Categoria: interviste

professione papirologo

Il professor Mario Capasso, ordinario di Papirologia all’Università del Salento, ha fondato e dirige il Centro di studi papirologici e il Museo papirologico dell’Ateneo. Delegato ai Musei dal 2008 e Presidente nazionale dell’Associazione di Cultura classica, è direttore – con Paola Davoli – della missione archeologica UniSalento a Dime (Fayyum, Egitto).

Professor Capasso, il suo è un mestiere che coincide così chiaramente con una grande passione che viene naturale partire dalla più ovvia delle domande. Com’è cominciata?
«Ho cominciato seriamente a pensare di dedicarmi al mestiere di papirologo frequentando i corsi di Papirologia all’Università di Napoli, negli anni Settanta del secolo scorso: mi affascinava il contatto diretto con il testo antico, la sfida, se posso usare questo termine abusato, che la sua decifrazione in qualche modo lancia a colui che ha il compito di decifrarlo. Decifrare per la prima volta un testo è stabilire un contatto diretto con colui che lo ha scritto o fatto scrivere, una persona vissuta molti secoli fa».

In vent’anni di scavi, abbiamo visto scoprire al suo gruppo di lavoro numerosi reperti importanti in modo costante. Quali sono i segreti di una così prolifica attività di ricerca?
«Non ci sono segreti in questo mestiere: occorrono passione, entusiasmo, abnegazione, fiducia. Quando sono impegnato in Egitto per l’annuale Campagna di Scavo, mi sveglio al mattino pensando che quel giorno sarà un gran giorno, un giorno di una grande scoperta. Poi magari la grande scoperta non si verifica, ma quale altro lavoro può definirsi altrettanto esaltante?».

Come descriverebbe l’emozione della più recente scoperta? Si prova sempre lo stesso sentimento?
«L’emozione che si prova nello scoprire un oggetto importante, che sia un papiro o una statua, è qualcosa di elettrizzante, una sorta di euforia, che ripaga dei tanti sacrifici che questo nostro mestiere ci impone. La scoperta dei due leoni è stato un momento esaltante, per noi dello staff, ma anche per gli operai, umili contadini che per poche lire egiziane al giorno svolgono un lavoro certamente faticoso, ma che sono orgogliosamente consapevoli del loro ruolo».

Parliamo della recente conferma alla presidenza nazionale dell’Associazione di Cultura Classica. Di cosa si occupa, in dettaglio, l’associazione?
«L’AICC, nata nel 1897, si prefigge di tutelare e divulgare le nostre gloriose tradizioni classiche. Organizza congressi, gare di greco e di latino, seminari, conferenze, viaggi di studio. Soprattutto vigila affinché le nostre discipline classiche siano adeguatamente rappresentate nell’ordinamento scolastico e in quello universitario».

Cosa della classicità crede che manchi di più?
«Delle tante definizioni che si possono dare della classicità mi piace quella che vuole che la classicità è il rispetto per l’uomo, la fiducia nella centralità dell’individuo, del suo pensiero, dei suoi sentimenti, della sua libertà. Al giorno d’oggi si tende a perdere di vista tutto questo, che rappresenta il grande insegnamento lasciatoci dagli antichi».

In un panorama di sempre più scarsi finanziamenti per la ricerca scientifica, quanto soffre la ricerca “umanistica” rispetto a quella – per esempio – con applicazioni per l’industria?
«La ricerca umanistica soffre moltissimo rispetto a quella scientifica, che, va detto, pure non gode di ottima salute, ma certo dispone di più risorse. Si tratta di una situazione non solo italiana ma certo in Italia, che è la culla della cultura umanistica e che riserva una percentuale irrisoria, appena lo 0,19% del PIL per la tutela del suo patrimonio culturale, noi umanisti viviamo una situazione che non esito a definire drammatica».

Lei lavora con giovani ricercatori e ricercatrici e tanti appassionati. Qual è l’augurio che si sentirebbe di rivolgere?
«Che con la fine di questa devastante crisi internazionale i fondi messi a disposizione delle Università possano tornare almeno a livelli decorosi, in modo che questi giovani possano concretamente sperare di dedicarsi serenamente alle loro ricerche: abbiamo già perso più di una generazione di giovani eccellenti; considero questo una sorta di peccato mortale verso di essi ma anche verso il futuro dell’Italia».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

nell’immagine i professori Capasso e Davoli con lo staff di ricerca in Egitto

chi e cosa c’è dietro la sigla UVL

Ubaldo Villani-Lubelli è il mio spacciatore ufficiale di musica elettronica e l’autore delle surreali cronache delle mie messinscena d’affanni. Per il suo 34mo compleanno voglio svelare come tutto è cominciato, pagandogli tra l’altro un conto da lungo tempo in sospeso. In un giorno che non ricordo più del luglio 2010, nel giardino di casa sua, ci facevamo delle grandi risate parlando delle mie storie d’amore inventato. Ubaldo le aveva lette in anteprima e nel commentarle se n’era uscito così: rapsodiche, eleganti, post-moderne. È stato a quel punto che gli ho chiesto: «Posso scriverlo in quarta di copertina?». Per uno come Ubi (questo è il suo nomignolo, una volta per il compleanno – complice Alessandra – ho cercato una decina di motti latini con questa particella e ne abbiamo riso per giorni), la domanda era retorica. Ha risposto in una frazione di secondo: «Certo!». E io: «Firmiamolo “UVL”, come fosse chissà quale rivista». Altre risate e un altro caffè.

Insomma, UVL sta per Ubaldo Villani-Lubelli. Uno che ha una laurea e un dottorato in filosofia, uno che fa il ricercatore a Lecce e il giornalista freelance per testate nazionali raccontando e commendando la politica del “paese più odiato del momento” (cit. UVL). Uno che ha quattro tatuaggi marchio del suo primo, ormai mitico, “periodo tedesco” e i capelli che crescono praticamente solo in verticale. Uno che prova particolare gusto nel passare dalla seriosità più compita alla provocazione più scorretta. In fissa col muay-thai da un paio d’anni scarsi (almeno ch’io ricordi), ti sorprendi di tanta passione per quella cosa che chiamano “pallone” considerato il resto di cui scrive. Suo Potsdamer-Platz, un blog che raccoglie pezzi suoi e proposte di lettura su politica, attualità e cultura in Germania; suo Zampanò, sulla testata online 20centesimi, altro blog in cui periodicamente ci ricorda che non c’è nulla di nuovo sotto il sole e che basta rileggere certi classici per comprendere quello che accade. Tutto molto semplice. Tutto qui. Tutto qui? «In effetti sono il festival delle contraddizioni», sorride lui. “Esattamente come le persone vive”, come ha scritto di me una volta Gianluca Bassi.

