. La rende trasparente.

Insomma chi è Ilaria? Dimentica il contesto, qualunque contesto. Definisci chi sei.
«Una donna del Mediterraneo, una specie di apolide. Non lo dico per vezzo: raccontando del Mediterraneo trovo, adesso, il mio riconoscimento maggiore. Culturale ma anche di orizzonte, visione dell’esistenza, complesso di valori morali e religiosi. Vi è una confluenza di anime diverse che è anche nella mia formazione. Amo la sponda a sud del Mediterraneo».

Non riesco a definire “reportage” quello che scrivi.
«No, è una scrittura un po’ di confine. So che è un rischio: assieme alla ricchezza delle differenze che si mescolano, c’è la possibilità del limbo. C’è però una traccia chiara, e cioè il tema dell’“incontro con l’Altro”, presente fin dal primo saggio sulla sicurezza stradale. Certo nell’ultimo – “Chiacchiere, datteri e the. Tunisi, viaggio in una società che cambia” – la scrittura si fa più chiara. È un reportage “caldo”, tutto in prima persona e legato anche a pensieri ed emozioni personali».

Racconti della Tunisia e sei – come si dice in gergo – sempre sulla notizia. Eppure io continuo a trovare più rilevante, più evidente, il dato “personale”. È questo che mi pare definisca il tuo attaccamento a questo Paese.
«Me ne sono innamorata attraverso un incontro personale. Ecco, la vita privata a volte ci porta ad aprire delle porte, poi non è detto che si rimanga nella stessa casa o si esca dalla stessa porta. Io nel frattempo mi sono legata a questo mondo: una vicenda personale mi ha aperto le porte su una vicenda collettiva. Frequentavo la casa di una persona che si occupava (e si occupa) di diritti umani sotto la dittatura: questo ha spalancato un mondo insospettabile. È stato viverlo da dentro, con le preoccupazioni di chi vive una vicenda personale, che probabilmente mi ha portato a scriverne col cuore».

È una storia che continua, insomma, anche se in modo diverso.
«Sai cosa mi succede, adesso? Che frequento molti italiani di Tunisi, italiani nati a Tunisi o che vi vivono in parte o che hanno sposato tunisini. E poi studio arabo e tunisino. Da due anni, anche se con scarsi risultati (sorride, ndr). Il problema è che è molto difficile imparare a parlarlo, vorrei intanto imparare a capirlo. È il passo che voglio arrivare a fare entro un anno. Adesso, scherzando, dico che potrei giocare a nomicosecittà. Conosco, insomma, molte parole. Però l’ultima volta a Tunisi sono andata in un quartiere popolare, ho visto un’insegna, ho riconosciuto che era un ristorante e sono riuscita a leggere il menu in arabo. Mi sono sentita dentro il Paese. Adesso in Italia mi fanno i complimenti per il mio italiano, è buffissimo, mentre a Tunisi la gente mi parla in arabo in qualunque modo io sia vestita. Mi emoziona».

Sei innamorata. Raccontamene i sintomi.
«La malinconia che ho provato le volte che ho lasciato quell’aeroporto. E poi, adesso, se penso al “ritorno” non so di cosa parlo: dell’Italia? della Tunisia? Non so più dov’è questo “ritorno”. Mi era già successo in Italia. Evidentemente un luogo solo non mi basta. Sono in egual misura fiorentina, milanese e romana, ma a parte il legame con la famiglia e la lingua… non riesco nemmeno più a dire d’essere italiana. Altra cosa: a Tunisi riesco a prendere tempo per me. Ecco, forse mi sono innamorata di quel posto perché quando sono lì riesco a non finalizzare il tempo in modo così stringente come faccio altrove. Vivo con un senso di pienezza, quando invece normalmente ho tre telefoni sempre accesi e l’orologio sempre sott’occhio. In Tunisia ho scomposto i miei schemi, proprio come accade quando ci si innamora».

A volte è come se tu dicessi “guardatemi, sono io, sono qui!”.
«Ho molta paura che se… non sto sulla notizia… si dimentichino di me. Ho paura che lontana dai loro occhi possa diventare lontana dal loro cuore. È una forma di corteggiamento, anche. Lo so».

