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prima del poi

Prima del poi, del momento in cui tutto cambierà di nuovo perché Giovanni farà il suo ingresso ‘autonomo’ [nel senso: letteralmente ‘staccato’ da me] nella nostra quieta & caotica famiglia umano-felina [accadrà presto], voglio approfittare delle mie ultime ore di relativa lucidità per provare a raccogliere un po’ di fatti pensieri idee che si sono allineati negli ultimi mesi di attesa.

1. Maschio o femmina?

Ho dedicato un post a qualche divertente aneddoto, ma m’è capitato anche di peggio. Ho scoperto per esempio che Davide [il mio già-compagno, ora mio marito, il padre di Giovanni] “è stato bravo: il primogenito maschio” [ahah]. Se da una parte quest’ennesima battuta degna forse solo di qualche residua resistenza monarchica mi ha fatto pensare che – accidenti, viviamo ancora come secoli fa, dall’altra la funzionaria dell’ufficio comunale dove siamo andati a informarci sulle procedure per attribuire a nostro figlio entrambi i nostri cognomi non ha fatto una piega e ci ha liquidati rapidamente: “Ormai è legge, basta esprimere questa richiesta all’atto della registrazione”. Ergo, stiamo per dare inizio a una nuova dinastia 😉

Devo ammetterlo: qualche settimana fa ho provato la bruttissima sensazione di sentirmi un pochino sollevata per il fatto d’aspettare un maschio invece che una femmina. Che rabbia, è accaduto quando abbiamo cominciato ad andar per negozi [poco in verità, lo stretto indispensabile] a comprare qualche tutina. Tra strass, cuori, fiocchi e frasi idiote… sono piombata in un vortice di pensieri bui sulle dinamiche a cui andiamo incontro. A parte la sciocchezza in sé delle tutine [abbiamo poi trovato cose più o meno “neutre” e soprattutto molto simpatiche], ho assaggiato per la prima volta la preoccupazione per il lavoraccio che ci attende nel tentativo di tirar su una persona “normale”. Discorso lungo, ogni cosa a suo tempo. E per il momento non è questo.

2. Malesseri/benessere

I primi sei mesi d’attesa sono stati molto molto sereni. Sono certa che in gran parte è stato merito del fatto che ho potuto viverli a riposo e in tranquillità, sia in senso fisico che in senso emotivo/spirituale/mentale. Alcuni rischi corsi per motivi di salute sono stati tenuti molto bene sotto controllo e non hanno più di tanto influito sull’andamento della gravidanza. Non voglio considerarmi fortunata per aver avuto questa opportunità, voglio invece affermare che dovrebbe essere diritto di tutte le donne vivere l’attesa nella maniera più “salutare” possibile, ognuna secondo le proprie esigenze e necessità.

Il terzo trimestre, in estate, è stato salutato dalla simpaticissima battuta “I mesi peggiori te li fai col caldo eh?”. Non direi che sono stati “i mesi peggiori” [non capisco in che senso], ma è vero che ho sofferto tanto il caldo, anche se dove vivo – nel Salento – è cosa che provano praticamente tutti. Comunque questo “aggravio” ambientale mi ha fatto percepire in modo ancor più netto che nei mesi precedenti quanto la gravidanza sia un’esperienza di grande impatto prima di tutto fisico. Il corpo parla molto se lo si sa ascoltare [io l’ho fatto fin da subito, soprattutto dormendo e/o riposando ogni volta che ne ho sentito il bisogno]. Cambia tutto: come cammini, come dormi, come mangi osservi leggi parli respiri [tra l’altro sono scivolata due volte, che paura!]. Tachicardia e affanno nelle ultime settimane mi hanno aiutata a elaborare il distacco. Ci siamo piccoletto, è stato bello essere legati per tante settimane, sta per arrivare il momento di guardarci negli occhi respirando ognuno per sé.