Ubi, adesso di te dici “lavoro come ricercatore in Storia delle Istituzioni politiche e parlamentari alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Salento”, ma io ricordo la mia reazione la prima volta che ho letto “filosofo”. Ti definivi così fino a non molto tempo fa. Era inquietante.

(ride) «Lo spunto me l’hanno dato in Germania. Lì amici, collaboratori e colleghi dicevano “sei un filosofo” volendo fare una sintesi dei miei interessi. Ero perplesso io per primo, e in fondo era una definizione parziale come lo sono tutte le definizioni. In ogni caso, “filosofo” rivela un’attitudine. Sono stato in Germania già nel corso degli studi universitari, poi per il dottorato al Thomas-Institut. Ho lavorato principalmente all’edizione di testi medievali, fatto ricerca sulla filosofia tardo-medievale tedesca. In seguito, come ricercatore a contratto a Colonia, ho insegnato filosofia medievale e approfondito interessi filosofici e storici».

Puoi fare i nomi dei filosofi su cui hai lavorato? Te lo chiedo perché conosco già la risposta: non li conosce nessuno.

(ride) «Soprattutto Enrico di Lubecca, ma anche Meister Eckahrt, Raimondo Lullo, Domenico Gundissalino e l’italiano Restoro d’Arezzo. Lo sai che è, anche se sconosciuto, importante quasi quanto Dante? Domenico Gundissalino, poi, mi piace moltissimo: sconosciuto in Italia, ha un nome stupendo. Non trovi? Tutti autori le cui opere (escluso Eckahrt e Lullo) non sono tradotte in italiano. Li ho letti in latino o in traduzione tedesca».

Torniamo a te. Com’è avvenuto il “passaggio” al giornalismo?

«Non lo so, anche perché un vero e proprio passaggio non c’è mai stato. Ho sempre fatto molti (e diversi) lavori nella vita, come impone oggi il mercato. So che ho sempre avuto un interesse molto forte per la politica. Mi è sempre piaciuto analizzarla, capirla e spiegarla. Mi sono sempre interessato, in particolare, di politica estera. Per questo è stato naturale, trascorrendo tanto tempo in Germania, approfondire quella tedesca. E allora dopo aver scritto, saltuariamente, di politica pugliese su giornali locali, ho pensato di professionalizzare questo interesse cercando contatti con testate nazionali che fossero interessate ad articoli di attualità e politica dalla e sulla Germania. Così sono arrivate le collaborazioni con L’Occidentale, Liberal, Longitude, ma anche la Fondazione italiani europei e tanti blog tra cui tengo a ricordare Berlino Cacio e Pepe di Andrea D’Addio».

Quando scrivi della Germania fai continui paragoni con l’Italia. E poi trovo divertente il modo in cui caratterizzi i personaggi. Ho letto descrizioni di tatuaggi e di caratteristiche caratteriali in articoli in cui non me l’aspettavo. Che cos’è? Un metodo di analisi?

(ride) «Qui torniamo alla filosofia, che secondo me dovrebbe essere la base di qualsiasi formazione, è la “disciplina” per eccellenza. Scrivo partendo da questa base, mi chiedo come posso suscitare interesse scrivendo di cose che a un pubblico generalista non interessano affatto. Cerco dettagli che possano essere espressione di una cultura, aspetti divertenti o emblematici. Cerco di trovare elementi legati alla letteratura o alla società. Per me la scrittura giornalistica non è fredda cronaca, è racconto».

Insomma hai quattro anime: filosofo e giornalista, italiano e tedesco. Non ti senti un po’ dissociato?

(ride) «Se è per questo sono anche traduttore dal tedesco e possiamo aggiungere che, da circa un anno, faccio tutto questo da Lecce, l’estremo lembo meridionale d’Italia, dove trascorro gran parte dell’anno – anche se passo diversi periodi in Germania tra Colonia, Amburgo, Monaco e Berlino. A settembre sarò, per esempio, ad Amburgo. Tornando alla tua domanda, in effetti vivo una sorta di shock psicologico costante». (ride) «Beh, come ho detto sono uno che viaggia parecchio e questo mi aiuta. Italiani e tedeschi sono popoli oggettivamente molto diversi. Per esempio in Germania si continua ad avere un’idea un po’ romantica dell’Italia, ma la realtà ora è ben altra rispetto a quella di Goethe. Si scontrano con l’inaffidabilità italiana e ci vanno pesanti, ma anche una parte consistente degli italiani usa toni inutilmente eccessivi e provocatori nei confronti dei tedeschi. Non è un bel periodo per chi, come me, si sente principalmente cittadino europeo».

Il tuo cursus è interessante e, se permetti, di una rapidità non così frequente in Italia. Ho un percorso simile quanto a velocità e mi capita di dover dire “non sono giovane!” quando chiedo di più. A te è mai successo? Scommetto di sì.

«Lavoro da 13 o 14 anni e in effetti in Italia mi è difficile spiegarlo. Si sa: qui fino a 35-40 anni sei considerato “giovane”. Questa pessima retorica giovanilistica non mi piace. Sono adulto, mi ritendo tale e voglio essere considerato tale. Mi è capitato d’avere scontri per questo. In Germania, invece, non mi è mai successo, conta soltanto quello che produci».

Immagino di poterti chiedere comunque cosa vuoi fare da grande.

«Voglio scrivere, scrivere è il mio leitmotiv, la cosa che più mi piace, che sento maggiormente. Spero di poterlo fare con maggiore intensità. Vorrei essere una finestra costantemente aperta sulla Germania, raccontarla e spiegarla – a prescindere dove mi porterà la mia vita, in Italia o altrove».