Se ho capito qualcosa di te, ti sei portata in casa un po’ della Tunisia. E parlo di sensazioni.
«Una teiera, un tappeto berbero, gioielli, una sciarpa, una zuppiera, delle coppette dipinte a mano che uso spesso. Ci penso per la prima volta: sono tutti regali. Io non ho mai comprato oggetti per me, per me compro cose che consumo. Il profumo che si utilizza là per i cuscini, il the, vino e aceto balsamico di datteri. Sì, compro cose che consumo, non mummifico la Tunisia».

Ho idea che tu stia provando a spostare parte del tuo lavoro in Tunisia.
«Vorrei cercare di rappresentare, in qualche modo, un anello tra i due Paesi. Turismo, agroalimentare, piccola e media impresa, lavoro femminile. Secondo me ci sono tutti i presupposti per costruire assieme».

[Ilaria Guidantoni ha scritto: “Vite sicure” (Edizioni della Sera, 2010); “Prima che sia buio” (Colosseo Grafica Editoriale, 2010); “I giorni del gelsomino” (P&I Edizioni, 2011); “Tunisi, taxi di sola andata” (NoReply editore, 2012), “Chiacchiere, datteri e thé. Tunisi, viaggio in una società che cambia” (Albeggi Edizioni, 2013)].

professione papirologo

Il professor Mario Capasso, ordinario di Papirologia all’Università del Salento, ha fondato e dirige il Centro di studi papirologici e il Museo papirologico dell’Ateneo. Delegato ai Musei dal 2008 e Presidente nazionale dell’Associazione di Cultura classica, è direttore – con Paola Davoli – della missione archeologica UniSalento a Dime (Fayyum, Egitto).

Professor Capasso, il suo è un mestiere che coincide così chiaramente con una grande passione che viene naturale partire dalla più ovvia delle domande. Com’è cominciata?
«Ho cominciato seriamente a pensare di dedicarmi al mestiere di papirologo frequentando i corsi di Papirologia all’Università di Napoli, negli anni Settanta del secolo scorso: mi affascinava il contatto diretto con il testo antico, la sfida, se posso usare questo termine abusato, che la sua decifrazione in qualche modo lancia a colui che ha il compito di decifrarlo. Decifrare per la prima volta un testo è stabilire un contatto diretto con colui che lo ha scritto o fatto scrivere, una persona vissuta molti secoli fa».

In vent’anni di scavi, abbiamo visto scoprire al suo gruppo di lavoro numerosi reperti importanti in modo costante. Quali sono i segreti di una così prolifica attività di ricerca?
«Non ci sono segreti in questo mestiere: occorrono passione, entusiasmo, abnegazione, fiducia. Quando sono impegnato in Egitto per l’annuale Campagna di Scavo, mi sveglio al mattino pensando che quel giorno sarà un gran giorno, un giorno di una grande scoperta. Poi magari la grande scoperta non si verifica, ma quale altro lavoro può definirsi altrettanto esaltante?».

Come descriverebbe l’emozione della più recente scoperta? Si prova sempre lo stesso sentimento?
«L’emozione che si prova nello scoprire un oggetto importante, che sia un papiro o una statua, è qualcosa di elettrizzante, una sorta di euforia, che ripaga dei tanti sacrifici che questo nostro mestiere ci impone. La scoperta dei due leoni è stato un momento esaltante, per noi dello staff, ma anche per gli operai, umili contadini che per poche lire egiziane al giorno svolgono un lavoro certamente faticoso, ma che sono orgogliosamente consapevoli del loro ruolo».

Parliamo della recente conferma alla presidenza nazionale dell’Associazione di Cultura Classica. Di cosa si occupa, in dettaglio, l’associazione?
«L’AICC, nata nel 1897, si prefigge di tutelare e divulgare le nostre gloriose tradizioni classiche. Organizza congressi, gare di greco e di latino, seminari, conferenze, viaggi di studio. Soprattutto vigila affinché le nostre discipline classiche siano adeguatamente rappresentate nell’ordinamento scolastico e in quello universitario».

Cosa della classicità crede che manchi di più?
«Delle tante definizioni che si possono dare della classicità mi piace quella che vuole che la classicità è il rispetto per l’uomo, la fiducia nella centralità dell’individuo, del suo pensiero, dei suoi sentimenti, della sua libertà. Al giorno d’oggi si tende a perdere di vista tutto questo, che rappresenta il grande insegnamento lasciatoci dagli antichi».

