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breve diario cagliaritano

Quando ho sentito “mi sento prima sarda, poi italiana” ho capito perché, volando verso l’isola, ho avuto la stessa sensazione di quando cambio nazione.

Provo una sincera e amorevole invidia per tutto quel verde, e per come crescono rigogliosi rampicanti e ficus vari.

Le insalate possono essere felici, ne ho mangiate almeno due indimenticabili.

I fenicotteri sono magnifici. In Sardegna persino il rosa m’è parso un bel colore.

the very kind York [with a lot of lovely gooses]

York is very kind, York è veramente deliziosa. Un posto molto molto inglese, ma senza il caos di Londra [che è praticamente l’unico posto inglese che avevo visto fino all’altra settimana, ammesso che Londra possa definirsi inglese], pieno di inglesi e cibo e pub inglesi, case vittoriane e un mucchio di amabili volatili. Yes, York has a lot of lovely gooses, è stato meraviglioso passeggiarci accanto e osservare la loro eleganza e i loro teneri piccoli.

Il centro cittadino, circondato da antiche mura sulle quali si può amabilmente passeggiare, è pieno di scorci affascinanti e chiese gotiche [con tanto di cimiteri], ed è attraversato dal fiume Ouse sul quale galleggiano volatili [naturalmente] e barche e canoe, e sul quale s’affacciano case, uffici e molti locali [tipici e non].

Il duomo è una delle cattedrali più interessanti ch’io abbia mai visitato, con quella sua mistura [molto inglese] di sacro e profano, religioso e laico, pacifista e guerrafondaio. Very kind anche lo Yorkshire Museum, with a giant fossilised ichthyosaur skeleton [molto impressionante], che si trova nel mezzo di un bel parco, e il Castle Museum, dove ho vissuto persino attimi di paura nell’attraversare la ricostruzione di York ai tempi della regina Vittoria [e dove ho orgogliosamente comprato una spilletta “Vote for Women”].

Sulla Clifford’s Tower mi sono goduta, oltre al panorama, anche delle magnifiche raffiche di vento gelido [cosa che trovo un’esperienza molto interessante dalla volta sulla sommità della Siegessäule a Berlino], le stesse che vi invito a godervi salendo in cima alla torre centrale del duomo: 275 scalini che val la pena di percorrere.

Se vi vien voglia di farci un giro, consultate l’ottimo www.visityork.org.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 3, parte terza

Alessandra-la-grande-Tigre è tornata in Vietnam pochi giorni prima del mio arrivo. Ha impacchettato tutto nutrendo il desiderio d’avere, un giorno, una casa come il Castello errante di Howl, ed è sbarcata – da Roma – di nuovo qui, dove una parte importante della sua vita è cominciata. Camminando lungo la riva del lago Hồ Tây, commentiamo teneramente i baci furtivi di giovani coppie sedute su romantiche (a maggior ragione se sgarrupate) sedie a sdraio all’ombra di piccoli ombrelloni cocacola.

La parte importante della sua vita cominciata in Vietnam ha anche due ragioni che si chiamano Roberto-il-lungo-acquatico e Iris-la-piccola-Tigre. Finalmente li rivedo, Roberto altissimo e Iris con quel suo sorriso così… violento! Sorrido salutando il-lungo-acquatico perché anche qui, come mi hanno raccontato succede in Italia, l’altezza di Roberto è argomento di commento, quando non proprio di conversazione. M’è successo con l’ambasciatore (“E insomma quella volta… sono entrati così nella mia stanza, lei e questa bambina e quest’uomo… altissimo! Lo conosce? È così alto, e dire che io sono alto!”); e m’è successo con mister-Tâm (“Are you a journalist? Yes! As Roberto, Alessandra’s husband. He is so tall!”). E via racconti su questa famiglia degna d’un fumetto.

Osservando Iris continuo a sorridere: gioca allegra sul prato mentre con Ale si sovrappongono pensieri sulle ore trascorse e le cose viste, sul popolo vietnamita, la storia e la filosofia, su cosa speriamo per noi, su cosa ci auguriamo accada domani. Domani, quando “mình thật tuyệt” concluderà i suoi primi nove mesi di scritti, immagini ed e-mail.