Post scriptum. Ho scattato personalmente le foto a corredo di questa intervista. Guardate attentamente la prima: non è carino il cane di peluche nella vetrina alle spalle di Ubi? 😉

Loretta ricercatrice e innovatrice

Dall’Italia alla Germania e ritorno, tre diversi “focus” di ricerca dalla laurea al contratto come ricercatrice al CNR-Nano di Lecce, 22 pubblicazioni su riviste scientifiche peer-review, un brevetto internazionale. Se vi pare già abbastanza per una trentatreenne, ecco la “notizia”: Loretta del Mercato è tra i vincitori del premio ‘Tr35 giovani innovatori’ promosso da ‘Technology Review’. Stiamo parlando della rivista per l’innovazione del Mit – Massachusetts Institute of Technology, che punta a raccogliere il meglio delle idee innovative e dei progetti di ricerca applicata e che in Italia gestisce il premio in collaborazione con il Forum Ricerca Innovazione. «Ho anche un bambino di nove mesi», aggiunge Loretta sorridendo.

Loretta, non riesco a non cominciare dalla più classica delle domande. Con la scienza è stato subito amore?
(sorride, ndr) «Ho capito che volevo occuparmi di scienza e di ricerca quando frequentavo il Liceo classico, ma da piccola amavo trasmissioni come Viaggio nel corpo umano. Eh, sai, Piero Angela… (ride, ndr). Comunque al momento della scelta universitaria ero in dubbio: medicina o qualcosa di più sperimentale? Alla fine ho iniziato a studiare Biotecnologie agrarie a Napoli, e mi sono laureata con una tesi sperimentale producendo piante transgeniche. Dopo la laurea mi sono però resa conto che in Italia – come in Europa – le biotecnologie vegetali erano condannate: per il cosiddetto “principio di precauzione”, occorreva dimostrare che il prodotto transgenico non fosse nocivo con ben dieci anni consecutivi di ricerche. Insomma, non ci vedevo un grande futuro».

E qui il primo cambiamento.
«Sì, ho pensato di usare il dottorato per “spostare” il campo di ricerca. È importante, anche perché si acquista flessibilità. All’inizio si può fare, soprattutto dopo la laurea si è piuttosto versatili. Ora, poiché il mio allora fidanzato e adesso marito è di Lecce, guardando i vari bandi di dottorato in Italia mi soffermavo anche su quelli dell’Università del Salento. C’era un concorso all’Isufi, presso il Laboratorio nazionale di nanotecnologie, un dottorato in Materiali e tecnologie innovative, perciò sono venuta a visitare l’Istituto. Ne sono rimasta molto colpita: una realtà internazionale, seminari in inglese, ricercatori con background diversi che lavoravano assieme… qualcosa di simile alla Silicon Valley, mi sembrava l’America. Insomma ho scelto Lecce preferendola a dottorati altrettanto validi, come quello alla Sissa di Trieste. Nel corso del dottorato, per farla breve, sono passata alla bioelettronica. Si trattava di creare dispositivi elettronici utilizzando materia biologica come proteine e fibrille. Lavoravo con alcuni fisici. Il mio tutor era la professoressa Rosaria Rinaldi, e poi c’era il professore Roberto Cingolani come responsabile del dottorato».

Dopo il dottorato, però, hai cambiato ancora. Perché?
«Il post-doc è una fase in cui hai ancora qualche possibilità di cambiare, cosa che è utile soprattutto per arricchire il tuo bagaglio scientifico. Perciò mi sono “spostata” di nuovo, verso la scienza dei materiali applicata (anche) alla medicina. Sono stata a Marburgo, in Germania, a lavorare con il professor Wolfgang J. Parak: full professor a 40 anni, aveva fatto il post-doc a Berkeley nel campo delle nanoparticelle per applicazioni biomediche. Ci ho lavorato per due anni e tre mesi, con l’incarico di formare – all’interno del gruppo più grande – un mini-gruppo di ricerca, composto da un dottorando di fisica, due studenti di fisica e una tesista di chimica. Si trattava di sintetizzare le capsule di cui mi occupo tuttora. Il professore voleva cominciare a utilizzare questi sistemi, già a regime in diversi laboratori nel mondo, nel suo. Ho letto tanti articoli e fatto tante prove».

Per due volte hai cambiato settore di ricerca, e senza preparazione iniziale specifica. Qual è stata la tua “arma” vincente?
«Io credo che i miei mentori abbiano valutato soprattutto l’impegno, la volontà di fare bene, la voglia d’essere innovativa. L’andamento dei finanziamenti per la ricerca è chiaro: ora è il momento dell’elettronica, ora quello della nanomedicina, ora quello delle energie rinnovabili. Il mio interesse generale è per la ricerca applicata, e da tre anni a questa parte mi appassiono sempre di più allo sviluppo di materiali intelligenti per curare malattie del corpo umano».

È con un’applicazione del genere che hai vinto il premio.
«Sì, sensori ottici fluorescenti costituiti da capsule di dimensioni inferiori a quelle del diametro di un capello. All’interno delle capsule abbiamo inserito delle molecole fluorescenti sensibili alle concentrazioni di ioni potassio, sodio e di protoni. Queste molecole, che sono vendute dalle aziende e utilizzate per tanti altri studi, emettono luce a intensità diversa a seconda dell’elemento che leggono in una soluzione. All’esterno delle capsule abbiamo applicato delle “etichette” con miscele diverse di nanoparticelle fluorescenti, più piccole di un virus, che fungono da codici a barre, come quelli utilizzati per catalogare i prodotti in vendita nei negozi. Queste “etichette” luminose consentono l’identificazione univoca del tipo di sensore in esame, mentre l’interno della capsula identifica le molecole nella soluzione misurandone la concentrazione. La novità di questa ricerca consiste nell’avere aggiunto al materiale una funzione nuova, una proprietà che prima non aveva, utilizzando una tecnologia a basso costo».

