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sputare [sempre meglio] su Hegel

“La differenza per le donne sono millenni di assenza dalla storia” è una citazione tratta da “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi, un classico [femminista. Lo metto tra parentesi perché è – o dovrebbe essere – un classico e basta. È del 1970]. Nella premessa al volume che contiene questo e altri testi, firmati da Lonzi personalmente o collettivamente con le donne di Rivolta Femminile, l’autrice spiega di averlo scritto perché

rimasta molto turbata constatando che quasi la totalità delle femministe italiane dava più credito alla lotta di classe che alla loro stessa oppressione.

Questa citazione è una di quelle inserite tra le luminarie allestite per la sfilata cruise di Dior: l’altro giorno milioni di persone in tutto il mondo l’hanno vista online in diretta da Lecce, la città dove vivo. Questo il video integrale.

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Dior Cruise 2021 show from Maria Grazia Chiuri in Lecce (Puglia, Italy).

Due [ovvie, ma non si sa mai] precisazioni, prima di continuare:

  1. Tutto quello che scriverò non vuole essere un’esegesi della performance collettiva orchestrata dalla direttrice creativa della maison francese, Maria Grazia Chiuri. Si tratta di mie opinioni e interpretazioni. Personali. Che nascono dall’interesse per quest’artista.
  2. Cercherò di procedere, come posso e come riesco, integrando in modo chiaro alle valutazioni generali alcuni riferimenti particolari, cioè che hanno a che vedere con il Salento. Perché ci vivo, quindi inevitabilmente la mia storia personale influenza la mia percezione.

Cominciamo.

Le modelle che hanno indossato gli abiti della collezione cruise 2021 ideati da Maria Grazia Chiuri [la quale, nell’incontro con la stampa che ho potuto seguire, ha tra l’altro chiarito di lavorare con un ufficio stile di 80 persone, oltre che ovviamente all’interno di una più complessa organizzazione aziendale], hanno sfilato in piazza Duomo. È chiusa su tre lati. Oltre all’ingresso principale, chi la conosce sa che un’altra “via di fuga” è solo attraversando la cattedrale. Bisogna entrarci e, inevitabilmente, passare “davanti” all’altare. La piazza è stata allestita come in una delle feste delle nostre, quelle dei santi patroni, circondata da luminarie e con, al centro, una cassa armonica, un palchetto anch’esso con luminarie dove ancora si esibiscono le “bande”. Dietro le luminarie i “monumenti” non scomparivano, si vedevano bene – tra l’altro – la sommità della facciata laterale del duomo con lo stemma della curia e, dietro la citazione di Lonzi, il “seminario vecchio”, come lo chiamiamo [ce n’è un altro “nuovo”, in periferia].

Per la progettazione di questo set, Chiuri ha coinvolto l’artista femminista Marinella Senatore. La sua viene definitiva giustamente “pratica artistica”, anche perché coinvolge “intere comunità intorno a tematiche sociali e questioni urbane quali l’emancipazione e l’uguaglianza, i sistemi di aggregazione e le condizioni dei lavoratori”. In un’intervista ad Artribune del novembre 2019 (questa: https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2019/11/intervista-marinella-senatore-stati-uniti/), Senatore spiega secondo me molto bene come lavora, cos’è la sua “School of Narrative Dance” e perché usa il termine “processione” per definire le sue performance.

Il che ci riporta alla sfilata, alla “processione” di modelle e alla danza che l’accompagnava [con il corpo di ballo della Fondazione La Notte della Taranta sulle note dell’orchestra diretta dall’attuale maestro concertatore Paolo Buonvino]. La coreografia – un mix ispirato alla pizzica, alla pizzica tarantata, alla danza delle spade – è stata curata da Sharon Eyal. Certo, forse è apparsa un po’ troppo sofferente, ma d’altra parte Chiuri ha detto chiaramente di aver studiato e fatto riferimento a “La terra del rimorso” di Ernesto De Martino, che è di fatto l’origine di tutto il “recupero” di questa “tradizione” per la quale il Salento è oramai piuttosto conosciuto [non solo in Italia]. Una donna a cui ho voluto un gran bene, purtroppo morta troppo giovane, mi diceva sempre che ballare la pizzica era per lei liberatorio. Liberatorio. Stiamo parlando della fine degli anni Novanta del Novecento, e non era stata morsa da alcun ragno, ovviamente.