Ed ecco un’altra piccola grande storia cui ho la fortuna di assistere. Una delle case che Roberto-il-lungo-acquatico si è incaricato di vedere mentre la-grande-Tigre si occupa di me pare sia quella giusta. Con Ale e Iris lo raggiungiamo, tolgo anch’io le scarpe per entrare e cerco di restare in silenzio e in disparte nel corso della trattativa coi proprietari. Non voglio essere di troppo, non voglio turbare anche solo con la mia presenza un momento molto intimo. Roberto sorride ancora e mi spiega che farà tante, tante domande: “C’è sempre qualcosa che viene fuori all’ultimo momento. Ti sembra d’aver chiarito tutto, e invece…”.

Così attendo sull’uscio cercando d’osservare la conversazione con la coppia vietnamita che affitta quest’appartamento molto luminoso su due piani. Un edificio pensato per gli occidentali e a un prezzo per occidentali (in dollari). L’umidità del lago si sente fin dentro le ossa, mentre Iris è davvero una piccola-Tigre saltellando e prendendo possesso di ambienti che sente già suoi.

Io e Iris abbiamo un rapporto che alterna momenti di studio e diffidenza a grandi risate. Alterniamo questi sentimenti anche a cena. Siamo “da Paolo westlake”, dove la “traduzione” del mio progetto è stata concepita e nutrita e dove di concepimenti e nutrimenti ne sanno… a pacchi. Una storia, quest’ultima, che però non mi pare il caso di raccontare. Sul biglietto da visita di questo delizioso ristorante su tre piani c’è scritto “The traditional Italian thin crust pizzas baked on our fired pizza oven”. Sono ad Hanoi soltanto da tre giorni e l’Italia mi pare lontanissima. Perciò me la godo davvero con Paolo, Luca e Giulia e il via vai di vietnamiti alcuni dei quali sono vestiti come per andare in discoteca. Io e Iris facciamo a gara a chi è più piccola e capricciosa contendendoci decine di tappi di sughero. Scorre divinamente un vino bianco italiano che bevo per la prima volta e che infine quasi affoga pane, mozzarella, pomodori e altro di così semplice, buono e ben composto che mi pare d’aver raramente mangiato tanto bene in Italia.

Di ritorno, mi fermo a osservare una decina d’uomini che guardano la tv in una casa diroccata. “No, è in costruzione”, mi spiega Fabio, “qui gli operai lavorano tutto il giorno. Vengono spesso dalle campagne e non hanno dove andare. Per risparmiare, dormono nelle case che stanno costruendo. E si attrezzano come possono”.

Continuando a camminando, con un terribile mal di piedi, mi sorprendo a pensare d’essere sulla strada di casa.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 3, parte prima

18 ottobre

La colazione con frutta fresca è rapidissima: io e Nhung abbiamo fretta. Il programma della mattinata prevede una riunione con Alessandra-la-grade-Tigre e Hanh (altra meraviglia con cui Ale ha lavorato alla “traduzione” del mio progetto qui in Vietnam), e un pranzo con l’ambasciatore Lorenzo Angeloni. Insomma, ci prepariamo per l’evento finale di “io sono bellissima”, la valigia non arriva e io sono senza sapone, senza calze e senza scarpe. Nhung m’accompagna al supermercato e mi guarda dubbiosa mentre scelgo soltanto prodotti vietnamiti. «Ma come», mi dice in un inglese quasi convulso, «con tutta la roba occidentale che abbiamo qui?». È che mi diverte molto osservare le etichette e aprire i barattoli per sentirne l’odore. Bagno schiuma, shampoo, della biancheria e una confezione di gomme da masticare che pare un astuccio di cachet. Alla cassa Nhung insiste perché verifichi il resto.

Ho fretta, sempre più fretta. Mi servono delle scarpe e devo tornare a cambiarmi per i miei incontri “ufficiali”. Lungo la grossa Au Co, il cui traffico riesci (incredibilmente) a dimenticare osservando il chilometrico nastro a mosaico colorato che la percorre, ci fermiamo – così mi pare di capire – al primo (e ultimo) negozio utile. Il mio piede, che è lungo 37 ma indossa il 38 perché è grassoccio, non entra nella maggior parte delle scarpine femminili disponibili in questo bugigattolo tutto specchi e tappeti. Un 39, mi serve un 39! Trovato: per qualche decina di đồng ne prendo un paio che ha troppa, troppa punta, ma che mi pare il meno peggio. Ho fretta, sempre più fretta. Nhung approva. Dice che “nonostante” siano basse e semplici vanno bene.