Ci spieghi come viene utilizzata?
«Posso fare l’esempio di un’industria farmaceutica che vuole testare l’efficacia di una serie di composti terapeutici per il trattamento di determinate malattie. Una possibile soluzione per farlo è incubare le cellule con i nostri sensori. Si trattano le cellule con i diversi composti che vuole testare l’industria, e si studia la risposta delle cellule ai trattamenti. Esposta a un farmaco, infatti, nella cellula si innescano processi biochimici evidenziati da cambiamenti di concentrazione di determinate molecole. La cellula trattata, per esempio, produce più protoni. È un bene? È un male? È quello che volevamo in risposta a questo trattamento? Noi forniamo degli strumenti al ricercatore o all’industria per verificare qual è l’effetto dei trattamenti sulle cellule».

Quali sono le ulteriori prospettive di ricerca?
«Dovremo creare un dispositivo ancora più sofisticato, al quale aggiungere un’altra funzione. Finora ne abbiamo inserite due: la capacità di monitorare elementi diversi e l’etichetta luminosa esterna. La terza funzione sarebbe quella di avere all’interno di queste capsule anche il farmaco, perché possa essere rilasciato – volendo – dall’esterno. Un operatore al microscopio potrebbe monitorare la situazione della cellula che vuole trattare misurando la risposta della capsula, e irradiare la cellula in un determinato momento. La capsula, a quel punto, si romperebbe rilasciando il farmaco trasportato».

Quanto tempo potrebbe volerci?
«Dipende da quanti soldi avremo a disposizione. Al momento sto valutando l’interesse di alcuni venture capital che ci hanno chiesto qual è la fattibilità del progetto, a che stadio siamo, se siamo più interessati a un city incubator oppure se siamo pronti a fare una start up. Vedremo».

Come è organizzato il tuo lavoro attualmente?
«Ho dei tesisti che vanno e vengono, e questo è un grande ostacolo. Bisogna formarli, ma senza budget per mantenerli bisogna ricominciare daccapo con i successivi. Sono pause che pesano moltissimo: non si può avere un gruppo costante di ricerca e si “sciupa” il fattore umano. Così è successo quando dalla Germania ho portato know how in Italia. La precarietà organizzativa si ripercuote sulla ricerca e sulla crescita scientifica dei ragazzi che le si accostano. Io stessa ho avuto piccoli contratti che si rinnovano a brevi intervalli. Non sai mai quali piani di ricerca impostare a medio termine, la precarietà è un ostacolo molto forte per le persone e anche per l’immagine della ricerca italiana all’estero, dove questo è inimmaginabile».

Che cosa fa realmente la “differenza” quando si fa ricerca? Tra donne e uomini? Tra l’Italia e la Germania?
«Certi risultati non si ottengono lavorando otto ore al giorno, bisogna farne 12 e più, che tu sia donna oppure uomo. I tempi di certi sperimenti lo esigono, bisogna lavorare duramente e di continuo. Ho sempre dedicato tanto tempo alle mie ricerche, anche durante gli anni di tesi a Napoli e di dottorato a Lecce, molti weekend li passavo in laboratorio. In Germania però è migliore l’organizzazione sociale, questo sì, in Italia non ci sono abbastanza servizi per le famiglie, e quelli privati sono molto costosi rispetto agli stipendi. In Germania, a parità di incarico, lo stipendio è più alto se hai famiglia, e questo è un aiuto perché ti puoi per esempio permettere una baby sitter. In questo modo puoi lavorare con maggiore serenità, senza dover sacrificare figli e marito ai tempi della ricerca, come purtroppo sono costretta a fare io. E poi lì conta molto quello che produci, le piste di ricerca, gli obiettivi che presenti, diciamo che l’organizzazione invece di essere il maggior ostacolo ti sostiene e ti spinge».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

il maestro del lupo cattivo

Per ventidue anni Ico Gasparri ha fotografato fotografie. L’ha fatto principalmente a Milano, cumulando quattromila scatti di corpi femminili stampati e incollati su gigantografie pubblicitarie. Non si tratta nemmeno di corpi, ma di pezzi di corpi: seni, natiche, gambe, labbra. La storia di questo lavoro, raccolta nel volume “Chi è il maestro del lupo cattivo?” e nel sito www.ilmaestrodellupocattivo.it, è la storia – dice Gasparri – di “una lunga azione di militanza sociale”. Gli abbiamo chiesto di più in occasione di un seminario organizzato in Rettorato, nei giorni scorsi, introdotto dalla Delegata alle Pari opportunità Marisa Forcina e moderato dalla professoressa Valentina Cremonesini.

Un lavoro lungo e faticoso, con la costruzione di un archivio enorme. Perché tanti scatti?
«Facevo il ricercatore in Archeologia, prima che questo lavoro m’abbandonasse, prima che mi fosse impedito di esercitarlo. Sapevo perciò che per uno studio ben fatto serviva un’ampia base di dati, dati inappellabili. “Chi è il maestro del lupo cattivo?” non è un lavoro sulla pubblicità stradale, ma contro la pubblicità stradale: per questo tanti scatti, per dimostrare quanto fosse sessista e pervasiva. Un lavoro di militanza, perché non sono un fotogiornalista ma un artista. E la fotografia sociale è un’attività di militanza».

Essere un artista. Cosa significa per te?
«Per me è un mestiere, un artigianato, non un lusso. Le opere di questo lavoro sono quindi opere d’arte innanzitutto. È il tema ad avere risvolti sociali. Le immagini sono crude, cruente, dolorose, e raccontano quanto negli anni siano riuscite ad anestetizzare la nostra attenzione. Da una parte siamo assuefatti, dall’altra abbiamo la coscienza sporca».