Negli abiti erano evidenti i riferimenti ai colori, alle forme, ai manufatti, agli usi tipici di un territorio che, lo ricordo, è quello di origine del padre di Chiuri [che era di Tricase, ed è poi emigrato molto giovane]. Uno degli accessori che ha colpito di più è stato il fazzoletto ricamato usato a mo’ di copricapo, una reinterpretazione di qualcosa che personalmente ho visto solo in vecchie foto ma che amiche mi hanno detto di ricordare addosso alle proprie nonne. E ancora, diversi abiti sono stati realizzati con le stoffe che hanno intessuto le tessitrici della Fondazione Le Costantine [il cui motto, amando e cantando, è finito sul retro di alcune gonne], altri avevano dettagli realizzati al tombolo [è stata coinvolta la “nostra” Marilena Sparasci], i fiori di altri ancora non erano i classici dei “giardini Dior” ma quelli che si vedono nelle nostre campagne e spesso lungo le nostre strade.

Nel nostro incontro, Chiuri ha rivelato tra le altre cose che, pur di realizzare un abito che avesse delle rose realizzate al tombolo, sarebbe stata disposta a sacrificare qualcuno dei pezzi che fanno parte del suo “corredo”, e che con questo stile vorrebbe progettare l’abito da sposa di sua figlia. Sua figlia si chiama Rachele Regini, è dottoranda in gender studies e lavora con lei per “studiare come incorporare le sue idee sul femminismo e le donne all’interno delle collezioni e della sua visione del brand”. Parole sue, traduzione mia. Qui sotto il video in cui lo spiega.

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Ma soprattutto in quell’incontro Chiuri ha detto che ciò che viene realizzato al telaio o al tombolo [come pure le luminarie, ma in un altro contesto], va considerato una “espressione artistica”, non un “lavoro domestico femminile”. Non siamo davanti a qualcosa di originale. La mia non è una critica, anzi sto dicendo che secondo me la direttrice creativa di Dior conosce molto bene chi è, da dove viene e il suo personale/politico, e che ha studiato. Questo svilimento dei domestic handicrafts è già stato ampiamente denunciato dalle artiste e studiato dalla storia dell’arte.

https://www.instagram.com/p/CCYOsx5Kdlm/

Sono stata un po’ lunga. Scusate. Giungo a conclusione [tralasciando altri dettagli].

Io credo che Maria Grazia Chiuri sappia sputare su Hegel, che lo sappia fare molto bene, che sia se stessa e che usi liberamente gli strumenti che ha. E parlo di mezzi economici ma non solo.

I “corredi”, quelli che tante di noi hanno ancora, potremmo usarli per farci abiti di ottima qualità ed eterni. Gli orecchini e altri gioielli indossati dalle modelle, ispirati a pezzi custoditi nel museo MArTA di Taranto, ce li potremmo costruire, lo fanno già alcune giovani artiste che conosco. Chiunque di noi può essere una “guerriera saracena” – come hanno definito il “modello” ideato da Chiuri per questa collezione – indossando lunghe gonne e corsetti che non stringono più, stivali e sandali, capotti che ci possiamo dipingere da sole, ma soprattutto usando la nostra arte. Agendo. Appropriandoci del nostro passato [in senso collettivo, di donne]. Lavorando per affermare la nostra idea di mondo, condividendola con donne e uomini che la pensano come noi e occupando – con “leggerezza” [so che posso evitare di precisare l’accezione in cui uso la parola] – i luoghi del patriarcato.

Chiuri lo fa nel suo lavoro. Lo ha fatto a Lecce come lo aveva fatto in altri luoghi e contesti. E il marketing fa parte del suo lavoro [del lavoro di Dior], è una leva per vendere. Trentamila lampadine sulle luminarie, Giuliano Sangiorni che canta Modugno e il video di Winspeare col pasticciotto fanno parte di questa leva, in una dimensione globale in cui bisognava anche “giocare” con l’immagine dell’Italia, della Puglia e del Salento. E questo gioco servirà anche, ne sono più che certa, all’economia dell’Italia, della Puglia e del Salento.

[inciso] Il paragone è azzardato, ma pure io quando ho ideato “messinscena d’affanni” e ho coinvolto artiste/i che apprezzavo, volevo [anche] vendere i miei libri. E ne avrei venduti volentieri molti di più, naturalmente! [sto ridendo].

