Autore: Loredana De Vitis

creare è un atto rivoluzionario

Creare è un atto rivoluzionario. L’ho capito perché quando ho cominciato a pensare che volevo diventasse qualcosa di davvero pervasivo, si è messo a rivoluzionare sul serio ogni momento e ogni gesto che avrei mai immaginato di compiere. Quando mi sono messa in testa la possibilità di apertura completa e totale all’essere creativa, devo aver aperto letteralmente qualche cavolo di strano canale sconosciuto [al raziocinio, intendo].

Io e Davide siamo incint@, è passata qualche settimana e adesso comincio ad aver voglia di raccontarlo. Davide se n’è accorto praticamente subito, gli pareva fosse cambiato qualcosa. Aveva ragione, il mio corpo ha cominciato a modificarsi fin dai primi giorni. Ho tentennato, poi non ho potuto più ignorare certi segnali.

  • Lore, dovresti fare il test.
  • Amore, vedrai che è solo un ritardo.

Non ci credevo nemmeno io, mai avuto ritardi. Mai.

  • Lore, perché non fai il test?
  • Paola, sarà un problema di qualche genere.

Ho fatto il test comprato in farmacia con le linee che si colorano. E non ci ho creduto fino in fondo.
Ho fatto un prelievo e chiesto un altro test. E non ci ho creduto fino in fondo.
Ho chiamato la ginecologa. Ho cominciato a prendere l’acido folico.
Ho pensato che magari era una malattia di qualche genere che mi sballava tutti i valori.

  • [ Ma che ne sappiamo?
  • Ma come ti viene in mente? ]

Poi l’abbiamo visto. Un fagiolo. Ma l’abbiamo visto. E allora ho dovuto cominciare a crederci.

Siamo incint@ e già rido da settimane.

  • Sei incinta? Ma quanti anni hai?
  • Quasi 39.
  • Ma era voluto?
  • Ma quanto ci avete provato?

Fa veramente troppo troppo ridere. Ho quasi 39 anni, un cervello con un aggeggio metallico che ha chiuso un aneurisma, la tendenza all’ipertensione e la fissa della scrittura. Quando ho capito che era il momento di pensare meno e creare di più il mio ovaio sinistro si è dato da fare.

Io mi metto in testa una cosa e tutto il corpo si muove con me. E Davide dev’essere totalmente, completamente, incredibilmente dentro questo flusso assieme a me.

Siamo incint@, sul fatto in sé non ci abbiamo messo tanta intenzione né tanta enfasi, proviamo emozione e tenerezza ma non siamo nel magico mondo delle cose piccole e zuccherate. Io rido spesso perché mi paiono tutti almeno maleducati se non proprio matti. Non ho mai sentito quel certo istinto di cui si favoleggia, né ho mai nutrito sogni del genere. Mi sono messa a scrivere con tutta me stessa e quella me stessa evidentemente ha una potenza spaventosa.

Siamo incint@ e io proprio, adesso, non posso non cominciare a raccontarlo.

Lecce adagio

La città vecchia s’apprezza meglio in bicicletta evitando le vie principali, pedalando si può scorrere il presente dentro la storia, l’alternarsi di luci e ombre, la vita dietro grate e finestre, il bucato steso negli angoli, gli odori etnici accanto alle polpette.

Il momento perfetto è subito dopo la pioggia, ché i leccesi fuori dalle mura la intasano d’auto ma dentro la lasciano praticamente deserta. Su due ruote bastano dieci minuti per spaccarla, ma anche per rischiare di spaccarsi qualcos’altro, per cui conviene alternare l’ammirazione per i balconi e le chiese barocche [e questa città che cambia raccontando invece d’essere sempre la stessa] all’attenzione per quel che accade sotto le ruote: sulle stradine s’alternano basolato antico, vecchio e finto-vecchio, nuovo bocciardato, asfalto rattoppato.

A Lecce procedere adagio. Grazie.

se telefonando

clic. ho dovuto scattare. una scena così interessante.
poi canticchiare [setelefonandoiopotessidirtiaddio].
dirsi “mah, no, no”.
tirare a indovinare “cosa può essere successo?”.
poi pensare a una storia da inventare.
infine concentrarsi su un dettaglio un solo unico dettaglio.
la ruota della bici nel foro sulla destra.
dev’essere che mi manca, contuttoquestofreddo non ci sono andata. mi manca la mia bicicletta.