Andiamo con ordine e cominciamo dal “lusso”. Questo tuo lungo e impegnativo lavoro è stato fatto in solitaria e a spese tue. Anche il libro è interamente opera tua, non ha un editore. Perché?
«La mia non è stata un’azione ‘leggera’, anzi. Si è trattato di qualcosa di molto pesante, sicuramente dal punto di vista del dispendio di energie emotive, ma anche quelle economiche sono state rilevanti. Tutti gli scatti sono stati realizzati su pellicola professionale, per esempio. Per quanto riguarda il libro, finché li ho contati 18 editori mi hanno detto no. A un certo punto mi sono stancato, ero convinto che il lavoro andasse diffuso e valorizzato e allora ho deciso di fare tutto da solo. Ero capace di farlo: ho lavorato per 15 anni in case editrici, perciò ho potuto utilizzare le mie competenze per impaginare, revisione, realizzare la copertina ed editare il libro. Questo percorso dice della solitudine e della sofferenza di un artista che ha un’intuizione. A posteriori prendersi i meriti è facile, ma ho lavorato sostanzialmente in solitudine. Mi riferisco al fatto che in Italia negli anni Novanta il sessismo non era un argomento di dibattito, eravamo all’inizio di quello che per brevità e chiarezza possiamo definire berlusconismo. Oggi, invece, tutti ne parlano».

Hai parlato di “assuefazione” e “coscienza”. Vuoi raccontarci di più?
«Siamo talmente immersi in questo meccanismo che quasi non ci fa effetto. Parlo di “cattiva coscienza” riferendomi ai discorsi che per anni ho dovuto ascoltare. Avevo pensato di intervistare pubblicitari e chiedere conto di certe scelte. Hanno cominciato a dirmi che certe immagini, così forti, così esplicite, in realtà semplicemente ritraevano una donna emancipata, allegra, moderna, integrata nella vita della metropoli. Ho smesso di intervistarli, per non farmi prendere in giro».

Immagini e violenza sulle donne: la pubblicità stradale è il maestro del lupo cattivo?
«Uno dei maestri».

E il senso del tuo lavoro? Qual è l’obiettivo? Cambiare il mondo? È possibile?
«Certo, l’obiettivo è cambiare il mondo. Ognuno può farlo, alla propria scala. Ognuno parte da sé. Cambiare il mondo si può. Sì».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

la lingua della consapevolezza

Pensare di intervistare un “Accademico della Crusca” può dare qualche grattacapo: mentre ragioni sulle possibili domande da porgli ti chiedi se, pur nel convincimento d’aver maturato una certa consapevolezza nell’uso dell’italiano, finirai comunque per dire qualcosa che lo farà rabbrividire e che solo per cortesia non ti rimprovererà. Rosario Coluccia, Preside della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università del Salento, è stato nominato “Accademico della Crusca” il 12 dicembre scorso. Lo ha deciso il Collegio dell’Accademia con un metodo semplice, secco, diretto: la cooptazione. Ebbene la buona notizia è che, nel corso della nostra intervista su questo bel risultato peraltro dotato di un paio di ‘record’ (non si vedeva un pugliese nell’Accademia dai tempi del cerignolese Nicola Zingarelli, nel ’23, e a oggi Coluccia è l’unico Accademico che insegni in un’Università meridionale), il professore non m’ha rimproverato di nulla. Mi sono però fatta l’idea che sia stato semplicemente perché ho deciso che tutti i miei grattacapi potevano utilmente diventare altrettante domande.

Preside, nella Crusca era già “socio corrispondente”. Come dev’essere interpretata questa nomina? La successiva tappa di un percorso già scritto?
«No, non c’è alcun automatismo. Il Collegio dell’Accademia non si muove sulla base di candidature o auto-candidature o schemi di “carriera” o considerazione del percorso accademico o dell’età anagrafica, ma sceglie dopo aver valutato l’attività scientifica degli studiosi. Rispetto a quand’ero “corrispondente”, la differenza è che adesso posso partecipare anche alle decisioni che riguardano la vita dell’Accademia».

Parliamone. Abbiamo corso un grosso rischio, vero? Mi riferisco ai finanziamenti pubblici.
«Sì, la stessa sopravvivenza dell’Accademia era in pericolo. È finita bene: nell’ultima Finanziaria si è stabilito di destinare un finanziamento ordinario continuativo all’Accademia dei Lincei e all’Accademia della Crusca. Una decisione forte, molto significativa, perché dà l’idea di una precisa strategia politico-culturale, in un momento in cui tutti siamo chiamati a costruire un futuro meno incerto senza sprecare neppure un centesimo. Questi fondi ci consentono finalmente di programmare un’attività stabile e duratura, oltre a garantire le spese fisse: personale e patrimonio librario».

Che cosa significa essere “Accademico della Crusca” esattamente? Qual è la vostra attività?
«Prima di tutto si pubblicano tre importanti riviste (Studi di filologia italiana, Studi di grammatica italiana e Studi di lessicografia italiana, ndr), ma soprattutto si fornisce un servizio di consulenza linguistica. Facciamo una breve premessa storica. Per nostra fortuna, da cinquant’anni a questa parte siamo un popolo italofono, abbiamo cioè raggiunto l’unita linguistica: tutti parliamo italiano, e questo ci consente di sentirci parte di uno stesso tessuto sociale. Sono stato di recente al Quirinale, assieme ad altri linguisti, e il Presidente Napolitano in quell’occasione ha voluto sottolineare proprio la capacità della lingua italiana d’essere fattore fondante della nostra identità nazionale. Cinquant’anni fa eravamo in una situazione molto diversa. Niente contro i dialetti, ma non possono servire per tutte le esigenze comunicative di una società complessa. Ecco, tornando alla domanda, il nostro lavoro consiste nello sciogliere le incertezze negli usi linguistici. Il nostro obiettivo finale, anche civile, è fornire gli strumenti perché si parli e si scriva l’italiano in modo diverso a seconda delle circostanze, educare a un uso consapevole e ‘variato’ della lingua».

A questa consapevolezza pensavo preparando questa intervista. Mi dice chi ha questo compito “educativo”? La scuola, l’Università?
«La scuola, l’Università e chiunque abbia mansioni di responsabilità linguistica, per esempio i giornalisti (touché, ndr). Tutti, parlanti e scriventi, devono poter aspirare a un uso della lingua che vari a seconda delle circostanze in cui si comunica, si parla o si scrive. La regola è apparentemente semplice: nessuna concessione al lassismo e nessun vagheggiamento del purismo. Un esempio. La preposizione “a” è diversa dalla terza persona verbale “ha”, su questo non si può derogare, non si possono tollerare errori nello scritto. Ma se in un sms scriviamo “x” in luogo di “per” può andar bene, è importante che non lo si ripeta in un tema, in una tesi, in una relazione per un seminario».