Può piacere o meno, quel che personalmente trovo interessante è che Chiuri sia un’artista femminista che si muove molto bene nello spazio che si è conquistata. Una donna che non chiede il permesso, che non chiede scusa, che non si sente in colpa, che non vuole piacere per forza, che progetta le sue opere avendo un’idea forte di sorellanza e amando la sua storia, personale e collettiva, e puntando sulla bellezza che molte/i di noi condividono.

Il “progetto” della sfilata mi è piaciuto per questo. Mi è piaciuto molto. Per farla breve, per un messaggio che sintetizzo così:

Amiche mie!, sputiamo [sempre meglio] su Hegel. Be brave, stay feminist and never give up!


La foto di Maria Grazia Chiuri è mia, gliel’ho scattata nel corso dell’incontro con la stampa a Lecce, il 21 luglio 2020.

ogni sbaglio è un nuovo pinto

Ero all’incontro con la stampa nel quale Chiuri – presente il sindaco Carlo Salvemini – ha raccontato il suo “progetto”, non una semplice presentazione d’abiti, né un “evento”, piuttosto una performance che anche questa volta è “collettiva”: potremo vederla domani online (la sfilata è “chiusa” per le ovvie misure anti-Covid), alle 20.45 in diretta da Piazza Duomo (link: https://www.dior.com/it_it/moda-donna/sfilate-pret-a-porter/collezione-cruise-2021). Credo che l’incontro fosse stato organizzato per “chiarire” alcune “questioni” che in questi giorni hanno tanto… appassionato alcuni mei conterranei. Tipo: le luminarie stanno bene in piazza Duomo?, una sfilata di moda non offende Dio in piazza Duomo? E altre faccende del genere, nelle quali non mi addentro perché Chiuri e questa sfilata mi interessano per altri motivi.

Da quando è in Dior, seguo con interesse il lavoro di Chiuri, ma la moda c’entra poco. C’entra invece il gusto di rintracciare i suoi riferimenti – quali artiste cita, quali coinvolge, o approfondire le sue iniziative – un talk sul femminismo o un progetto per lo sviluppo locale, nel contesto di un lavoro che ha una ribalta mondiale e che parla di femminismo come fosse la cosa più naturale del mondo. Roba che – converrete – per un’italiana (intendo: io) non è una banalità. Dopo la famosa maglietta con la scritta “We Should All Be Feminists” che citava Chimamanda Ngozi Adichie, mi ha letteralmente conquistata lavorando con Judy Chicago.

A Lecce, per la cruise, ha coinvolto l’artista femminista Marinella Senatore, alla quale ha fornito, più che un set, un palcoscenico: viene definita a multidisciplinary artist whose practice is characterized by a strong participatory dimension and a constant dialogue between history, popular culture and social structures. E in questa dimensione di partecipazione sono entrate le luminarie dei fratelli Parisi, i tessuti realizzati dalle tessitrici della Fondazione Le Costantine e la perizia al tombolo di Marilena Sparasci, l’orchestra e il corpo di ballo de La Notte della Taranta assieme all’attuale maestro concertatore Paolo Buonvino e molto altro di cui pian piano vi racconterò. In un video firmato dal regista Edoardo Winspeare, da poche ore pubblicato sui canali social di Dior, un mega spot della città (dell’altro mega spot firmato Chiara Ferragni parlerò poi, promesso).

Nell’incontro Chiuri ha parlato di sé con grande emozione: di suo padre, sua madre e sua figlia, di una zia che – guarda caso – lavorava nel castello dei Winspeare a Depressa (una frazione di Tricase, dove il regista vive ancora), della gratitudine che prova per aver potuto imparare il mestiere a contatto con i fondatori delle aziende di moda – le sorelle Fendi e Valentino, e di quella per Dior che l’appoggia nel suo percorso, della sorpresa della stampa per il suo incarico francese, della bellezza e dei talenti dell’Italia che desidera promuovere e valorizzare. Tutte cose che, in qualche modo, troveranno sintesi nella sfilata di domani, per la quale ha ringraziato della collaborazione tante delle persone coinvolte. A cominciare dal sindaco e dal vescovo. Il sindaco. E il vescovo.

“La sua narrazione femminista sfilerà di fatto nel cuore del patriarcato. Lo ha fatto apposta?”, le ho chiesto. Ha sorriso e mi ha risposto di no. Mi ha risposto che – come io stessa avevo premesso alla domanda – essere femminista per lei è “naturale” (sintesi mia): per i suoi genitori era “solo Maria Grazia”, e il femminismo inteso nella sua dimensione internazionale farà il bene dei nostri figli.