diario per Sara

giovedì 3 marzo, ore 6.30
la sveglia nel silenzio della casa. anche se mi pesa prendere questa penna, aprire questo quaderno, sollevarmi fino a riuscire a scrivere, oggi penso che questo diario mi fa bene davvero, forse ha ragione Ivana forse mi serve davvero.
gratitudine, il primo pensiero di gratitudine. devo scriverlo appena sveglia. va bene, oggi lo voglio fare.
non so se chiamarla gratitudine, ma sento qualcosa di simile per aver trascorso finalmente questa notte nel mio letto invece che su una branda, nella pace di queste mura invece che dentro il continuo sfaccendare delle infermiere come ne fossi immersa sommersa travolta come se m’annegasse.
sono qui finalmente, sveglia per la sveglia che da incosciente non cosciente di quel che avevo ho odiato tante volte, sveglia non per l’odore del detersivo per pavimenti, non per la cagnara del mattino, non per lo scarrellare nei corridoi per il vociare della disperazione.
sono sola finalmente, ho qualche momento per me oggi posso farmi un caffè.

ore 6.45
un caffè buono, che sa di caffè, che ha riempito la casa di un profumo che quasi non ricordavo più. questo diario mi serve mi serve davvero. Ivana ha ragione, mi aiuta scrivere, mi aiuta a liberarmi. avrei dovuto telefonare a Marco lo so lo so, avrei dovuto per prima cosa chiedere com’è passata la notte.
non ho potuto.
la prima cosa oggi è bere questo caffè, seduta nella pace di questa casa.
lo so lo so avrei dovuto chiedere come sta Sara, la nostra piccola la nostra bambina, ma non riesco più mi sento sfibrata io stamattina ho bisogno solo di questo caffè.

ore 7.25
ho sentito Marco l’ho chiamato ho fatto quella telefonata che dovevo era mio dovere lo so lo so avrebbe dovuto essere la prima cosa lo so.
è stata una notte tranquilla, qualche colpo di tosse ma Sara è stata bene. non so se bene si possa dire se si possa pensare bene usare questa parola di una figlia malata senza più un capello e chiusa dentro una stanza asettica dove poco la possiamo vedere e pochissimo toccare.
non so se bene si possa dire se si possa neppure pensare, vorrei poterlo dire almeno per me. per cominciare vorrei poterlo dire almeno per me. un bene non morale non sostanziale, Sara è lì e finché sarà così io non potrò star bene davvero, ma io, io ecco avrei almeno bisogno di tornare in me, di riuscire a sentirmi di nuovo madre, vorrei per prima cosa tornare a desiderare la nostra vita la nostra casa. e invece adesso io mi sento solo un corpo vuoto, riesco a pensare solo che sono stanca distrutta, che ho sonno e ho bisogno di cose normali, di cibo normale, di sonno normale, del tempo che una volta riuscivo a prendermi per… fare la cacca, e che adesso non c’è non c’è neppure quello. sono ridotta a un corpo vuoto, ammaccato, dolorante.
sono a casa oggi qui adesso, Marco è lì e io lo so lo so che dovrei andare presto, dargli il cambio, ma non riesco io non riesco proprio. ho bisogno di questo tempo, un po’ alla volta ritornare a vivere io per prima e poi tornare da Sara un po’ più lucida più equilibrata più madre.
ce la faremo, il midollo di Sara tornerà a comportarsi bene, noi torneremo a discutere di cose normali torneremo a chiedere a Sara di non star tanto davanti alla tv di uscire un po’ di stare all’aria.
ah se Sara solo potesse oggi stare liberamente all’aria, il pericolo dei batteri ci tiene invece fuori da quella stanza lontani da lei non ci baciamo e non baciamo nessuno non ci tocchiamo non ci avviciniamo.
Sara.
Sara mi manca.
io adesso non posso più star qui, questa casa è troppo vuota, questa cosa troppo triste.
mi prendo il tempo di una doccia ma poi vado.
vado.
vado in ospedale.

giovedì 4 marzo, ore 21
ieri ero troppo stanca, avrei dovuto scrivere lo so lo so ma non ce l’ho fatta. sono tornata distrutta e ho rimandato. lo spiegherò a Ivana, le spiegherò che questo scrivere mi può servire lo so lo so ma non può essere un altro dovere l’ennesimo peso l’ennesima fonte di senso di colpa. una psicologa deve potermi aiutare, non contribuire alla mia distruzione.
un’altra giornata è passata, anzi due, due giornate ancora, Sara è viva e sta meglio, mi ha sorriso e anche Marco ha sorriso. lo sentiamo che sta andando bene. deve andare bene. ogni giorno speriamo che sia l’ultimo. il dottore ha detto chissà, forse potremmo trascorrere un po’ più di tempo in casa e forse potremmo uscire qualche volta. oggi no, oggi non si poteva, oggi la solita angoscia l’odore d’alcol i medici che passano l’elenco di numeri che proviamo a comprendere sui fogli caldi appena usciti dai laboratori le telefonate dei miei dei genitori di Marco degli amici a cui non so che dire. cosa posso dire? cosa vi aspettate? noi aspettiamo, aspettiamo tutti, guardiamo quei numeri e cerchiamo di capire. ho messo dieci sveglie al cellulare, provo a imparare a memoria i nomi dei farmaci, saluto Sara e continuo a sorridere.