In un panorama di sempre più scarsi finanziamenti per la ricerca scientifica, quanto soffre la ricerca “umanistica” rispetto a quella – per esempio – con applicazioni per l’industria?
«La ricerca umanistica soffre moltissimo rispetto a quella scientifica, che, va detto, pure non gode di ottima salute, ma certo dispone di più risorse. Si tratta di una situazione non solo italiana ma certo in Italia, che è la culla della cultura umanistica e che riserva una percentuale irrisoria, appena lo 0,19% del PIL per la tutela del suo patrimonio culturale, noi umanisti viviamo una situazione che non esito a definire drammatica».

Lei lavora con giovani ricercatori e ricercatrici e tanti appassionati. Qual è l’augurio che si sentirebbe di rivolgere?
«Che con la fine di questa devastante crisi internazionale i fondi messi a disposizione delle Università possano tornare almeno a livelli decorosi, in modo che questi giovani possano concretamente sperare di dedicarsi serenamente alle loro ricerche: abbiamo già perso più di una generazione di giovani eccellenti; considero questo una sorta di peccato mortale verso di essi ma anche verso il futuro dell’Italia».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

nell’immagine i professori Capasso e Davoli con lo staff di ricerca in Egitto

Loretta ricercatrice e innovatrice

Dall’Italia alla Germania e ritorno, tre diversi “focus” di ricerca dalla laurea al contratto come ricercatrice al CNR-Nano di Lecce, 22 pubblicazioni su riviste scientifiche peer-review, un brevetto internazionale. Se vi pare già abbastanza per una trentatreenne, ecco la “notizia”: Loretta del Mercato è tra i vincitori del premio ‘Tr35 giovani innovatori’ promosso da ‘Technology Review’. Stiamo parlando della rivista per l’innovazione del Mit – Massachusetts Institute of Technology, che punta a raccogliere il meglio delle idee innovative e dei progetti di ricerca applicata e che in Italia gestisce il premio in collaborazione con il Forum Ricerca Innovazione. «Ho anche un bambino di nove mesi», aggiunge Loretta sorridendo.

Loretta, non riesco a non cominciare dalla più classica delle domande. Con la scienza è stato subito amore?
(sorride, ndr) «Ho capito che volevo occuparmi di scienza e di ricerca quando frequentavo il Liceo classico, ma da piccola amavo trasmissioni come Viaggio nel corpo umano. Eh, sai, Piero Angela… (ride, ndr). Comunque al momento della scelta universitaria ero in dubbio: medicina o qualcosa di più sperimentale? Alla fine ho iniziato a studiare Biotecnologie agrarie a Napoli, e mi sono laureata con una tesi sperimentale producendo piante transgeniche. Dopo la laurea mi sono però resa conto che in Italia – come in Europa – le biotecnologie vegetali erano condannate: per il cosiddetto “principio di precauzione”, occorreva dimostrare che il prodotto transgenico non fosse nocivo con ben dieci anni consecutivi di ricerche. Insomma, non ci vedevo un grande futuro».

E qui il primo cambiamento.
«Sì, ho pensato di usare il dottorato per “spostare” il campo di ricerca. È importante, anche perché si acquista flessibilità. All’inizio si può fare, soprattutto dopo la laurea si è piuttosto versatili. Ora, poiché il mio allora fidanzato e adesso marito è di Lecce, guardando i vari bandi di dottorato in Italia mi soffermavo anche su quelli dell’Università del Salento. C’era un concorso all’Isufi, presso il Laboratorio nazionale di nanotecnologie, un dottorato in Materiali e tecnologie innovative, perciò sono venuta a visitare l’Istituto. Ne sono rimasta molto colpita: una realtà internazionale, seminari in inglese, ricercatori con background diversi che lavoravano assieme… qualcosa di simile alla Silicon Valley, mi sembrava l’America. Insomma ho scelto Lecce preferendola a dottorati altrettanto validi, come quello alla Sissa di Trieste. Nel corso del dottorato, per farla breve, sono passata alla bioelettronica. Si trattava di creare dispositivi elettronici utilizzando materia biologica come proteine e fibrille. Lavoravo con alcuni fisici. Il mio tutor era la professoressa Rosaria Rinaldi, e poi c’era il professore Roberto Cingolani come responsabile del dottorato».