Quindici minuti per cambiarmi (Nhung approva anche questo) e via verso il bar dove m’aspettano Ale e Hanh. L’appuntamento è al Kinh Do Cafe, dove Catherine Deneuve s’è fermata durante una pausa delle riprese del film “Indocina”. Abbracci e sorrisi rendono Hanh ancora più bella. Minuta, delicatissima, elegante, ha una forza tutta sua nel commentare il programma della giornata di domani e il lungo percorso che ci ha condotte fin qui. Capelli neri e lunghi, dita sottili su un iPad foderato di pelle marrone, coordina le nostre ordinazioni parlando velocemente con un’assai antipatica vietnamita che entra ed esce dal retrobottega attraversando una tenda luccicante. Di tutto il buono che potrei ordinare, mi viene in mente soltanto dell’acqua. Vorrei dell’acqua fresca e un bicchiere, grazie. Poi? Niente, grazie. Dall’acqua fresca e un bicchiere. Hanh muove rapida le dita sull’iPad, Ale-la-grande-Tigre si sofferma su ogni dettaglio, io mi guardo attorno osservando le foto di Catherine Deneuve sulle pareti e mi viene in mente la volta che, dovendo per la prima volta dire cosa conoscessi della lingua francese, me ne sono uscita con oui je suis catherine deneuve. Che coraggio…

E di nuovo abbiamo fretta. Il pranzo con l’ambasciatore è in un elegante ristorante poco distante. Nomi e strade si confondono nella mente, saluti istituzionali lasciano presto il posto a chiacchiere informali su argomenti d’ogni genere, dalla cooperazione alla letteratura. Angeloni sorride quando ammette d’esser stato travolto dall’energia della grande-Tigre e sorrido anch’io nel mangiare ancora maluccio con le bacchette una sorta di tagliolini al granchio intinti in una gustosissima zuppa. Ci serviamo da grandi vassoi in acciaio, io comincio a riconoscere quello che mi piace e mi faccio consigliare qualcosa di nuovo, ci offrono yogurt per dessert. La domanda fatidica, prima o poi, sarebbe arrivata. Ed eccola.

Allora, dottoressa, cosa ne pensa? È soddisfatta?

Ci penso qualche istante, bevo un sorso di succo di lime.

Credo che “mình thật tuyệt” sia un bell’esempio di integrazione tra attività artistica, attività politica, impegno istituzionale e contributo imprenditoriale. Per nove mesi donne d’ogni età da ogni parte del Vietnam ci hanno scritto d’essere bellissime. Per me è un sogno realizzato, la prova che ho avuto una buona idea. Un’idea che funziona, che può “spostare” qualcosa anche in donne di una cultura tanto distante dalla mia. E la prova che una buona idea ha bisogno d’essere accolta, compresa, amata e diffusa. Come è successo qui.

Angeloni sorride ancora, guarda Alessandra e ci invita ad andare avanti. Non c’era neppure bisogno di suggerirlo: io e la-grande-Tigre ne parliamo da un paio di mesi. Non finisce qui. L’ambasciatore ci lascia, noi restiamo ancora mezz’ora a parlare dei nostri desideri.

E a proposito dei nostri desideri, è arrivato il momento di prenderci ora qualche ora per noi.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 2

17 ottobre

All’arrivo ad Hanoi il cielo è plumbeo e l’umido proprio come me l’avevano preannunciato. Sudo e mi confermo nell’idea di provare una e una sola invidia: quella per le persone che non sudano. Io sudo. È terribile. Sudo, sono le 8 del mattino ed è presto fatto il calcolo. Ho viaggiato per circa 24 ore tutto compreso (cioè comprese pure le sei ore di fuso in avanti). Eccomi in Vietnam. È il 17 ottobre, sudo e tutto va bene. Ho il mio visa-upon-arrival in tasca, compilo la richiesta coi miei dati, consegno la mia fototessera, pago 25 dollari, intasco la mia brava ricevuta e mi presento al gabbiotto per il controllo.

L’età delle donne vietnamite è impossibile da definire. Almeno, io non ci riesco. Consegno passaporto e visto a una ragazza che mi pare quindicenne, riprendo il passaporto con un sorriso e… azz!!!, infilo il corridoio sbagliato. La tipa urla! Oddio, che ho fatto? “Per di qua”, sembra dirmi con sguardo feroce. “I’m sorry”, sussurro. Poi corro a prendere il bagaglio. E aspetto. Sul nastro niente. Aspetto. Niente. Aspetto. Niente. Aspetto. Niente.