Ogni sbaglio è un nuovo pinto, aveva citato qualche minuto prima parlando della tessitura al telaio: alle Costantine le hanno fatto notare che ogni errore è un nuovo punto da cui partire, e dal quale magari potrà venir fuori un disegno originale e inaspettato. Un’idea che mi piace condividere, assieme alla descrizione di quest’altra scena: mentre le campane di sant’Irene interrompevano l’incontro e qualcuno quasi se ne scusava (eravamo nel chiostro dei Teatini, proprio accanto alla chiesa), Chiuri alzava gli occhi al cielo e sorrideva commossa.

E ora vediamo che succede domani.

Nelle foto (mie), alcuni momenti dell’incontro con la stampa.
Il profilo IG di Maria Grazia Chiuri: https://www.instagram.com/mariagraziachiuri/

una carota bellamente intagliata. sul Leonardo in cucina di Maurizio Raselli

Le curiosità, gli interessi, le intuizioni, ma anche l’umanità di un genio che è stato pur sempre figlio del suo tempo sono stati al centro della giornata di studio “Leonardo dall’Officina alla Cucina”, organizzata all’Università del Salento come appuntamento del ciclo di iniziative “Leonardo Da Vinci e la Puglia, tra passato e futuro” promosse per il cinquecentenario della morte dell’inventore, artista e scienziato italiano. L’iniziativa è stata curata dai professori Giulio Avanzini e Paolo Bernardini, del comitato scientifico delle celebrazioni che hanno visto lavorare assieme l’Accademia Pugliese delle Scienze, l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, il Politecnico di Bari, l’Università del Salento, l’Università della Basilicata, l’INFN – Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il Museo Leonardo da Vinci di Galatone (Lecce), Sitael SpA e l’Autorità Portuale di Bari. Il 7 giugno 2019, nella sala conferenze del Rettorato, si è parlato di idraulica, macchine, osservazione dell’infinitamente piccolo e, appunto, di cucina, una delle passioni meno note di Leonardo, sulla quale si è soffermato Maurizio Raselli, “cuoco e piemontese, in quest’ordine”, come ama definirsi.

Maurizio, per parlare di Leonardo proviamo a partire da te. Il tuo ristorante, 3Rane a Lecce, lo racconti come l’approdo di un lungo peregrinare alla ricerca di te stesso. E il nome di questo approdo è ispirato alle esperienze culinarie del Genio. Perché?
Sarebbe bello, forse, raccontare di come possa essere stato illuminato dalla creatività di Leonardo, ma pure se così in qualche modo può esser stato, di certo il lato del Genio che più ci ha entusiasmato è stato quello strettamente terreno, più umano diciamo, meno idealizzato. Il fatto che la leggenda, sotto forma dell’irraggiungibile Codex Romanoff, racconti dell’esperienza di un giovane Da Vinci alle prese con le dinamiche che ben conosciamo alla taverna delle 3 Rane sul Ponte Vecchio a Firenze ci ha fatto sorridere, e forse sentire meno soli. Come dire, nel caso dovesse andarci male, beh potremmo sempre ripiegare sull’Arte (si riferisce, oltre che a se stesso, anche alla compagna Dodo, “partner concettuale” del progetto di ristorazione, ndr).

Leonardo è una delle tue fonti di ispirazione? Il limite tendente a infinito irraggiungibile ma necessario per darsi ogni giorno nuovi obiettivi?
A volte risulta difficile trovare l’origine di un’ispirazione. Alcuni piatti saltano fuori dalle mani come se fossero sempre esistiti, per altri invece il processo è più lungo e macchinoso. Certo quello su cui si può sempre contare è l’ispirazione concettuale, il filo rosso che dovrebbe legare ogni cosa che ruota intorno all’idea di ristorazione che ci si propone. In questo senso l’idea di Leonardo è stata fondamentale.
Dopo anni spesi nella ristorazione cosiddetta di lusso, il fine-dining tanto celebrato e oramai svuotato di ogni dignità, c’era qualcosa che non permetteva al mio meccanismo interiore di scorrere libero. Serviva un punto di rottura. Qui è dove si colloca il genio di Leonardo nel nostro sistema concettuale. A Lecce esisteva da sempre il cibo tradizionale, preparato con più o meno onestà, così come la ristorazione di alto livello. A noi è interessata l’idea di dare a tutti la possibilità di poter godere di un piatto cucinato con competenza a un prezzo trasversale. Così sono nate le 3 Rane, una trattoria gourmet, un piccolo rifugio per amanti del cibo e del vino lontano dall’apparire e dagli stereotipi. Solo piccoli produttori, zero grande distribuzione, vini naturali, contatto diretto e quotidiano con la materia, ambiente informale ma curato, alleggerito. La rottura che vede Leonardo protagonista nella storia del pensiero è stata, con le dovute proporzioni, ispirazione per il nostro concetto trainante di accessibilità.