3. Paure/auspici

Timori e [a volte] incubi sono a quanto pare perfettamente normali in gravidanza. Personalmente ho fatto sogni stranissimi, alcuni dei quali con trame complesse quanto film e la partecipazione di attori e attrici anche molto famosi [casting discutibile, ne dovrò parlare con la regista 😉 ]. Che Giovanni stia bene è ciò che semplicemente e naturalmente mi auguro, in ogni caso affronteremo le cose così come verranno.

Una generosa quantità di battutacce sulla vita futura con figli riguarda le difficoltà del caso, la maggior parte delle quali al momento mi sembrano molto sciocche: dormire, mangiare, gestire il pianto. Sono certa che non può essere così complicato, lo saranno di certo in futuro cose ben più impegnative. Che la vita mia e di Davide cambi è normale, non vedo perché non dovrebbe e non è la prima volta che lo fa. Insomma sento troppi lamenti in giro, mi sono fatta l’idea che molte persone farebbero bene a trovarsi scopi [o almeno qualche hobby] per mettere a fuoco il centro della propria esistenza prima di ragionare sui figli [soprattutto degli altri].

4. Percepirsi sempre bellissima

Quanto sei ingrassata? Quanto hai preso? Quanti chili pensi dovrai perdere poi? Tutta pancia comunque eh, complimenti. Sono solo alcuni degli innumerevoli commenti ricevuti a proposito della mia forma fisica in gravidanza, immagino quali potranno essere quelli che arriveranno. La cara amica Miriam mi ha fatto sorridere raccontandomi per esempio “Ma sai quella? Ha rimasta crossa [grassa]”, e suggerendomi una volta di più che dovrò scrivere qualcosa a proposito di questa nuova fase della mia [e nostra] bellezza. Diamoci tregua, amiche mie, nove mesi e un/a figlio/a non meritano di essere cancellati senza una profonda riflessione sulla forza del nostro corpo e sui cambiamenti che è capace di elaborare.

Infine: che cosa mi auguro per il più lontano futuro? Io e Davide ci siamo raccontati giusto qualche giorno fa di non aver mai nutrito particolari preoccupazioni sulla nostra capacità di essere “buoni genitori”, la questione ci pare mal posta [o forse questo ci rende già dei cattivi genitori, pazienza]. Saremo noi stessi, imperfetti naturalmente e coi nostri limiti e le nostre qualità. Quello che sappiamo per certo è che vorremmo un giorno, se ne avremo la possibilità, poter dire di aver costruito un rapporto corretto e onesto con nostro figlio. Vorremmo insomma un giorno poter constatare che noi e Giovanni, adulti, ci stimiamo reciprocamente. Nel frattempo… ci ameremo. Ci pare tutto quel che serve.

sapete già che cos’è?

Sapete già che cos’è?

La domanda, la più frequente, la più ossessionante, la più irritante delle domande eccola qua. Sapete già che cos’è? Sì, è una creatura, lasciatela in pace, sta tanto bene dove sta e come sta, con me, lasciatela vivere tranquilla.

  • Che cos’è? Una creatura.
  • No, nel senso… è maschio o femmina?

L’avevo capito eh, ma per settimane ho fatto finta di non capire perché mi scocciava tanto parlare di un argomento non poi così fondamentale. Non lo sapevamo, peraltro, e comunque non era una questione rilevante. Maschio, femmina…

  • Ma tu cosa vorresti?
  • Ma tu cosa ti senti?

Io non “voglio” niente e non ho sentito niente di particolare. Con me c’era e c’è semplicemente una piccola creatura.

  • [Loredana, un po’ di indulgenza. Le persone a volte lo chiedono perché non sanno cosa dire.
  • Ma in questi casi non si dovrebbe parlare del tempo?]

[omissis]

  • Hai avuto nausee? Vomito?
  • Veramente no.
  • Ah, allora è femmina, sono i maschi che danno fastidio.

Ma anche:

  • Hai avuto nausee? Vomito?
  • Veramente no.
  • Ah, allora è maschio. Dalle mie parti si dice che le femmine succhiano la bellezza della madre e la sciupano.