ore 21.45, dopo cena
ci dev’essere qualcosa che possiamo fare per alleviare l’attesa, sentirci meglio tutti. ci dev’essere qualcosa che può migliorare subito la “situazione”: Ivana dice di scriverlo, di scrivere qualcosa che può portare un piccolo cambiamento in meglio. ci devo pensare e lo devo scrivere, scriverlo la sera.
ho mangiato patate al forno, ci ho messo del rosmarino, volevo sentire il caldo del forno e il profumo di qualcosa di nuovo cioè di vecchio voglio dire di non sentito per molto. mi sento meglio adesso, riesco a pensare a pensare a qualcosa.
ho deciso: il prete non può più entrare. Dio padre figlio e spirito santo non lo rendono libero dai batteri. o si lava e si copre, si mette come noi camice copriscarpe e cuffia o non può più entrare. devo dirlo a Marco: liberiamoci da questo peso, diciamo al prete che Sara guarirà anche senza di lui.
questa presenza questa presenza mi soffoca, mi sento avvilita umiliata mi sento in colpa perseguitata, io non credo che Dio c’entri c’entri qualcosa con Sara con questo tormento, non credo che pregare ci aiuterà davvero. esser guardata in quel modo con lo schifo negli occhi una madre snaturata senzadio lo so lo so che pensa questo, ma io non ci voglio andare a messa e non voglio pregare e non voglio pensare che Dio ci sarà di meno per questa ragione. e soprattutto non voglio che veda Sara senza camice senza copriscarpe e senza cuffia come se questo fosse giusto normale naturale come se Dio padre figlio e spirito santo fossero lì al posto dei batteri.
Sara guarirà lo stesso senza le sue preghiere, e anche prima senza i suoi batteri. dobbiamo dirlo al prete, Marco: con noi non ci può più stare.

forse ci scriverò un romanzo, ancora non lo so. so che sarà dedicato alle donne e agli uomini che combattono contro il cancro.

Mi sento schiacciata dalla notizia della morte di Tommaso Labranca

Mi sento schiacciata dalla notizia della morte di Tommaso Labranca.

  • Labranca?, ma cosa è successo?, non è una persona che ha a che fare con te?, mi ha chiesto un collega stamattina d’improvviso.
  • Sì, il mio editore. Perché?, di cosa parli?, che cosa è successo?

Il collega non mi ha risposto, l’ho guardato molto male, ho cercato on line veloce sui tasti come faccio sempre quando ho una fretta cieca.

Morto. Nella notte. Sì, così leggo. Rileggo. Scrivo un messaggio. Morto.

Comincio a pensare, non riesco a pensare.

Ho un grande debito nei confronti di Tommaso. Non l’ho mai conosciuto di persona. Mi ha scritto nel 2011, attraverso il mio blog, dove mi aveva scovata cercando una raccolta di racconti sull'”amore” per la trasmissione “La bella estate” su Radio24. Ne venne fuori un’intervista per me incredibile, a distanza di anni vedo bene che ero una cretina [e lo sono dai, lo sono ancora], ostinatamente confinata in una cittadina molto molto a sud che pretendeva [e pretende ancora, con una tendenza piuttosto autolesionista mi pare a volte] di scrivere a modo suo, di autoprodursi finché non va come dice lei.

Nel 2011, quando ho veramente capito chi fosse, ci misi mesi per “digerire” la cosa. Ed è andata in crescendo. Non abbiamo perso i contatti per un po’, ci siamo scritti, io leggevo alcune delle sue cose [libri e blog] e commentavo. Poi nel 2013 decise di pubblicare quella stessa raccolta di racconti che aveva scovato con la neo-fondata micro-casa editrice 20090.