Dopo il dottorato, però, hai cambiato ancora. Perché?
«Il post-doc è una fase in cui hai ancora qualche possibilità di cambiare, cosa che è utile soprattutto per arricchire il tuo bagaglio scientifico. Perciò mi sono “spostata” di nuovo, verso la scienza dei materiali applicata (anche) alla medicina. Sono stata a Marburgo, in Germania, a lavorare con il professor Wolfgang J. Parak: full professor a 40 anni, aveva fatto il post-doc a Berkeley nel campo delle nanoparticelle per applicazioni biomediche. Ci ho lavorato per due anni e tre mesi, con l’incarico di formare – all’interno del gruppo più grande – un mini-gruppo di ricerca, composto da un dottorando di fisica, due studenti di fisica e una tesista di chimica. Si trattava di sintetizzare le capsule di cui mi occupo tuttora. Il professore voleva cominciare a utilizzare questi sistemi, già a regime in diversi laboratori nel mondo, nel suo. Ho letto tanti articoli e fatto tante prove».

Per due volte hai cambiato settore di ricerca, e senza preparazione iniziale specifica. Qual è stata la tua “arma” vincente?
«Io credo che i miei mentori abbiano valutato soprattutto l’impegno, la volontà di fare bene, la voglia d’essere innovativa. L’andamento dei finanziamenti per la ricerca è chiaro: ora è il momento dell’elettronica, ora quello della nanomedicina, ora quello delle energie rinnovabili. Il mio interesse generale è per la ricerca applicata, e da tre anni a questa parte mi appassiono sempre di più allo sviluppo di materiali intelligenti per curare malattie del corpo umano».

È con un’applicazione del genere che hai vinto il premio.
«Sì, sensori ottici fluorescenti costituiti da capsule di dimensioni inferiori a quelle del diametro di un capello. All’interno delle capsule abbiamo inserito delle molecole fluorescenti sensibili alle concentrazioni di ioni potassio, sodio e di protoni. Queste molecole, che sono vendute dalle aziende e utilizzate per tanti altri studi, emettono luce a intensità diversa a seconda dell’elemento che leggono in una soluzione. All’esterno delle capsule abbiamo applicato delle “etichette” con miscele diverse di nanoparticelle fluorescenti, più piccole di un virus, che fungono da codici a barre, come quelli utilizzati per catalogare i prodotti in vendita nei negozi. Queste “etichette” luminose consentono l’identificazione univoca del tipo di sensore in esame, mentre l’interno della capsula identifica le molecole nella soluzione misurandone la concentrazione. La novità di questa ricerca consiste nell’avere aggiunto al materiale una funzione nuova, una proprietà che prima non aveva, utilizzando una tecnologia a basso costo».

Ci spieghi come viene utilizzata?
«Posso fare l’esempio di un’industria farmaceutica che vuole testare l’efficacia di una serie di composti terapeutici per il trattamento di determinate malattie. Una possibile soluzione per farlo è incubare le cellule con i nostri sensori. Si trattano le cellule con i diversi composti che vuole testare l’industria, e si studia la risposta delle cellule ai trattamenti. Esposta a un farmaco, infatti, nella cellula si innescano processi biochimici evidenziati da cambiamenti di concentrazione di determinate molecole. La cellula trattata, per esempio, produce più protoni. È un bene? È un male? È quello che volevamo in risposta a questo trattamento? Noi forniamo degli strumenti al ricercatore o all’industria per verificare qual è l’effetto dei trattamenti sulle cellule».

Quali sono le ulteriori prospettive di ricerca?
«Dovremo creare un dispositivo ancora più sofisticato, al quale aggiungere un’altra funzione. Finora ne abbiamo inserite due: la capacità di monitorare elementi diversi e l’etichetta luminosa esterna. La terza funzione sarebbe quella di avere all’interno di queste capsule anche il farmaco, perché possa essere rilasciato – volendo – dall’esterno. Un operatore al microscopio potrebbe monitorare la situazione della cellula che vuole trattare misurando la risposta della capsula, e irradiare la cellula in un determinato momento. La capsula, a quel punto, si romperebbe rilasciando il farmaco trasportato».