Con il trascorrere delle settimane…

  • [l’infermiere] Signora, non mi chieda perché ma secondo me è femminuccia. Come avrei voluto averne una io.
  • [varie (sintesi)] Loredana, scommetto che è femmina. Tu devi avere una femmina. Per te deve arrivare una femmina.
  • [altre varie (sintesi)] Dalla forma della pancia è femmina. Vedrai.

Certe volte, per divertirmi, me ne sono uscita con commenti sul fatto che il “sesso biologico” è una minima parte della questione […], per cui potete immaginare la quantità di sguardi terrorizzati che sono riuscita a ottenere.

E poi giorno dopo giorno, mentre – come spesso accade ma non credevo sarebbe successo anche a me – ho cominciato a parlare con la creatura, ho anche cominciato a pensare: perché no?, un pezzetto di conoscenza in più.

Così quando la mia fantastica ginecologa me l’ha chiesto [- lo volete sapere? adesso posso dirvelo], abbiamo detto sì. Ed eccoci qua.

Giovanni. Ciao piccoletto, conosciamoci meglio. Ti va?

creare è un atto rivoluzionario

Creare è un atto rivoluzionario. L’ho capito perché quando ho cominciato a pensare che volevo diventasse qualcosa di davvero pervasivo, si è messo a rivoluzionare sul serio ogni momento e ogni gesto che avrei mai immaginato di compiere. Quando mi sono messa in testa la possibilità di apertura completa e totale all’essere creativa, devo aver aperto letteralmente qualche cavolo di strano canale sconosciuto [al raziocinio, intendo].

Io e Davide siamo incint@, è passata qualche settimana e adesso comincio ad aver voglia di raccontarlo. Davide se n’è accorto praticamente subito, gli pareva fosse cambiato qualcosa. Aveva ragione, il mio corpo ha cominciato a modificarsi fin dai primi giorni. Ho tentennato, poi non ho potuto più ignorare certi segnali.

  • Lore, dovresti fare il test.
  • Amore, vedrai che è solo un ritardo.

Non ci credevo nemmeno io, mai avuto ritardi. Mai.

  • Lore, perché non fai il test?
  • Paola, sarà un problema di qualche genere.

Ho fatto il test comprato in farmacia con le linee che si colorano. E non ci ho creduto fino in fondo.
Ho fatto un prelievo e chiesto un altro test. E non ci ho creduto fino in fondo.
Ho chiamato la ginecologa. Ho cominciato a prendere l’acido folico.
Ho pensato che magari era una malattia di qualche genere che mi sballava tutti i valori.

  • [ Ma che ne sappiamo?
  • Ma come ti viene in mente? ]

Poi l’abbiamo visto. Un fagiolo. Ma l’abbiamo visto. E allora ho dovuto cominciare a crederci.

Siamo incint@ e già rido da settimane.

  • Sei incinta? Ma quanti anni hai?
  • Quasi 39.
  • Ma era voluto?
  • Ma quanto ci avete provato?

Fa veramente troppo troppo ridere. Ho quasi 39 anni, un cervello con un aggeggio metallico che ha chiuso un aneurisma, la tendenza all’ipertensione e la fissa della scrittura. Quando ho capito che era il momento di pensare meno e creare di più il mio ovaio sinistro si è dato da fare.

Io mi metto in testa una cosa e tutto il corpo si muove con me. E Davide dev’essere totalmente, completamente, incredibilmente dentro questo flusso assieme a me.

Siamo incint@, sul fatto in sé non ci abbiamo messo tanta intenzione né tanta enfasi, proviamo emozione e tenerezza ma non siamo nel magico mondo delle cose piccole e zuccherate. Io rido spesso perché mi paiono tutti almeno maleducati se non proprio matti. Non ho mai sentito quel certo istinto di cui si favoleggia, né ho mai nutrito sogni del genere. Mi sono messa a scrivere con tutta me stessa e quella me stessa evidentemente ha una potenza spaventosa.

Siamo incint@ e io proprio, adesso, non posso non cominciare a raccontarlo.