Tommaso è che è stata l’unica persona che mi ha davvero letta, analizzata, studiata, sostenuta, promossa; non dico l’unica in senso assoluto [anzi, ne avrei da ringraziare], intendo dire l’unica persona di un certo… genere, o forse dovrei dire ‘ambiente’ per capirci, ma so che questa parola non la userebbe. Sto parlando di un ambiente distante, lontano, nel quale t’aspetti di trovare chissà quali opportunità. Editoriale forse si direbbe, o… intellettuale? Ma che ne so, in queste ore non ragiono molto lucidamente su questa storia, e mi meraviglia di avere così scarso pudore nel mettermi a scrivere questa sorta di sfogo pubblico che vorrebbe essergli anche d’omaggio. Beh comunque Tommaso mi ha dato opportunità, è stato onesto, onesto in tutto, una persona educata e rispettosa. Difficile dicono, ma con me mai uno scontro come ne raccontano. Non l’ho cercato io, lui ha trovato me realizzando un desiderio che covavo.

Ho riletto diverse e-mail e alcuni messaggi che ci siamo scambiati. Sono certa che in questo momento avrebbe pessime parole per questo mio lacrimoso e in fondo autocelebrativo testo, ma è semplicemente la verità che Tommaso era una persona perbene e un artista acuto, brillante, anticonformista, geniale. Questa persona mi ha detto che scrivere è una cosa che so e devo fare. E io anche per questo continuerò a farlo. Però, Tommaso, questa tua morte non mi fa sentire bene, questa tua morte mi dà pensieri da ore, mi sento schiacciata da questa morte che in fondo non cambia niente nella mia vita. Nemmeno ti conoscevo di persona, quello che ho scritto non ti ha cambiato la vita e la professione, e tu non hai cambiato le mie. In concreto no. Ma dentro, dentro io mi sento schiacciata. Compressa nella mia somma pochezza, nella piccolezza delle cose che ho fatto e che mi pare di fare, nell’ostinazione che qualche volta mi fa far volare stracci, e soprattutto schiacciata in questo mio voler stare per conto mio a scrivere come voglio e credo, cosa che mi dicono spesso non mi porterà da nessuna parte ma che intanto m’ha fatto conoscere te. In questo modo così incredibile. Per cui essere grata.

Ciao Tommaso, tanto ci rivedremo.

a proposito di “Fuori non c’è nessuno”

“Fuori non c’è nessuno”, il romanzo di Claudia Bruno (effequ, 2016), è una “ninna nanna di periferia”? Così lo definisce il sottotitolo, io non saprei dirlo. Forse perché non mi piacciono le ninne nanne, forse perché associo le ninne nanne a sequenze di suoni tristi o almeno malinconici e a me la malinconia non piace non la sopporto, forse perché conosco Claudia non tanto ma abbastanza per non riuscire a distinguere ciò che leggo da ciò che penso di capire, fatto sta che non saprei definirlo una ninna nanna né una ninna nanna di periferia. Perché questa definizione gli darebbe in fondo un certo senso di tenerezza o, appunto, almeno di malinconia, e la capacità di “confinare” l’intreccio narrato in un posto, appunto, periferico.

Invece io dico che questo è un romanzo sul nulla… cosmico, sul nulla che è ovunque, sul nulla in cui si nasce si cresce si muore, sul nulla in cui si impara a vivere senza attaccarsi a niente e nessuno e senza esser-ci. Il nulla delle cose che s’accumulano e di quelle che non ci sono, il nulla di luoghi brutti in cui per forza di cose impari a muoverti e a volte scegli di smettere di farlo, il nulla che alla fine ti isola nel nocciolo di un’esistenza dalla quale non riesci a uscire per venire in contatto – in vero contatto – con qualcuno che non sei tu. Anche se le vite [e i corpi] di Greta e Michela [le (apparenti) protagoniste principali] appaiono intrecciate saldamente, restano singole come singole sono tutte quelle dei personaggi/non-personaggi che nella storia s’aggirano come s’aggirerebbero in uno spazio… vuoto. Il nulla, appunto.

Piana Tirrenica è un posto inventato? Il Sud che vi si paragona è un posto migliore? Qual è la periferia? Io non so dirlo, io non so dire – Claudia – se quello che ho letto è diverso da quello che sento tanto spesso aggirandomi per il Sud dove vivo. Pieno di nulla, in cui è necessario cercare e costruire il bello con ogni energia possibile per non soccombere a quello stesso nulla che devi definire per avere qualcosa cui aggrapparti, il nulla che tu così lievemente drammaticamente racconti. Un nulla (anche) generazionale: ho rivisto, rivissuto, sentito suoni sapori odori oggetti persone di un’adolescenza in fondo molesta, uscite dalla quale non abbiamo potuto trovare sufficienti occasioni di bellezza, di opportunità, di luce, di futuro.