L’italiano è una lingua viva.
«Straordinariamente, come è straordinaria la nostra tradizione. Letteratura, musica, cucina e gastronomia, moda, cultura in generale: l’Italia è molto amata e ricercata all’estero. Cinquantotto milioni di persone parlano italiano nel nostro Paese e molti altri milioni nel resto del mondo. In più l’Italia è percepita come una terra gradevole, con un importante patrimonio artistico e un popolo accogliente».

La Crusca si occupa di “conoscenza storica della lingua” e “conoscenza critica dell’attuale evoluzione della lingua”. Partiamo da questo, perché lo scenario che ha appena descritto mi fa venire in mente una parola forse abusata: contaminazione. Da molti anni uno dei suoi ‘tormentoni’ è l’uso dei forestierismi o sbaglio?
(sorride, ndr) «Non esistono lingue pure, ma è inutile ricorrere a un forestierismo se c’è una valida parola italiana che possiamo usare. Quando una parola straniera è inutile, è inutile: perché dire drink invece di bevanda? O meeting invece di incontro? E così via. Noi invece abusiamo dei forestierismi. Guardiamo come si comportano grandi Paesi europei a noi vicini (Francia, Spagna, Germania) e cerchiamo d’essere meno arrendevoli verso le mode forestiere, quindi meno provinciali: certe volte, usando forestierismi inutili, facciamo solo ridere. Non si tratta di chiudersi, ma di mantenere salda la propria identità».

La lingua si è evoluta anche in un altro senso: ci sono parole che si utilizzano oggi più di qualche anno fa, e magari in modo errato. Mi viene in mente “assolutamente”. Che ne pensa?
«Confermo. Occorre prestare molta attenzione all’uso delle parole, evitare di ricorrere a stereotipi. Ci si appoggia a certe parole come fossero stampelle buone per ogni percorso. Crediamo in questo modo di arricchire la lingua ma in realtà ne facciamo un uso povero, ripetitivo: quante volte in questi giorni sentiamo dire (e leggiamo) che “l’Italia (o Roma, o il Molise, eccetera) è nella morsa del gelo”? Non sappiamo usare un’espressione meno trita? E poi ci sono gli eufemismi, forme di rispetto linguistico che hanno una matrice ideologica. In genere sono parole che si riferiscono a vita, morte, sesso, difetti fisici, i nostri tabù: “è andato nel mondo dei più”, “mi vedo con quella ragazza”, “è un non vedente”, eccetera. Ma a volte esageriamo con la prudenza. Un esempio per tutti: arriveremo a dire “non chiomato” per non dire “calvo”, “non masticante” per non dire “sdentato”, per non correre il rischio di offendere chi non ha i capelli o non ha i denti?».

Sarebbe ridicolo, credo. Qual è il suo giudizio sull’italiano dei giovani universitari?
«Una volta i modelli erano pochi e fissi. Alle Elementari avevamo Pinocchio e il Libro Cuore, l’italiano si imparava quasi esclusivamente sui testi scolastici. Oggi è enorme, pervasiva, l’influenza della tv, delle chat, di internet. Che dovremmo fare allora? Rinunciare alla nostra azione? No, non dobbiamo rinunciare alla nostra missione. Non ho timori a definirla così: è la nostra missione operativa educare a un uso consapevole e variato della lingua. Certo, non è semplice, ma perché lo studio dovrebbe esserlo? Usare le nostre risorse cerebrali richiede fatica, allenamento, ma ne vale la pena. Bisogna lavorarci».

Nei mesi scorsi la Società Dante Alighieri ha promosso la campagna “Adotta una parola”, che ha avuto molto successo. Quale parola adotterebbe?
«Voglio indicarne due, fatica e prospettiva. La prima per quello che ci siamo detti poco fa, la seconda perché vedo per i ragazzi un futuro molto incerto. Una volta sapevamo che con l’impegno saremmo stati premiati. Oggi non è più così. Il mio in un certo senso è stato un percorso fortunato, perciò mi piacerebbe che la parola prospettiva tornasse a riguardare davvero la vita di tutti».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

Rossella e Andrea nelle mani di Margherita Morotti

Margherita Morotti è l’autrice della copertina del mio “rossella e andrea. e Rossella e Andrea”, il racconto che ha vinto Subway-Letteratura 2011 e che continua a spostarsi per l’Italia nelle metropolitane, alle fermate degli autobus, nelle biblioteche e nelle università. Lo trovate in “juke-box letterari” che lo distribuiscono gratuitamente, assieme ad altri racconti, in centinaia di migliaia di copie.

Ventiquattro anni, a 19 a Milano per frequentare l’Istituto Europeo di Design (indirizzo illustrazione/animazione multimediale), un master in corso nello stesso settore, freelance per riviste, fanzine, gruppi musicali ed enti pubblici, Margherita mi ha incuriosito e la ringrazio di aver accettato di svelarmi qualche “retroscena”.

l’illustrazione di Margherita Morotti per la copertina di “rossella e andrea. e Rossella e Andrea”

Raccontami com’è cominciata. Ti hanno chiamato, scritto? Ti hanno mandato il racconto? Premesse, raccomandazioni?
«No, anzi è stato tutto molto meccanico, via e mail. “Sei stata selezionata, questo è il racconto da illustrare”».

In quanto tempo hai letto il racconto? Qual è stato il tuo primo pensiero?
«Non mi era mai capitato di dover illustrare una copertina, quindi l’ho praticamente divorato. La prima parte è stata la mia preferita, e l’intero racconto mi è piaciuto molto!».

Disegnare i personaggi: come e perché?
«Ho ripreso la situazione di stasi centrale di entrambi i personaggi: Rossella nell’atto d’incontrare il suo amante, Andrea in un attimo d’indecisione che precede il suo incontro con la prostituta. Dato che entrambi gli incontri si svolgevano nello stesso palazzo, ma a loro insaputa e su due pianerottoli diversi, ho immaginato una scala a collegarli. Rossella, in quanto amante di un uomo sposato, l’ho immaginata indecisa e circospetta, mentre ancora sale le scale, curva su se stessa e sospettosamente rivolta all’indietro. I capelli rossi e ingombranti servivano a darle visibilità visto che – per questione di spazi – la sua figura è notevolmente ridotta. E poi volevo sottolinearne l’indole passionale. Andrea nervoso, celebrale e poco curato. Conscio della pochezza della sua situazione sentimentale, e colto a sua volta nell’attimo d’indecisione che precede il suo poco sentito incontro. Per l’abbigliamento di entrambi mi sono rifatta alle descrizioni presenti nel testo».