Quanto tempo potrebbe volerci?
«Dipende da quanti soldi avremo a disposizione. Al momento sto valutando l’interesse di alcuni venture capital che ci hanno chiesto qual è la fattibilità del progetto, a che stadio siamo, se siamo più interessati a un city incubator oppure se siamo pronti a fare una start up. Vedremo».

Come è organizzato il tuo lavoro attualmente?
«Ho dei tesisti che vanno e vengono, e questo è un grande ostacolo. Bisogna formarli, ma senza budget per mantenerli bisogna ricominciare daccapo con i successivi. Sono pause che pesano moltissimo: non si può avere un gruppo costante di ricerca e si “sciupa” il fattore umano. Così è successo quando dalla Germania ho portato know how in Italia. La precarietà organizzativa si ripercuote sulla ricerca e sulla crescita scientifica dei ragazzi che le si accostano. Io stessa ho avuto piccoli contratti che si rinnovano a brevi intervalli. Non sai mai quali piani di ricerca impostare a medio termine, la precarietà è un ostacolo molto forte per le persone e anche per l’immagine della ricerca italiana all’estero, dove questo è inimmaginabile».

Che cosa fa realmente la “differenza” quando si fa ricerca? Tra donne e uomini? Tra l’Italia e la Germania?
«Certi risultati non si ottengono lavorando otto ore al giorno, bisogna farne 12 e più, che tu sia donna oppure uomo. I tempi di certi sperimenti lo esigono, bisogna lavorare duramente e di continuo. Ho sempre dedicato tanto tempo alle mie ricerche, anche durante gli anni di tesi a Napoli e di dottorato a Lecce, molti weekend li passavo in laboratorio. In Germania però è migliore l’organizzazione sociale, questo sì, in Italia non ci sono abbastanza servizi per le famiglie, e quelli privati sono molto costosi rispetto agli stipendi. In Germania, a parità di incarico, lo stipendio è più alto se hai famiglia, e questo è un aiuto perché ti puoi per esempio permettere una baby sitter. In questo modo puoi lavorare con maggiore serenità, senza dover sacrificare figli e marito ai tempi della ricerca, come purtroppo sono costretta a fare io. E poi lì conta molto quello che produci, le piste di ricerca, gli obiettivi che presenti, diciamo che l’organizzazione invece di essere il maggior ostacolo ti sostiene e ti spinge».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

la lingua della consapevolezza

Pensare di intervistare un “Accademico della Crusca” può dare qualche grattacapo: mentre ragioni sulle possibili domande da porgli ti chiedi se, pur nel convincimento d’aver maturato una certa consapevolezza nell’uso dell’italiano, finirai comunque per dire qualcosa che lo farà rabbrividire e che solo per cortesia non ti rimprovererà. Rosario Coluccia, Preside della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università del Salento, è stato nominato “Accademico della Crusca” il 12 dicembre scorso. Lo ha deciso il Collegio dell’Accademia con un metodo semplice, secco, diretto: la cooptazione. Ebbene la buona notizia è che, nel corso della nostra intervista su questo bel risultato peraltro dotato di un paio di ‘record’ (non si vedeva un pugliese nell’Accademia dai tempi del cerignolese Nicola Zingarelli, nel ’23, e a oggi Coluccia è l’unico Accademico che insegni in un’Università meridionale), il professore non m’ha rimproverato di nulla. Mi sono però fatta l’idea che sia stato semplicemente perché ho deciso che tutti i miei grattacapi potevano utilmente diventare altrettante domande.

Preside, nella Crusca era già “socio corrispondente”. Come dev’essere interpretata questa nomina? La successiva tappa di un percorso già scritto?
«No, non c’è alcun automatismo. Il Collegio dell’Accademia non si muove sulla base di candidature o auto-candidature o schemi di “carriera” o considerazione del percorso accademico o dell’età anagrafica, ma sceglie dopo aver valutato l’attività scientifica degli studiosi. Rispetto a quand’ero “corrispondente”, la differenza è che adesso posso partecipare anche alle decisioni che riguardano la vita dell’Accademia».