Per il tuo intervento all’Università del Salento sei partito da un libro che hai raccontato esserti molto caro: “Note di cucina di Leonardo da Vinci”, di Jonathan e Shelagh Routh (edizioni Voland, 2005). Come l’hai scoperto e perché ti ha colpito così tanto?
Immagina una piccola casa, sviluppata in altezza, su tre piani minuscoli con il Mar Ligure che sbatte forte le onde quasi contro i vetri delle finestre. Siamo a Pegli, un minuscolo paesino appoggiato per sbaglio allo sdraiarsi di Genova, dove ho vissuto per anni. Immagina ogni centimetro di questa casa ricoperto di libri, e un pianoforte. Immagina una cucina piccolissima dove sempre qualche capolavoro era in procinto di nascere. Era la casa di Clara e Lello, iperattiva meraviglia lei, grandissimo cuoco lui, come solo un appassionato gourmet può essere. Non uno chef, sia chiaro. Un cuoco. I genitori della moglie di mio fratello, una casa che ho molto frequentato.
Un pomeriggio, tra le migliaia di titoli, ho visto il libriccino. Non ho smesso fino all’ultima riga. Leonardo da Vinci era un uomo. Non una divinità scesa dall’Olimpo, un’Idea astratta e inafferrabile. Passioni, e soprattutto errori. Il genio al servizio del quotidiano, le altitudini del pensiero piegate alle esigenze di tutti così come parti del mondo vero. E poi simpatico, reale. Questo cambio di prospettiva ha scardinato in me, come mille altre volte è successo, un dogma pre-esistente. L’infinitamente grande è anche infinitamente piccolo, come in alto così in basso, come più tardi ho appreso dalla filosofia ermetica. Quella è stata la scintilla. Ci sono voluti più di 10 anni, ma ora cerco di ricordarmelo ogni giorno.

Nella tua relazione era evidente una grande emozione, assieme a un sincero schermirti per essere tra tanti accademici che, al contrario di te, erano in quel momento nel “loro” ambiente. D’altra parte definisci le tue 3Rane come un “ristoro” che propone “cucina artigiana di ricerca”. Insomma, qualche punto di contatto con il mondo dell’università è evidente. Come è arrivata la proposta a intervenire del professor Giulio Avanzini? Cosa ti ha entusiasmato di più dell’idea?
Era difficile non farsi coinvolgere dall’entusiasmo del professor Avanzini. Lui ha dato davvero molto per la riuscita delle giornate leonardesche. Abbiamo un’amica in comune che ha fatto da filo conduttore attraverso le nostre passioni. Oltre la cucina e la mia famiglia, non necessariamente in quest’ordine, ho sempre amato leggere. Si può dire che io sia un piccolo lettore compulsivo, leggo di tutto, da sempre, e appena posso. Mi capita spesso di leggere più libri in un giorno solo, iniziati e finiti, a patto di averne il tempo.
Ho un diploma classico e una laurea in Scienze della Formazione, ma cerchiamo di capirci: sono sempre un cuoco, mediocre per giunta, non un accademico. La proposta di Giulio mi ha lusingato e certo anche un poco preoccupato. Sono avvezzo a parlare in pubblico, nei miei viaggi ho spesso affrontato grandi situazioni sociali in cui mi si chiedeva di intrattenere, anche in inglese, diverse persone. Ma l’argomento era sempre la cucina, la mia cucina. Più comfort di così… invece l’idea di affrontare un tema con un così alto profilo mi ha imbarazzato. Confesso di aver vissuto il mio intervento piuttosto male. Mi sono sentito impacciato e fuori luogo. Certo finché il calore dei professori coinvolti non mi ha sostenuto. Di questo conservo un meraviglioso ricordo, e un grande senso di supporto. Del resto aiutare le menti a evolvere credo sia uno dei traguardi dell’Università.

