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Michela la Lupa

[Avvertenza. Questo non è uno scritto sull’autismo. Questo è uno scritto su Michela. Michela Del Tinto.]

Michela si firmava Mollaian quando l’ho conosciuta, scura e riccia, oppure rossa e liscia, oppure bionda e mossa, ma sempre densa e intensa [come adesso], pittrice autodidatta, nata lupa, cresciuta lupa e lupa ritrovata. Avevo diciannove anni, coi soldi messi da parte con le ripetizioni di fisica [fisica, ho scritto fisica, intendevo fisica, sì] ho comprato due suoi quadri. A rate. Non erano accanto quando li ho visti, ma accanto li ho sempre tenuti: uno rosso e uno azzurro, in cornici grezze dipinte degli stessi colori e tenute insieme usando una sparapunti, trattati da tutti con sospetto per anni finché, finalmente, li ho appesi trionfanti al centro della scena quando ho potuto decidere in casa mia.

“Quando ci siamo conosciute avevo un rapporto molto stretto col colore, un rapporto in cui mi sono concessa il lusso di essere primitiva, anarchica, senza disciplina orari e istruzioni. A pelle ti sentivo libera e diretta, non cambiavi con le persone a seconda di chi c’era. Questo di te mi piaceva molto”.

Michela Del Tinto è una lupa e corre coi lupi, Clarissa Pinkola Estés ne avrebbe potuto raccontare, dipingeva e a volte lo fa ancora, vende tappeti orientali col marito lupo pure lui, e dà un nome che non ho mai sentito dare a nessun altro all’universo di suo figlio Teo: lo chiamano “autismo”, lei lo chiama Altrove. Un posto dov’è stata pure lei, racconta, un posto dove forse siamo stati/e in molti/e, dico io.

“Se non la guardi dal punto di vista che è tuo figlio è molto interessante, però è tuo figlio e sei nella merda”.

Teo era piccolo, io me lo ricordo.

“Teo spegneva l’interruttore e io ero sola. Sola. Ero sola e me la dovevo cavare da sola. C’è stato un lunghissimo periodo in cui non avevo mezzi per comunicare con lui, perché il suo autismo di allora non consentiva usuali connessioni. Ne ho cercate altre, ma non sono state sufficienti. E allora, visto che non potevo andare avanti, sono tornata indietro, alla mia parte animale. La Lupa”.

A Michela non piace l’autismo per come lo raccontano, e per come lo trattano le fa schifo. Michela s’è fatta lupa e un altro lupo ha imparato ad allevare provando ad accompagnarlo nell’Altrove, volendo che Teo fosse libero autonomo indipendente, con una dignità sua una dignità normale normalissima, in cui l’autismo è solo “una delle sue caratteristiche, quella neurobiologica”.

“Quando sento dire ‘ragazzi speciali con genitori speciali’ mi sento impazzire, mi sento soffocare. Che significa? Siamo tutti speciali, ognuno a modo suo. E gli autistici non sono più speciali degli altri e non sono tutti speciali allo stesso modo. È un’etichetta più invalidante dell’autismo stesso. Li vedi i ragazzi disabili che vanno a passeggio tutti assieme con gli ‘educatori’? Che pena. Li trattano da deficienti e li fanno guidare da gente deficiente davvero. No, mio figlio mai. Mai l’ho messo in condizioni di essere umiliato, e mai lo farò. Non ha senso farli interagire solo tra di loro, bisogna integrarli nella realtà quotidiana, dalla quale possono apprendere qualcosa. Isolandoli in un contesto protetto rischiano la decrescita, l’involuzione. A scuola, per esempio, i momenti della vera integrazione sono la merenda, l’educazione fisica, l’ora di religione. Bisogna creare una vera, duratura, rete d’amicizie. Non servono mezzi, manca spesso la voglia di sedersi e lavorare”.

Michela-la-Lupa aiuta Teo a far comunicare questo mondo e il suo Altrove, impiega energie straordinarie perché questa comunicazione sia il più possibile paritaria. Perché anche l’Altrove ha una sua dignità.

“Quindici anni di trincea. Sono un canale da cui quotidianamente mio figlio attinge informazioni vitali. Faccio tutto quello che è necessario perché sia autonomo e questo, mentre mi dà la possibilità di offrigli degli strumenti, me ne fa conoscere direttamente l’essenza. Provo spesso stupore, meraviglia, perché in questo viaggio ho modo di conoscere, osservare, studiare, sperimentare e creare continuamente”.

Michela ti guarda ti squadra ti penetra, non ti lascia modo di chiudere le imposte di dissimulare di rimanere sospesa di prendere tempo. O ci sei fino in fondo o ci sei fino in fondo, l’alternativa è scappare. Ma come fai a scappare davanti a quegli occhi quelle labbra quei seni, quel modo di muoversi di ridere di parlare, quella forza potenza energia che vengono fuori anche nel silenzio e nell’immobilità? Quei quadri a diciannove anni m’avevano smosso le viscere e ancora quando li guardo mi guardo dentro, mi ci fotografo davanti e scrivo “periodo rosso” o “periodo blu”.

“Mi frequento per conoscermi bene, vivo molto intensamente la mia vita sia in discesa che in salita. Credo nella legge dell’attrazione, bisogna prendere quello che fa bene. Adesso è molto facile, tutti vogliono bene a Teo, ma io ho il cuore in riserva e l’anima che non parte. Ci sono dei limiti che vengono superati troppo facilmente, e che invece devono essere rispettati, come quelli di tutti”.