Parliamone. Abbiamo corso un grosso rischio, vero? Mi riferisco ai finanziamenti pubblici.
«Sì, la stessa sopravvivenza dell’Accademia era in pericolo. È finita bene: nell’ultima Finanziaria si è stabilito di destinare un finanziamento ordinario continuativo all’Accademia dei Lincei e all’Accademia della Crusca. Una decisione forte, molto significativa, perché dà l’idea di una precisa strategia politico-culturale, in un momento in cui tutti siamo chiamati a costruire un futuro meno incerto senza sprecare neppure un centesimo. Questi fondi ci consentono finalmente di programmare un’attività stabile e duratura, oltre a garantire le spese fisse: personale e patrimonio librario».

Che cosa significa essere “Accademico della Crusca” esattamente? Qual è la vostra attività?
«Prima di tutto si pubblicano tre importanti riviste (Studi di filologia italiana, Studi di grammatica italiana e Studi di lessicografia italiana, ndr), ma soprattutto si fornisce un servizio di consulenza linguistica. Facciamo una breve premessa storica. Per nostra fortuna, da cinquant’anni a questa parte siamo un popolo italofono, abbiamo cioè raggiunto l’unita linguistica: tutti parliamo italiano, e questo ci consente di sentirci parte di uno stesso tessuto sociale. Sono stato di recente al Quirinale, assieme ad altri linguisti, e il Presidente Napolitano in quell’occasione ha voluto sottolineare proprio la capacità della lingua italiana d’essere fattore fondante della nostra identità nazionale. Cinquant’anni fa eravamo in una situazione molto diversa. Niente contro i dialetti, ma non possono servire per tutte le esigenze comunicative di una società complessa. Ecco, tornando alla domanda, il nostro lavoro consiste nello sciogliere le incertezze negli usi linguistici. Il nostro obiettivo finale, anche civile, è fornire gli strumenti perché si parli e si scriva l’italiano in modo diverso a seconda delle circostanze, educare a un uso consapevole e ‘variato’ della lingua».

A questa consapevolezza pensavo preparando questa intervista. Mi dice chi ha questo compito “educativo”? La scuola, l’Università?
«La scuola, l’Università e chiunque abbia mansioni di responsabilità linguistica, per esempio i giornalisti (touché, ndr). Tutti, parlanti e scriventi, devono poter aspirare a un uso della lingua che vari a seconda delle circostanze in cui si comunica, si parla o si scrive. La regola è apparentemente semplice: nessuna concessione al lassismo e nessun vagheggiamento del purismo. Un esempio. La preposizione “a” è diversa dalla terza persona verbale “ha”, su questo non si può derogare, non si possono tollerare errori nello scritto. Ma se in un sms scriviamo “x” in luogo di “per” può andar bene, è importante che non lo si ripeta in un tema, in una tesi, in una relazione per un seminario».

L’italiano è una lingua viva.
«Straordinariamente, come è straordinaria la nostra tradizione. Letteratura, musica, cucina e gastronomia, moda, cultura in generale: l’Italia è molto amata e ricercata all’estero. Cinquantotto milioni di persone parlano italiano nel nostro Paese e molti altri milioni nel resto del mondo. In più l’Italia è percepita come una terra gradevole, con un importante patrimonio artistico e un popolo accogliente».

La Crusca si occupa di “conoscenza storica della lingua” e “conoscenza critica dell’attuale evoluzione della lingua”. Partiamo da questo, perché lo scenario che ha appena descritto mi fa venire in mente una parola forse abusata: contaminazione. Da molti anni uno dei suoi ‘tormentoni’ è l’uso dei forestierismi o sbaglio?
(sorride, ndr) «Non esistono lingue pure, ma è inutile ricorrere a un forestierismo se c’è una valida parola italiana che possiamo usare. Quando una parola straniera è inutile, è inutile: perché dire drink invece di bevanda? O meeting invece di incontro? E così via. Noi invece abusiamo dei forestierismi. Guardiamo come si comportano grandi Paesi europei a noi vicini (Francia, Spagna, Germania) e cerchiamo d’essere meno arrendevoli verso le mode forestiere, quindi meno provinciali: certe volte, usando forestierismi inutili, facciamo solo ridere. Non si tratta di chiudersi, ma di mantenere salda la propria identità».