Margherita aveva ideato anche dei bellissimi titoli interni. Il racconto, infatti, è diviso in due parti: “rossella e andrea, cioè dell’acqua e delle rose” e “Rossella e Andrea, cioè dei gerani e delle cose”. Poetici, deliziosi, non hanno trovato spazio nella pubblicazione finale.

i titoli delle “parti” del racconto “rossella e andrea. e Rossella e Andrea”, illustrati da Margherita Morotti ma poi non inseriti nella pubblicazione

Come ti è venuta l’idea dei titoli interni? Perché? E questo stile?
«Mi sarebbe piaciuto sottolineare la suddivisione in due parti del racconto, e dato il piccolo formato dell’impaginazione ho pensato a due grafiche il più possibile semplici, che includessero gli elementi riportati nei due titoli».

Come sono fatti i disegni? Quanto tempo ci hai messo? Quante versioni/revisioni?
«Non avevo molto tempo e, di mio, sono ridicolmente lenta, quindi ho accorciato i tempi lavorando a mano libera su personaggi singoli e texture, e ho poi montato e completato tutto al computer. A metà lavoro c’è stato un problema con l’impaginazione, il che ha portato a una seconda revisione e ovviamente a un giorno di ritardo sulla consegna. In tutto cinque giorni».

Mi conosci solo attraverso il racconto. Che idea ti sei fatta?
«Ironica, acuta osservatrice, amante delle diversità e, dato il finale, indiscutibilmente romantica».

le domande sono più importanti delle risposte

Il volume in cui Giovanni Minoli ha raccolto le sue interviste più interessanti e significative, quelle di “Mixer”, quelle che l’hanno reso tanto stimato quanto temuto, dice praticamente tutto nel titolo: “La storia sono loro. Faccia a faccia con trent’anni d’attualità” (col collega Piero Corsini, Rizzoli edizioni). Perché la storia di cui si parla, forse ancora troppo recente per poter essere chiamata storia, è una storia di cui Minoli è stato testimone e del cui racconto si sente l’urgenza. Non per niente, tra gli spezzoni video più lunghi proiettati nel corso di un recente incontro in Rettorato organizzato per parlare di questo libro, c’erano le interviste con Silvio Berlusconi. È così noto il talento di Minoli per le domande, che quest’incontro all’Università del Salento – promosso dalla locale sezione dell’Ande (Associazione nazionale donne elettrici) assieme alla Provincia di Lecce – è stata per tanti un’imperdibile occasione per “costringere” l’attuale direttore di Rai Educational dall’altra parte della barricata. A incalzarlo Maddalena Tulanti, vice direttora di Corriere del Mezzogiorno e ufficiale… sparring partner, e poi decine di giornalisti e una foltissima platea di ex spettatori della fortunata trasmissione che in 18 anni, davanti al teleschermo, ne ha trattenuti a milioni.

Minoli, è già storia quella che racconta?
Sì, il libro è un vero e proprio racconto attraverso le interviste ai grandi personaggi che hanno fatto la storia d’Italia di questi vent’anni. È un lavoro dedicato agli italiani, a chi ha voglia di ripercorrere la storia attraverso i suoi protagonisti, perché i protagonisti – analizzati e letti con attenzione – rivelano veramente i tratti salienti dello sviluppo di questo Paese. La storia è fondamentale, perché un popolo che non ha consapevolezza delle sue radici non ha futuro, soprattutto nella società globalizzata.

Nell’introduzione de “La storia sono loro”, Minoli precisa meglio il senso della “selezione” delle interviste: «Provare a costruire una storia del nostro Paese», scrive, «attraverso le interviste con i protagonisti di due decenni – gli anni Ottanta e gli anni Novanta – che hanno cambiato l’Italia: dapprima con l’uscita dagli anni Settanta, dall’emergenza del terrorismo e dalla crisi economica, poi con la stagione di Tangentopoli e della fine della Prima repubblica, e infine con l’avvento del sistema elettorale maggioritario e la discesa in campo
di Silvio Berlusconi. Rimettendo tutto in fila, e riconsiderandolo con gli occhi di oggi, la cosa che mi colpisce di più è lo sforzo che i politici della Prima repubblica hanno fatto per adeguarsi alle necessità linguistiche del nuovo modello di comunicazione imposto dalla televisione. Per imparare, cioè, a coniugare brevità e contenuti».

Sulla successiva deriva dei dibattiti politici in televisione, Minoli si è spesso soffermato:«La politica ha perso», ha detto, «e ha vinto la televisione.Lo dimostrano Fini e Bersani che sono andati da Fazio e Saviano a leggere i loro elenchi». Durissime le critiche ai talk show: «Rappresentano lo strumento di distruzione della politica, portano soltanto al confronto tra slogan e non tra contenuti e ragionamenti. Prevale la logica della rissa, persino nelle persone più tranquille ed equilibrate. E poi annoiano gli spettatori, il conduttore prevale». Nella scheda curata dai suoi collaboratori per aprire l’incontro, di Minoli si è ricordato ironicamente l’essere definito, dagli amici, uno “bello, biondo, con gli occhi azzurri, che fa la televisione” e, dai nemici, uno “bello, biondo, con gli occhi azzurri, che si crede la televisione”. «Nei “faccia a faccia”, però, prevaleva lo sviluppo della riflessione».