Tra i piatti consigliati della tua cucina leggo “Ravioli del plin ripieni di fegatini di pollo, sedano rapa in crema e bollito, battuto di podolica pugliese”. Ma Leonardo non era vegetariano? Scusami la battuta, mi interessa parlare del tuo approccio alle materie prime.
Beh, se l’alternativa fossero le folaghe molto frollate o i testicoli di montone al latte credo che considererei l’alternativa vegetariana anch’io… o forse almeno per la colazione, venerando da piemontese ogni singola vena di grasso della carne ben marezzata! A parte le battute, si discute ancora sull’etica alimentare di Leonardo. Non credo fosse completamente vegetariano, almeno non nella concezione moderna del termine dove il Principio viene sempre più spesso posposto rispetto alla moda. Certo amava il bello e il buono, in ogni loro forma, dunque credo non amasse il cruento attimo proprio della macellazione ma era sempre un uomo del XV secolo. Il sangue era piuttosto comune, certo più del tofu.
L’ingrediente esige rispetto, competenza e tecnica, oltre a un’immensa dose di amore.Conosco macellai che amano in un modo viscerale le bestie che poi diventano il medium del loro lavoro. Persone spinte da un’etica integerrima, che offrono più amore agli animali che sanno poi se ne andranno, perché questo è quello che sono, di quanto non facciano vegetariani di ora che magari non mangiano il pesce ma ostentano cinture di pelle di vitellino senza nemmeno soffermarsi sul significato delle parole. Dignità e coerenza sono sempre più importanti, nella scelta dell’ingrediente, del piatto e nella vita in generale.
Io conosco personalmente tutte le persone che aiutano la natura a produrre ciò di cui mi servo per cucinare. Conosco chi spreme le olive per il mio olio, chi pigia l’uva per i vini che amo, chi zappa la terra per le verdure che compro e chi macella gli animali che cucino e mangio. L’ingrediente principale è l’etica del cuoco.

Le recensioni sulla tua cucina e il tuo ristorante dicono di una capacità di tenere assieme gli opposti – lato cucina – e di una grande gentilezza e ospitalità – lato accoglienza. Come sei arrivato a questa formula? A guidare ogni passo sembra essere essenzialmente la tua personalità.
Anthony Bourdain scriveva che le cucine tendono ad assomigliare agli chef che le guidano. Credo sia una grande verità estesa poi al ristorante tutto, se il cuoco è anche il gestore o il proprietario della struttura. È vero, le 3 rane mi assomigliano, moltissimo. C’è molto di imperfetto, ma non di lasciato al caso. L’idea della perfezione occidentale è un concetto limitante. Lo scintillio preconfezionato da discount della creatività. Il perfetto non include il suo opposto, il manchevole. L’imperfetto è necessario. Le crepe delle porcellane in Asia valgono più dei vasi stessi, perché li rendono vivi, con una storia. Da noi questo problema non si pone. Le 3 rane sono un bel posto, ma restano un’osteria, una trattoria. Dove l’oste o il trattore sono quelli che decidono, ma che anche mettono in gioco tutto il loro essere.
Io ho costruito il locale, fisicamente. Mi sono costruito da solo i banconi, ho messo io il pavimento, gli impianti, mi sono montato da solo la cucina che era stata lasciata sul marciapiede da uno zelante corriere. Ho disegnato il locale, la cucina. Ho abbattuto pareti e costruite di nuove. Ho dipinto, rasato, avvitato, tolto e messo quasi tutto quello che si vede. Ho sanguinato, fisicamente, ho pianto in alcuni momenti e riso in altri. La mia fidanzata Dodo stava aspettando il nostro bimbo, nato a fine dicembre del 2017 mentre io costruivo il locale. Ci ho messo 5 mesi. Un bambino è nato a dicembre, Martino. L’altro nel marzo successivo, le 3Rane.
Credo che questo abbia influito molto nel creare l’atmosfera di reale identità che ora si respira tra inostri 6 tavolini. Io mi sentirei di consigliarlo a chi dovesse essere così pazzo da ascoltarmi. Costruite il vostro locale con il sangue e il sudore, ogni goccia versata tornerà come nutrimento per la nascita della sua propria identità.