Lecce adagio

La città vecchia s’apprezza meglio in bicicletta evitando le vie principali, pedalando si può scorrere il presente dentro la storia, l’alternarsi di luci e ombre, la vita dietro grate e finestre, il bucato steso negli angoli, gli odori etnici accanto alle polpette.

Il momento perfetto è subito dopo la pioggia, ché i leccesi fuori dalle mura la intasano d’auto ma dentro la lasciano praticamente deserta. Su due ruote bastano dieci minuti per spaccarla, ma anche per rischiare di spaccarsi qualcos’altro, per cui conviene alternare l’ammirazione per i balconi e le chiese barocche [e questa città che cambia raccontando invece d’essere sempre la stessa] all’attenzione per quel che accade sotto le ruote: sulle stradine s’alternano basolato antico, vecchio e finto-vecchio, nuovo bocciardato, asfalto rattoppato.

A Lecce procedere adagio. Grazie.

se telefonando

clic. ho dovuto scattare. una scena così interessante.
poi canticchiare [setelefonandoiopotessidirtiaddio].
dirsi “mah, no, no”.
tirare a indovinare “cosa può essere successo?”.
poi pensare a una storia da inventare.
infine concentrarsi su un dettaglio un solo unico dettaglio.
la ruota della bici nel foro sulla destra.
dev’essere che mi manca, contuttoquestofreddo non ci sono andata. mi manca la mia bicicletta.

diario per Sara

giovedì 3 marzo, ore 6.30
la sveglia nel silenzio della casa. anche se mi pesa prendere questa penna, aprire questo quaderno, sollevarmi fino a riuscire a scrivere, oggi penso che questo diario mi fa bene davvero, forse ha ragione Ivana forse mi serve davvero.
gratitudine, il primo pensiero di gratitudine. devo scriverlo appena sveglia. va bene, oggi lo voglio fare.
non so se chiamarla gratitudine, ma sento qualcosa di simile per aver trascorso finalmente questa notte nel mio letto invece che su una branda, nella pace di queste mura invece che dentro il continuo sfaccendare delle infermiere come ne fossi immersa sommersa travolta come se m’annegasse.
sono qui finalmente, sveglia per la sveglia che da incosciente non cosciente di quel che avevo ho odiato tante volte, sveglia non per l’odore del detersivo per pavimenti, non per la cagnara del mattino, non per lo scarrellare nei corridoi per il vociare della disperazione.
sono sola finalmente, ho qualche momento per me oggi posso farmi un caffè.

ore 6.45
un caffè buono, che sa di caffè, che ha riempito la casa di un profumo che quasi non ricordavo più. questo diario mi serve mi serve davvero. Ivana ha ragione, mi aiuta scrivere, mi aiuta a liberarmi. avrei dovuto telefonare a Marco lo so lo so, avrei dovuto per prima cosa chiedere com’è passata la notte.
non ho potuto.
la prima cosa oggi è bere questo caffè, seduta nella pace di questa casa.
lo so lo so avrei dovuto chiedere come sta Sara, la nostra piccola la nostra bambina, ma non riesco più mi sento sfibrata io stamattina ho bisogno solo di questo caffè.