Altra quindicenne con un foglio: “DEVITIS”.

  • Miss Devitis?
  • Ehmmm… De Vitis, yes. What’s up?
  • Your baggage is lost in Moscow.
  • What’s???
  • Please, we have to compile a form.

Oh cazzo, ammetto d’aver pensato. Oh cazzo. Al banco dell’Ufficio Lost&found descrivo la valigia e spiego che, al momento, non so fornire né un numero di telefono né un indirizzo vietnamita ai quali rintracciarmi.

  • I’ll call you later. Ok?
  • Ok.

All’uscita dall’aeroporto m’aspetta mister-Tâm. Mi sorride e in un inglese placido e lento mi dice che aveva creduto d’aver sbagliato giorno. No, no, è che m’hanno perduto la valigia e ho dovuto compilare un foglio e poi… ufff, salve Tâm, lieta di conoscerti. Mister-Tâm ha fatto la guerra. Non mi dice granché su questo, ma l’essenziale sì, e immediatamente: Tâm ha fatto la guerra. In 45 minuti in auto tra l’aeroporto e Hanoi abbiamo il tempo di chiarire, appunto, l’essenziale. Io sono una giovane giornalista italiana coi genitori insegnanti, lui fa l’autista e con quei capelli nerissimi, lo sguardo deciso e mani grandi e ferme… ha fatto la guerra. La mia mente s’affolla di pellicole di film e documentari mentre dal finestrino osservo il paesaggio e il traffico. Mister-Tâm ha fatto la guerra e mi chiede della mia famiglia. Mi limito a rispondere alle domande piuttosto asetticamente, mentre nella mente le scene dei film e dei documentari sulla guerra in Vietnam si sovrappongono al paesaggio: l’acqua, la vegetazione, il cielo plumbeo, il traffico e, all’arrivo ad Hanoi, le contraddizioni d’ogni posto del mondo che si muove con questa velocità.

Giunta da Fabio, che m’ospita, ecco il mio angelo custode. Nhung è deliziosa e ha una soluzione per tutto: ho bisogno di rintracciare Alessandra-la-grande-Tigre che è arrivata in Vietnam da poco e ha cambiato numero (cinque telefonate, di cui tre in Ambasciata), ho bisogno di dire dove sono e dove far arrivare la mia valigia (tre telefonate in aeroporto), ho bisogno di un collegamento wifi per far sapere in Italia che sono viva (andiamo in un caffè), ho bisogno di uscire ma sono stanchissima (prendiamo lo scooter), non ho calzini e le altre scarpe sono nella valigia rimasta a Mosca (la soluzione per questa non ve la spiego). Casa di Fabio (e Fabio non c’è) è luminosa ed essenziale. Ci sentiamo, mi dà il benvenuto e m’invita a mangiare quello che mi pare. Ne approfitto e attingo dal frigo qualche nem cuốn. Sono piccoli rotoli di verdure e gamberi crudi che vanno intinti in salsa di soia chiara e piena d’aglio e peperoncino. Ci aggiungo un’insalata di cetrioli pomodoro e formaggio dolce e un dolce con ananas caramellato. Il cuoco, Tuấn, è bravissimo a mescolare sapori vietnamiti e italiani. Sono… cotta. Dopo un paio d’ore di sonno profondissimo, eccomi a scrivere sulle scale, in giardino. Mi pare un momento perfetto: posso restare a scrivere qui, nascosta nel fogliame, per un po’? Uhmmm, non ora. Bisogna muoversi.

In mattinata Nhung m’aveva fatto capire i fondamentali: sei sposata? vivi sola? da quanto tempo vivi sola? com’è casa tua? Poco più di 50 metri per una persona sola sono buoni, m’aveva fatto notare: qui in città tre persone vivono in 25 metri. E infatti la vita si svolge soprattutto per strada.