Un romanzo che scorre velocissimo, che devi rileggere per non lasciare che ti trascini nel nulla, scritto quindi perfettamente per farti mimeticamente piombare nel disperato vuoto che ci circonda. Fuori non c’è nessuno. E neanche dentro si sta troppo bene.

ho letto “sedici” di Milena A. Carone

Checché ne scriva in quarta di copertina, Milena A. Carone intreccia in questo libro soprattutto eventi privati [quelli pubblici fanno da sfondo: alcuni sono molto gradevoli da ricordare, altri sarebbe ora fossero ricordati anche ‘storicamente’], e sfata molti ‘miti’ sulle relazioni e lo stile di vita delle femministe [almeno di alcune].

In un italiano ben tenuto, Sedici è scritto quasi come fosse un codice da decifrare. Una volta “dentro”, è difficile uscirne, e sul finale la sensazione d’esserne trascinate si fa più forte [Milena, sbrigati a pubblicare il secondo volume, vogliamo leggere come va a finire].

I concetti di privato e politico, di forma e sostanza, s’applicano a vicende nelle quali l’autrice scava profondamente con leggerezza e ironia, fino a metterne in discussione i confini. Personalmente apprezzo molto la capacità di narrare il dolore, e l’idea dell’arte come possibilità salvifica.

il mio aneurisma e i tempi della sanità

In queste ore questo blog e la storia del mio aneurisma sono oggetto di un articolo/intervista di Antonello Cassano su Repubblica Bari. Cosa è accaduto e che cosa ho detto, in dettaglio, al giornalista (che ovviamente ha dovuto sintetizzare)?

Il 21 marzo 2016 alle ore 14.45 circa ci siamo incontrati in corridoio, al piano terra dell’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce, dov’ero per il mio controllo periodico nel reparto di Neuroradiologia. Antonello mi ha chiesto di commentare tempi e organizzazione dei controlli specialistici.

Gli ho chiesto prima di tutto per che testata lavorasse, quale fosse il suo nome. Forse l’ho spaventato. Mi sono fidata.

Gli ho raccontato questi fatti:

  • in occasione di due risonanze magnetiche di controllo (con e senza contrasto), effettuate nel novembre 2014 circa tre mesi dopo l’operazione di embolizzazione, i medici indicano sul referto la necessità di un nuovo identico controllo sei mesi dopo;
  • all’inizio di aprile 2015, convinta d’essere nel giusto margine di tempo, vado in reparto e chiedo informazioni su come prenotare le nuove risonanze;
  • l’infermiera dell’accettazione del reparto mi fa presente che è impossibile ottenere l’esame specialistico con così poco margine, perciò mi consiglia di passare attraverso l’Alpi (Attività libero professionale intra moenia), perché altrimenti l’esame sarebbe stato possibile in circa un anno;
  • non potendo permettermi di far slittare così tanto il controllo, vado allo sportello Alpi e in cinque minuti ottengo di fissare i controlli per maggio 2015 dietro un pagamento di oltre 300 euro;
  • in occasione del controllo (andato bene) di quel maggio 2015, sul referto i medici consigliano un nuovo controllo l’anno successivo;
  • chiedo subito al medico curante la ricetta, nel giugno 2015 vado al Cup (Centro unico di prenotazione) e ottengo che le risonanze vengano fissate, appunto, per il 21 marzo 2016;
  • ecco quindi che, con meno di 50 euro, posso effettuare i controlli nei tempi giusti e pagando una cifra ragionevole.

Così ho imparato a gestire la burocrazia, evitando che la burocrazia gestisca me.

Sarebbe necessario secondo me:

  • informare meglio e in dettaglio i pazienti sia sullo stato di salute che sui passaggi burocratici: ho dovuto e devo troppo chiedere e insistere per capire cosa succede, cosa è consigliabile e cosa non lo è, che cosa mi serve e che tipo di richieste devo far fare al medico; ho sempre la sensazione d’esser lasciata sola a districarmi in tutto; i pazienti sono persone e vanno presi in carico completamente;
  • diminuire i passaggi burocratici (che come paziente non capisco perché sono tenuta a conoscere): per esempio se in reparto dicono che serve un controllo annuo, perché questo controllo non può essere fissato automaticamente, e nei tempi giusti, senza passare nuovamente dal medico curante e senza sperare in una data utile per le specifiche esigenze?
  • ottimizzare l’uso delle risorse: perché nello stesso reparto pago con Alpi e faccio un esame in 15 giorni, pago il ticket e lo posso fare in un anno?, la differenza è incomprensibile, c’è qualcosa che non quadra.

Che ne dite?

[Never give up, never!]

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