La lingua si è evoluta anche in un altro senso: ci sono parole che si utilizzano oggi più di qualche anno fa, e magari in modo errato. Mi viene in mente “assolutamente”. Che ne pensa?
«Confermo. Occorre prestare molta attenzione all’uso delle parole, evitare di ricorrere a stereotipi. Ci si appoggia a certe parole come fossero stampelle buone per ogni percorso. Crediamo in questo modo di arricchire la lingua ma in realtà ne facciamo un uso povero, ripetitivo: quante volte in questi giorni sentiamo dire (e leggiamo) che “l’Italia (o Roma, o il Molise, eccetera) è nella morsa del gelo”? Non sappiamo usare un’espressione meno trita? E poi ci sono gli eufemismi, forme di rispetto linguistico che hanno una matrice ideologica. In genere sono parole che si riferiscono a vita, morte, sesso, difetti fisici, i nostri tabù: “è andato nel mondo dei più”, “mi vedo con quella ragazza”, “è un non vedente”, eccetera. Ma a volte esageriamo con la prudenza. Un esempio per tutti: arriveremo a dire “non chiomato” per non dire “calvo”, “non masticante” per non dire “sdentato”, per non correre il rischio di offendere chi non ha i capelli o non ha i denti?».

Sarebbe ridicolo, credo. Qual è il suo giudizio sull’italiano dei giovani universitari?
«Una volta i modelli erano pochi e fissi. Alle Elementari avevamo Pinocchio e il Libro Cuore, l’italiano si imparava quasi esclusivamente sui testi scolastici. Oggi è enorme, pervasiva, l’influenza della tv, delle chat, di internet. Che dovremmo fare allora? Rinunciare alla nostra azione? No, non dobbiamo rinunciare alla nostra missione. Non ho timori a definirla così: è la nostra missione operativa educare a un uso consapevole e variato della lingua. Certo, non è semplice, ma perché lo studio dovrebbe esserlo? Usare le nostre risorse cerebrali richiede fatica, allenamento, ma ne vale la pena. Bisogna lavorarci».

Nei mesi scorsi la Società Dante Alighieri ha promosso la campagna “Adotta una parola”, che ha avuto molto successo. Quale parola adotterebbe?
«Voglio indicarne due, fatica e prospettiva. La prima per quello che ci siamo detti poco fa, la seconda perché vedo per i ragazzi un futuro molto incerto. Una volta sapevamo che con l’impegno saremmo stati premiati. Oggi non è più così. Il mio in un certo senso è stato un percorso fortunato, perciò mi piacerebbe che la parola prospettiva tornasse a riguardare davvero la vita di tutti».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

le domande sono più importanti delle risposte

Il volume in cui Giovanni Minoli ha raccolto le sue interviste più interessanti e significative, quelle di “Mixer”, quelle che l’hanno reso tanto stimato quanto temuto, dice praticamente tutto nel titolo: “La storia sono loro. Faccia a faccia con trent’anni d’attualità” (col collega Piero Corsini, Rizzoli edizioni). Perché la storia di cui si parla, forse ancora troppo recente per poter essere chiamata storia, è una storia di cui Minoli è stato testimone e del cui racconto si sente l’urgenza. Non per niente, tra gli spezzoni video più lunghi proiettati nel corso di un recente incontro in Rettorato organizzato per parlare di questo libro, c’erano le interviste con Silvio Berlusconi. È così noto il talento di Minoli per le domande, che quest’incontro all’Università del Salento – promosso dalla locale sezione dell’Ande (Associazione nazionale donne elettrici) assieme alla Provincia di Lecce – è stata per tanti un’imperdibile occasione per “costringere” l’attuale direttore di Rai Educational dall’altra parte della barricata. A incalzarlo Maddalena Tulanti, vice direttora di Corriere del Mezzogiorno e ufficiale… sparring partner, e poi decine di giornalisti e una foltissima platea di ex spettatori della fortunata trasmissione che in 18 anni, davanti al teleschermo, ne ha trattenuti a milioni.

Minoli, è già storia quella che racconta?
Sì, il libro è un vero e proprio racconto attraverso le interviste ai grandi personaggi che hanno fatto la storia d’Italia di questi vent’anni. È un lavoro dedicato agli italiani, a chi ha voglia di ripercorrere la storia attraverso i suoi protagonisti, perché i protagonisti – analizzati e letti con attenzione – rivelano veramente i tratti salienti dello sviluppo di questo Paese. La storia è fondamentale, perché un popolo che non ha consapevolezza delle sue radici non ha futuro, soprattutto nella società globalizzata.