Che mestiere è quello del giornalista?
Un mestiere che è un enorme piacere e una grande fortuna. Non voglio parlare di missione, ma di responsabilità sì, soprattutto nel servizio pubblico. Io ho scelto di fare televisione nel servizio pubblico, che è dalla parte del cittadino, che deve servire a evitare l’appiattimento sul pensiero unico. Bisogna avere grande passione, io penso ogni volta che devo ricominciare da zero. Ho fatto quello che volevo, senza spezzarmi. Quandoho perso, ho perso, e sono andato via. Ho ricominciato ogni volta. Ci sono stati momenti di difficoltà, ma chi ha capacità di guardare oltre il proprio naso deve abituarsi a stare solo. È qualcosa che ti rende sempre più forte. Quando poi i fatti ti danno ragione, ti sorprendi ogni volta a nutrire lo stupore di un bambino.

Definito “arrogante con gli arroganti e debole con i deboli”, dei “faccia a faccia” di Minoli si citano aneddoti significativi: “Enrico Berlinguer arrivò ad affermare di aver detto più cose in mezz’ora d’intervista di quante ne avesse mai dette in anni e anni di Tribuna politica; l’ex segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Caspar Weinberger, giurò che non avrebbe mai più fatto una chiacchierata con lui e il premier israeliano Shamir abbandonò lo studio in preda alla rabbia”. «Soltanto con Berlusconi ho perso, lo devo ammettere», ha detto Minoli, «perché sono stato aggressivo. Lui aveva completa padronanza del mezzo».

Non ha mai voluto fare il nome di qualcuno che l’ha particolarmente colpita. Ci dica almeno chi ha retto meglio i suoi fuochi di fila.
Ogni intervistato è interessante, se lo si studia bene. Nel mio percorso professionale ho fatto interviste ai top del mondo, e se sono al top c’è sempre un motivo. La selezione esiste, non è uno scherzo. Se uno ce la fa, in genere è perché ha ‘qualcosa’. Le interviste sono difficili perché bisogna studiare, studiare bene bene. Sono molto importanti le domande, sono quasi più importanti le domande delle risposte. Da questo punto di vista, se ogni intervistato ha un mondo da raccontare, bisogna saperglielo far raccontare.

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”, maggio 2011

Sabrina, ovvero della neve e altre ovvietà

Sabrina Barbante si è sempre giocata (assai male) la storiella d’essere banale, noiosa, prevedibile. Potreste sentirla raccontare questa storiella e riferirla – con grande probabilità – ai suoi capelli, per esempio. «Mai tagliati, sempre uguali da sempre». Potreste sentirla raccontare questa storiella a proposito del suo uomo: «Ero la più noiosa, la più prevedibile. Ma tant’è». Potreste sentirla raccontare questa storiella per un’altra infinità di motivi ma non credo vi convincerà. Perché in genere mentre racconta questa storiella fa tintinnare un nuovo paio di orecchini improbabili (tipo i miei), o agita una gonna a quadri in stile very Scottish, e poi – veniamo al punto – soprattutto Sabrina scrive. Racconti, romanzi, articoli, testi su blog vari (non solo il suo). Scrive continuamente, scrive ogni giorno.

Insomma, Sabrina, falla finita con questa storia. Parliamo del tuo secondo romanzo, Faintly falling, e vediamo di non girarci intorno. La neve fa rumore, dici nel sottotitolo. La faccenda non è banale.

«La neve dice dell’immobilità, racconta la paura della paura di cambiare. Le persone si chiudono nei propri riti, nei propri doveri, si addormentano. Ho riti anch’io, per esempio prendo un caffè doppio macchiato da portare via ogni mattina nello stesso bar. La china che prendono queste cose, l’immobilità… mi ha sempre fatto paura. Ecco».

La neve descrive, circonda, amplifica l’immobilità delle sorelle protagoniste del romanzo. Un’immobilità apparente o reale? A me sembra che, alla fine, almeno una delle due salvi se stessa e così facendo salvi entrambe dal… nulla. E James, poi, quest’uomo molto affascinante che entra nella loro vita: James viaggia.

«Sì ma anche il viaggiare è un rito per non tornare al nocciolo della questione. Una cosa che accade se non hai il coraggio di riportare tutto a casa. Per quanto riguarda Laura e Cristina, ecco… nel loro caso è il troppo amore che blocca. Il troppo amore blocca sia che tu lo nutra sia che tu ne sia oggetto. Rimaniamo così, chiusi nella fissità della nostra esperienza».

Non descrivi nei dettagli James, ma sappiamo bene che stai parlando di Joyce. Lo dichiari in quarta di copertina addirittura: dici che questo romanzo è un saldo di conto in sospeso.

«Avevo 14 anni quando ho letto The Dead, e mi ha sconvolto l’esistenza. Ho due debiti con Joyce. Il primo è per questo racconto, perché quando sono arrivata all’ultima riga mi sono detta: non voglio mai, nella vita, arrivare a guardarmi indietro e rendermi conto che certe cose non le ho volute vedere. E il secondo debito, che non ho saldato e non salderò mai, è un debito con il suo stile. Come si fa? La sua grandezza… non si raggiunge, e questo ti lascia senza fiato. La coscienza che mai potrai. È dura».

Mentre parliamo, io e Sabrina beviamo. Birra. Siamo in un pub di Lecce dove la Guinness è ben spillata. Io ne ho presa una pinta. Sabrina ha preferito una bionda. Dal bancone si avvicina una delle ragazze a portarci due cicchetti di rhum. Dice: «Da parte di un ragazzo, non vuole che vi dica chi è». Sabrina è sconvolta. Mi dice: «Solo quando esco con te mi capitano queste cose». Chissà se è vero, comunque è divertente.

Sabrina, perché i tuoi personaggi sono sempre così… composti? (Sabrina ride). Dai, sono composti. Io leggo te, leggo me e mi metto le mani nei capelli. I miei sono sempre in delirio. I tuoi sono… composti. Ti piace questa definizione?

«Adesso cosa posso dire per non compromettermi?».

Risate.

«Oddio, sono in un cul de sac».

Risate.

«Forse perché non ho ancora maturato distacco. Distacco da quello che ci si aspetta da me. Ma la verità è che una vita non mi basta, vorrei vivere mille vite parallele. Scrivere è catartico, distogli l’attenzione da te stessa».

È così che la neve cade. Lentamente cade. Sul passato e sul presente, sui vivi e i morti: the flakes, silver and dark, falling obliquely against the lamplight. E ora torniamo a casa.

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