Nei miei giri pomeridiani con Alessandra-la-grande-Tigre che finalmente riesco a riabbracciare (“Non preoccuparti Lore, qui in Vietnam le cose si complicano con grande semplicità e con altrettanta semplicità si risolvono. Andrà tutto bene, vedrai!”), finalmente torno a esercitare con una certa lucidità l’osservazione del mondo. Ale m’aiuta a decodificare quello che vedo con un fiume di racconti suggestivi, sempre al confine tra realtà e leggenda. Per strada si legge, si studia, si tagliano i capelli, si mangia in “caffè” allestiti con piccoli sgabelli in plastica. M’immagino la bellezza di questi posti quando era il legno il principale materiale utilizzato. Il traffico è regolato dai clacson e dalla capacità di districarsi senza cadere (e non ho visto alcun incidente), l’architettura affianca vecchie case costruite in verticale e tempietti da cartolina a palazzi severamente sovietici e grattacieli di cemento e vetro.

Alessandra-la-grande-Tigre m’aiuta anche a ordinare l’abito che ho deciso d’indossare per la cerimonia conclusiva di mình thật tuyệt. Mi porta da Thao silk co., nella città vecchia, dove tre vietnamite con sguardo fiero e piglio deciso ci accerchiano: decido il tipo di seta e, nel farmi prendere le misure, opto per un modello tagliato “comodo”, un po’ più largo di come s’usa qui comunemente, del tradizionale ao dai.

  • I pantaloni? Chiedono se li vuoi neri o bianchi.
  • Ma no, la seta è blu, è un abbinamento orribile. (traduzione in corso)
  • Loro non ci badano. Aspetta. (traduzione in corso)
  • Chiedono se li vuoi di seta blu, ma ti costerà di più. (Ale sorride)
  • Di più quanto?
  • L’equivalente di due o tre euro. (Ale sorride e sorrido anch’io con un po’ d’imbarazzo)

Ordinato. La seta scelta è blu e lilla cangiante con disegni tipici, l’abito mi costerà 1.680.000 đồng (60 euro circa). Continuo a esercitarmi con la moneta locale acquistando poi una scheda telefonica (80mila đồng in un negozietto gestito da un ometto senza un braccio che ha capito subito che sono “straniera”), e mi gusto un frullato di mango dalla terrazza di un locale così nascosto e “oscuro” che mi pare d’essere in un altro film. Sono rapita dalla vista del lago Hoàn Kiếm, circondato dalle luci del caos contemporaneo e immerso nell’eterno antichissimo immobile presente della tartaruga d’oro che sono certa nuota nelle sue acque.

Stordita seguo Ale che racconta, stordita sorrido a bambine e bambine che mi paiono così socievoli, stordita stringo la mano a Fabio, stordita saluto la-grande-Tigre, stordita ceno con Fabio cui faccio domande sull’organizzazione della vita e della diplomazia, stordita e con molto impegno uso le bacchette per mangiare bún chả. È buonissima questa carne di maiale alla piastra bagnata in brodo di pesce e accompagnata da verdure e spaghetti di riso. Sono le 9, sono sazia di cibo, di parole, di immagini. Sono a pezzi. Fabio mi perdonerà, ma ho proprio bisogno d’andare a dormire. A domani. Buonanotte Hanoi.

mình thật tuyệt (diario) / giorno 1

16 ottobre 2012, in viaggio

Sul mio volo Alitalia per Roma, partito con 20 minuti di ritardo per un “controllo tecnico” (ah sì? quale?), viaggiano un sacco di maschi adulti vestiti di scuro e coi capelli imbiancati. Le poche donne che vedo sono per la maggior parte con uno dei maschi adulti suddetti e indossano orecchini d’oro e perle e anelli impegnativi. Di donne della mia generazione “non accompagnate” ce n’è invece solo una: io.

A Roma, passata dal terminal 1 al terminal 3 in direzione Mosca, il panorama è decisamente più vario ma la sostanza non cambia. Molte donne di molti paesi, molte velate. Indossano grandi tuniche in tonalità dal bianco ghiaccio all’avorio con ricami e a volte perline, e sono sempre accompagnate da maschi adulti alcuni dei quali hanno copricapo di cotone. Sotto le tuniche, le suddette donne velate indossano soprattutto scarpe da ginnastica (sempre chiare, ma che varietà!), e pantofole d’ogni foggia. Al check-in la domanda fatidica.

  • Ha il visto per entrare in Vietnam?
  • Ce l’ho!
  • Posso vederlo?
  • Certo!
  • Ah, non ha l’originale col timbro rosso?
  • Beh, me l’hanno spedito via e-mail!
  • Ah, certo, allora va bene ma mi raccomando non lo perda altrimenti non la fanno entrare e dovrà tornare indietro.
  • Lo so.
  • Ecco, bene.
  • Ehmmmm… ok, allora me lo ridà per favore?
  • Cosa?
  • Mi ridà il visto per favore?
  • Cosa?
  • Il mio visto!
  • Ah certo, scusi. Ce l’ho qui. Certo, giustamente. Scusi.