Nell’introduzione de “La storia sono loro”, Minoli precisa meglio il senso della “selezione” delle interviste: «Provare a costruire una storia del nostro Paese», scrive, «attraverso le interviste con i protagonisti di due decenni – gli anni Ottanta e gli anni Novanta – che hanno cambiato l’Italia: dapprima con l’uscita dagli anni Settanta, dall’emergenza del terrorismo e dalla crisi economica, poi con la stagione di Tangentopoli e della fine della Prima repubblica, e infine con l’avvento del sistema elettorale maggioritario e la discesa in campo
di Silvio Berlusconi. Rimettendo tutto in fila, e riconsiderandolo con gli occhi di oggi, la cosa che mi colpisce di più è lo sforzo che i politici della Prima repubblica hanno fatto per adeguarsi alle necessità linguistiche del nuovo modello di comunicazione imposto dalla televisione. Per imparare, cioè, a coniugare brevità e contenuti».

Sulla successiva deriva dei dibattiti politici in televisione, Minoli si è spesso soffermato:«La politica ha perso», ha detto, «e ha vinto la televisione.Lo dimostrano Fini e Bersani che sono andati da Fazio e Saviano a leggere i loro elenchi». Durissime le critiche ai talk show: «Rappresentano lo strumento di distruzione della politica, portano soltanto al confronto tra slogan e non tra contenuti e ragionamenti. Prevale la logica della rissa, persino nelle persone più tranquille ed equilibrate. E poi annoiano gli spettatori, il conduttore prevale». Nella scheda curata dai suoi collaboratori per aprire l’incontro, di Minoli si è ricordato ironicamente l’essere definito, dagli amici, uno “bello, biondo, con gli occhi azzurri, che fa la televisione” e, dai nemici, uno “bello, biondo, con gli occhi azzurri, che si crede la televisione”. «Nei “faccia a faccia”, però, prevaleva lo sviluppo della riflessione».

Che mestiere è quello del giornalista?
Un mestiere che è un enorme piacere e una grande fortuna. Non voglio parlare di missione, ma di responsabilità sì, soprattutto nel servizio pubblico. Io ho scelto di fare televisione nel servizio pubblico, che è dalla parte del cittadino, che deve servire a evitare l’appiattimento sul pensiero unico. Bisogna avere grande passione, io penso ogni volta che devo ricominciare da zero. Ho fatto quello che volevo, senza spezzarmi. Quandoho perso, ho perso, e sono andato via. Ho ricominciato ogni volta. Ci sono stati momenti di difficoltà, ma chi ha capacità di guardare oltre il proprio naso deve abituarsi a stare solo. È qualcosa che ti rende sempre più forte. Quando poi i fatti ti danno ragione, ti sorprendi ogni volta a nutrire lo stupore di un bambino.

Definito “arrogante con gli arroganti e debole con i deboli”, dei “faccia a faccia” di Minoli si citano aneddoti significativi: “Enrico Berlinguer arrivò ad affermare di aver detto più cose in mezz’ora d’intervista di quante ne avesse mai dette in anni e anni di Tribuna politica; l’ex segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Caspar Weinberger, giurò che non avrebbe mai più fatto una chiacchierata con lui e il premier israeliano Shamir abbandonò lo studio in preda alla rabbia”. «Soltanto con Berlusconi ho perso, lo devo ammettere», ha detto Minoli, «perché sono stato aggressivo. Lui aveva completa padronanza del mezzo».

Non ha mai voluto fare il nome di qualcuno che l’ha particolarmente colpita. Ci dica almeno chi ha retto meglio i suoi fuochi di fila.
Ogni intervistato è interessante, se lo si studia bene. Nel mio percorso professionale ho fatto interviste ai top del mondo, e se sono al top c’è sempre un motivo. La selezione esiste, non è uno scherzo. Se uno ce la fa, in genere è perché ha ‘qualcosa’. Le interviste sono difficili perché bisogna studiare, studiare bene bene. Sono molto importanti le domande, sono quasi più importanti le domande delle risposte. Da questo punto di vista, se ogni intervistato ha un mondo da raccontare, bisogna saperglielo far raccontare.

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”, maggio 2011

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