ore 7.25
ho sentito Marco l’ho chiamato ho fatto quella telefonata che dovevo era mio dovere lo so lo so avrebbe dovuto essere la prima cosa lo so.
è stata una notte tranquilla, qualche colpo di tosse ma Sara è stata bene. non so se bene si possa dire se si possa pensare bene usare questa parola di una figlia malata senza più un capello e chiusa dentro una stanza asettica dove poco la possiamo vedere e pochissimo toccare.
non so se bene si possa dire se si possa neppure pensare, vorrei poterlo dire almeno per me. per cominciare vorrei poterlo dire almeno per me. un bene non morale non sostanziale, Sara è lì e finché sarà così io non potrò star bene davvero, ma io, io ecco avrei almeno bisogno di tornare in me, di riuscire a sentirmi di nuovo madre, vorrei per prima cosa tornare a desiderare la nostra vita la nostra casa. e invece adesso io mi sento solo un corpo vuoto, riesco a pensare solo che sono stanca distrutta, che ho sonno e ho bisogno di cose normali, di cibo normale, di sonno normale, del tempo che una volta riuscivo a prendermi per… fare la cacca, e che adesso non c’è non c’è neppure quello. sono ridotta a un corpo vuoto, ammaccato, dolorante.
sono a casa oggi qui adesso, Marco è lì e io lo so lo so che dovrei andare presto, dargli il cambio, ma non riesco io non riesco proprio. ho bisogno di questo tempo, un po’ alla volta ritornare a vivere io per prima e poi tornare da Sara un po’ più lucida più equilibrata più madre.
ce la faremo, il midollo di Sara tornerà a comportarsi bene, noi torneremo a discutere di cose normali torneremo a chiedere a Sara di non star tanto davanti alla tv di uscire un po’ di stare all’aria.
ah se Sara solo potesse oggi stare liberamente all’aria, il pericolo dei batteri ci tiene invece fuori da quella stanza lontani da lei non ci baciamo e non baciamo nessuno non ci tocchiamo non ci avviciniamo.
Sara.
Sara mi manca.
io adesso non posso più star qui, questa casa è troppo vuota, questa cosa troppo triste.
mi prendo il tempo di una doccia ma poi vado.
vado.
vado in ospedale.

giovedì 4 marzo, ore 21
ieri ero troppo stanca, avrei dovuto scrivere lo so lo so ma non ce l’ho fatta. sono tornata distrutta e ho rimandato. lo spiegherò a Ivana, le spiegherò che questo scrivere mi può servire lo so lo so ma non può essere un altro dovere l’ennesimo peso l’ennesima fonte di senso di colpa. una psicologa deve potermi aiutare, non contribuire alla mia distruzione.
un’altra giornata è passata, anzi due, due giornate ancora, Sara è viva e sta meglio, mi ha sorriso e anche Marco ha sorriso. lo sentiamo che sta andando bene. deve andare bene. ogni giorno speriamo che sia l’ultimo. il dottore ha detto chissà, forse potremmo trascorrere un po’ più di tempo in casa e forse potremmo uscire qualche volta. oggi no, oggi non si poteva, oggi la solita angoscia l’odore d’alcol i medici che passano l’elenco di numeri che proviamo a comprendere sui fogli caldi appena usciti dai laboratori le telefonate dei miei dei genitori di Marco degli amici a cui non so che dire. cosa posso dire? cosa vi aspettate? noi aspettiamo, aspettiamo tutti, guardiamo quei numeri e cerchiamo di capire. ho messo dieci sveglie al cellulare, provo a imparare a memoria i nomi dei farmaci, saluto Sara e continuo a sorridere.

ore 21.45, dopo cena
ci dev’essere qualcosa che possiamo fare per alleviare l’attesa, sentirci meglio tutti. ci dev’essere qualcosa che può migliorare subito la “situazione”: Ivana dice di scriverlo, di scrivere qualcosa che può portare un piccolo cambiamento in meglio. ci devo pensare e lo devo scrivere, scriverlo la sera.
ho mangiato patate al forno, ci ho messo del rosmarino, volevo sentire il caldo del forno e il profumo di qualcosa di nuovo cioè di vecchio voglio dire di non sentito per molto. mi sento meglio adesso, riesco a pensare a pensare a qualcosa.
ho deciso: il prete non può più entrare. Dio padre figlio e spirito santo non lo rendono libero dai batteri. o si lava e si copre, si mette come noi camice copriscarpe e cuffia o non può più entrare. devo dirlo a Marco: liberiamoci da questo peso, diciamo al prete che Sara guarirà anche senza di lui.
questa presenza questa presenza mi soffoca, mi sento avvilita umiliata mi sento in colpa perseguitata, io non credo che Dio c’entri c’entri qualcosa con Sara con questo tormento, non credo che pregare ci aiuterà davvero. esser guardata in quel modo con lo schifo negli occhi una madre snaturata senzadio lo so lo so che pensa questo, ma io non ci voglio andare a messa e non voglio pregare e non voglio pensare che Dio ci sarà di meno per questa ragione. e soprattutto non voglio che veda Sara senza camice senza copriscarpe e senza cuffia come se questo fosse giusto normale naturale come se Dio padre figlio e spirito santo fossero lì al posto dei batteri.
Sara guarirà lo stesso senza le sue preghiere, e anche prima senza i suoi batteri. dobbiamo dirlo al prete, Marco: con noi non ci può più stare.