Pochi metri più in là, mentre pago al volo “Norwegian Wood” prima di correre verso il gate stabilito, trovo la commessa con un’aria molto annoiata. Probabilmente io sono troppo seria, troppo formale, troppo cortese, e soprattutto mi macchio di un grave delitto: non voglio la busta.

Bevuto caffè e mangiate due merendine, comprata dell’acqua e osservato una varietà umana molto rassicurante, eccomi al suddetto gate. Accanto a me una coppia molto carina credo russa. Lei ha unghie impressionanti: curve e appuntite, lunghe un centimetro buono oltre i polpastrelli, sono percorse da un disegno geometrico rosa e rosso con piccole decorazioni dorate. Immagino che siano un’ottima scusa per non fare cose noiose (Non posso, non vedi che unghie?). Questa me la segno. Lui ha occhi chiarissimi e una cicatrice che dal lato sinistro della bocca segna la guancia per circa tre centimetri.

Ok, ho appena visto un piccione. Dev’essere lo stesso che ha visto Alessandra-la-grande-Tigre l’altro giorno e che ha pubblicato su faccialibro. A questo proposito, non vedo l’ora di rivedere lei, Iris-la-piccola-Tigre e anche Roberto-il-lungo-acquatico.

Il volo per Mosca parte con 40 minuti di ritardo o più, e da un nuovo gate. Questa serie di contrattempi ha comportato un’interessante coincidenza che però non ho nessuna voglia di raccontarvi. Andiamo oltre.

A bordo, un terribile sonno mi fa crollare con la testa sul finestrino e un rivolo di saliva di cui mi accorgo appena in tempo. Pranzo saltato. Amen. A parte la sfortuna dell’ultimo posto a metà cabina, cosa che mi impedisce di abbassare il sedile, sono comoda. Accanto a me nessuno e il signore passata la quarantina brizzolato con fede d’oro giallo lato corridoio è molto, molto educato. Legge Ken Follet dopo aver dato una rapida occhiata a la Repubblica. The niente male e due altre merendine. Sul sedile davanti si guarda su iPad “Wanted”. Quant’è bello Morgan Freeman? Parecchio. Però devo ammettere che anche James McAvoy ha un suo perché. Lo ammetto. Ammetto anche che qualche anno fa questo era praticamente l’unico genere d’uomini che mi piaceva sul serio: ero nella fase piccoli, belli e tormentati. Per fortuna ho smesso. È una fase dalla quale ogni donna occidentale dovrebbe uscire, secondo me.

Mosca. Banco transiti, altri controlli, breve attesa, ultimo imbarco. Sul volo per Hanoi Aeroflot tiene tantissimo a farci sapere ogni possibile dettaglio tecnico: come prendiamo quota, dove siamo, cosa succede esattissimamente ogni dieci minuti. Che ansia. Perché devo sapere tutte queste cose? Preferisco osservare russi e vietnamiti che attorno a me decidono di mostrarmi i calzini assieme a una serie di odori corporei che preferisco non identificare.

Tra frustranti tentativi di riposare, mangio cibo che credo venga considerato “internazionale” e mi dedico con molto impegno alla visione di film in inglese. Il massimo volume nelle cuffie monouso è così basso, in proporzione a quello di chissà che diamine dell’aereo, che l’osservazione di russi e vietnamiti è inevitabile. Sulla sinistra, dall’altro lato del corridoio, un ragazzone in calzini blu e vecchia borsa in cuoio beve continuamente coca corretta con whisky, o meglio whisky corretto con coca (le assistenti di volo ne sono divertite), a destra un paio di vietnamiti – dopo ripetuti tentativi di incastro – si separano (il primo passa alla fila davanti, il secondo mi sorride poggiando i piedi sul sedile accanto al mio).

Otto ore sono lunghe, per quanti film tu possa vedere quanti caffè bere quanti tentativi di lettura fare quanti sorrisi scambiare quanto cibo ingurgitare quanto sonno riuscire o non riuscire ad avere.

  • Fish or meat?
  • Fish, thanks.
  • You’re welcome.

Otto ore così, ed eccomi. Eccomi finalmente ad Hanoi.

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