Leggendo la tua biografia sembra che tu abbia lavorato praticamente ovunque. Quali credi siano state le esperienze più importanti, e perché?
Ma no, quale ovunque! È vero, ho viaggiato. Ho sacrificato molto per imparare. Ma molti altri hanno fatto il mio stesso percorso. La vita di uno chef può sembrare folle a chi non è del mestiere. Orari impossibili, fatica sovrumana, calore insopportabile, anni e anni di apprendistato alle corti di chef spesso bipolari, aggressivi, egotici e violenti senza alcuna dignità riconosciuta se non rapportata alla capacità di sopportare tutto questo. Io ho cominciato molto presto: 16 anni, nei fine settimana, quando magari il sabato mattina sarei stato interrogato al Liceo nell’ora di Greco, la sera prima stavo lavando bicchieri alle due di notte. La cosa strana è che non lo facevo per necessità. La mia famiglia ha sempre provveduto ai miei bisogni di ragazzo. A volte addirittura mentivo per andare a lavorare. Forse sono sempre stato cosciente del processo di costruzione della mia competenza. Sapevo di dover sacrificare.
Poi l’Europa, l’Inghilterra e la Scozia, le Maldive, l’India, la Russia, in Siberia… più di dieci anni di solitudine e ricerca di qualcosa. Ogni esperienza è stata propedeutica a quella successiva. Ora sono un cuoco, è vero, ma soprattutto sono un marito e un padre. Ringrazio ogni istante di solitudine e sacrificio se mi hanno permesso di guardare dormire il nostro bambino la notte, quando rientro.

Lecce è il tuo approdo e la tua base. L’amore è la tua guida in ogni scelta, in cucina come nella vita? Quali progetti hai per il futuro?
Il rapporto tra la mia compagna e me è basato su una reciproca comprensione, una grande complicità. Ci assomigliamo molto, anche se lei non lo ammetterebbe mai!Entrambi con radici solide, ma anche con rami aerei, per così dire. Lecce è il presente, il futuro verrà da sé. A me basta stare con loro, poi il mestiere è nelle mani come dicono i Maestri.
Se ho cucinato un risotto per Sua Maestà Luminosa il Re del Ladack, nel palazzo reale di Leh, al confine tra Himalaya e Cina, su un buco in terra dove avevo acceso un fuoco con le sterpaglie trovate in terra, a quasi 3500 metri di altitudine sotto una tempesta di pioggia dell’autunno del Karakorum, credo di poter, ripeto credo, cucinare qualcosa quasi ovunque. Per ora, però, il presente ha ancora molto da dare.

Consigliaci un menu leonardesco da provare, magari, proprio nel tuo ristorante.
Menù leonardesco? Riporto quello che Leonardo, allora maestro di cerimonia alla corte degli Sforza, propose a Ludovico il Moro in occasione di una festa tenutasi in onore di una nipote del Signore:
un involtino d’acciuga in cima a una rondella di rapa scolpita a mo’ di rana
un’altra acciuga, avvolta attorno a un broccolo
una carota, bellamente intagliata
un cuore di carciofo
due mezzi cetrioli su una foglia di lattuga
un petto di uccello
un uovo di pavoncella
un testicolo di pecora freddo alla panna
una zampa di rana su una foglia di tarassaco
uno stinco di pecora cotto sull’osso
…e io, piccolo cuciniere ignorante, che mi ostino a fare i ravioli!

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino” (settembre/ottobre 2019)
la foto di Maurizio Raselli è di Sonia Gioia (per gentile concessione)

Lecce adagio

La città vecchia s’apprezza meglio in bicicletta evitando le vie principali, pedalando si può scorrere il presente dentro la storia, l’alternarsi di luci e ombre, la vita dietro grate e finestre, il bucato steso negli angoli, gli odori etnici accanto alle polpette.

Il momento perfetto è subito dopo la pioggia, ché i leccesi fuori dalle mura la intasano d’auto ma dentro la lasciano praticamente deserta. Su due ruote bastano dieci minuti per spaccarla, ma anche per rischiare di spaccarsi qualcos’altro, per cui conviene alternare l’ammirazione per i balconi e le chiese barocche [e questa città che cambia raccontando invece d’essere sempre la stessa] all’attenzione per quel che accade sotto le ruote: sulle stradine s’alternano basolato antico, vecchio e finto-vecchio, nuovo bocciardato, asfalto rattoppato.

A Lecce procedere adagio. Grazie.

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