forse ci scriverò un romanzo, ancora non lo so. so che sarà dedicato alle donne e agli uomini che combattono contro il cancro.

il mio aneurisma e i tempi della sanità

In queste ore questo blog e la storia del mio aneurisma sono oggetto di un articolo/intervista di Antonello Cassano su Repubblica Bari. Cosa è accaduto e che cosa ho detto, in dettaglio, al giornalista (che ovviamente ha dovuto sintetizzare)?

Il 21 marzo 2016 alle ore 14.45 circa ci siamo incontrati in corridoio, al piano terra dell’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce, dov’ero per il mio controllo periodico nel reparto di Neuroradiologia. Antonello mi ha chiesto di commentare tempi e organizzazione dei controlli specialistici.

Gli ho chiesto prima di tutto per che testata lavorasse, quale fosse il suo nome. Forse l’ho spaventato. Mi sono fidata.

Gli ho raccontato questi fatti:

  • in occasione di due risonanze magnetiche di controllo (con e senza contrasto), effettuate nel novembre 2014 circa tre mesi dopo l’operazione di embolizzazione, i medici indicano sul referto la necessità di un nuovo identico controllo sei mesi dopo;
  • all’inizio di aprile 2015, convinta d’essere nel giusto margine di tempo, vado in reparto e chiedo informazioni su come prenotare le nuove risonanze;
  • l’infermiera dell’accettazione del reparto mi fa presente che è impossibile ottenere l’esame specialistico con così poco margine, perciò mi consiglia di passare attraverso l’Alpi (Attività libero professionale intra moenia), perché altrimenti l’esame sarebbe stato possibile in circa un anno;
  • non potendo permettermi di far slittare così tanto il controllo, vado allo sportello Alpi e in cinque minuti ottengo di fissare i controlli per maggio 2015 dietro un pagamento di oltre 300 euro;
  • in occasione del controllo (andato bene) di quel maggio 2015, sul referto i medici consigliano un nuovo controllo l’anno successivo;
  • chiedo subito al medico curante la ricetta, nel giugno 2015 vado al Cup (Centro unico di prenotazione) e ottengo che le risonanze vengano fissate, appunto, per il 21 marzo 2016;
  • ecco quindi che, con meno di 50 euro, posso effettuare i controlli nei tempi giusti e pagando una cifra ragionevole.

Così ho imparato a gestire la burocrazia, evitando che la burocrazia gestisca me.

Sarebbe necessario secondo me:

  • informare meglio e in dettaglio i pazienti sia sullo stato di salute che sui passaggi burocratici: ho dovuto e devo troppo chiedere e insistere per capire cosa succede, cosa è consigliabile e cosa non lo è, che cosa mi serve e che tipo di richieste devo far fare al medico; ho sempre la sensazione d’esser lasciata sola a districarmi in tutto; i pazienti sono persone e vanno presi in carico completamente;
  • diminuire i passaggi burocratici (che come paziente non capisco perché sono tenuta a conoscere): per esempio se in reparto dicono che serve un controllo annuo, perché questo controllo non può essere fissato automaticamente, e nei tempi giusti, senza passare nuovamente dal medico curante e senza sperare in una data utile per le specifiche esigenze?
  • ottimizzare l’uso delle risorse: perché nello stesso reparto pago con Alpi e faccio un esame in 15 giorni, pago il ticket e lo posso fare in un anno?, la differenza è incomprensibile, c’è qualcosa che non quadra.

Che ne dite?

[Never give up, never!]

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