Michela s’è fatta Lupa e ha recuperato l’istinto. Sull’istinto s’è basata e ha fatto quello che ha creduto capito voluto. Lo fa ancora, e nel seguire quell’istinto che le ha “salvato la vita” si incazza risponde spiega insiste. Lo fa anche quando sembra inutile assurdo improduttivo.

“Mi hanno detto che era autistico, io l’ho guardato e gli ho detto: noi ce la caveremo, ma ti farò il culo. Ho fatto così. Ho letto tutto, so cosa dice la scienza, ma devo la mia vita agli scrittori, non ai medici. Niente psicofarmaci per Teo, niente schifezze. Non parlo in generale, parlo della mia esperienza personale: non sono tutti uguali. Non esiste un’‘autistica persona’, ci sono ‘persone autistiche’. Devi conoscere bene tuo figlio, e per conoscere tuo figlio devi conoscere te stesso. A quattro anni volevano sedarlo, ma noi volevamo prima conoscerlo. Non devi delegare, devi essere in prima linea come genitore, usare la scienza nel modo più adatto al caso specifico. Ecco perché dico che devo la mia vita agli scrittori, non ai medici. Gli stimoli emotivi che m’hanno ispirato salvato guidato sono venuti dalla letteratura”.

L’autonomia di Teo.

“La sua autonomia è la mia priorità assoluta. E la vedo all’orizzonte, albeggia, cresce in proporzione alle risorse che pian piano scopre di avere, che acquisisce di giorno in giorno”.

No, non si preoccupa del dopo-di-noi.

“Come fai a occuparti del dopo-di-noi se non conosci cosa accade mentre-noi? Io non sono concentrata sul mondo, io sono concentrata su Teo”.

Non ho voluto leggere un granché sull’autismo, non prima d’aver scritto di Michela. Michela che una volta al telefono con Teo s’è fatta una risata: “I calzini sono nel tuo cassetto. Senti, ma che vuoi da me?”. Molta tenerezza ma nessuna indulgenza, molta comprensione ma nessuno sconto. Tutte le madri di uomini dovrebbero puntare all’autonomia.

“I prossimi saranno anni cruciali. Seguiremo lezioni di teatro. Basta vocine acide poco attraenti. Dizione, postura. E poi danza. Dev’essere un uomo attraente”.

Un programma che consiglierei a tutti gli uomini. Ciao, Michela. Al prossimo caffè, alla prossima cena. “Saluti a tutti. Autistici e non”.

la chiamo Francesca, si chiama Speranza

Neri i capelli neri gli occhi olivastra la pelle lento il parlare pesate le parole, la chiami Francesca ma si firma Speranza. Come a scuola, prima il cognome? No, le piace proprio “speranza”. Speranza Francesca è la sua firma, continua a firmarsi così oltre ogni obiezione. Ferme le mani acuto l’osservare quasi violento lo scattare. Necessario indulgere nella prima sensazione di lievità, così da poter provare con tutto lo spaesamento del caso quanto Francesca sia d’una bellezza abissale: le sue foto ritraggono l’aldilà della realtà. Nata nel ‘78 a Cisternino (Brindisi), ha studiato Architettura d’interni all’Istituto Europeo di Design a Roma e decorazione dell’Accademia di Belle Arti a Lecce, vive e insegna tra il Salento e Mantova. «Utilizza il digitale senza mai abbandonare la pellicola», racconta di sé in terza persona, «continuando a lavorare in camera oscura. Predilige i forti contrasti, sia nella scelta dei soggetti che nella tonalità cromatica della sue fotografia. Ama la sperimentazione, sia nell’acquisizione che nella stampa delle immagini, in alcuni suoi lavori recenti ha proposto installazioni realizzate con stampa d’affissione in grande formato, in cui la fotografia si relaziona con lo spazio e dialoga con l’ambiente». In “Domestic landscapes”, questo dialogo con l’ambiente racconta le donne, l’interiore conflitto dei ruoli, l’ironia che spesso suscita il tentativo di adeguarsi agli stereotipi della femminilità.

La fotografia è il “tuo” mezzo, anzi tu e la fotografia forse siete la stessa cosa. Ma quando hai detto a te stessa: “sono una fotografa”?
Sono curiosa e un po’ nomade, la fotografia si sposa bene con questo mio modo di essere. È sempre stata presente nella mia vita, a livello intimo, domestico. La memoria fotografica mi affascinava, le immagini aprivano nella mia mente sconfinate fantasie. Poi il momento del distacco, quando sono diventata unica responsabile di quello che accadeva sotto ai miei occhi. Ho iniziato a fotografare in viaggio, tra la gente, le cose della mia vita e le cose della vita degli altri. La fotografia è diventata una parte del mio essere, il mio linguaggio e parte del mio modo di comunicare. È fedele compagna e testimone delle storie della mio presente. È trovarmi in situazioni a volte drammatiche a volte inaspettate, e sentire la necessità di usare la macchina fotografica per congelare quel momento. È una passione forte che invade i miei sensi e che mi porta a tradurre in immagini il reale.

“Forza” e “fotografia”. Racconta che legame ci vedi.
Quando si decide di aprire il proprio archivio a qualcuno si sceglie di svelare una parte della propria identità. Questo è rischioso, può non essere inteso oppure criticato. La forza è quella parte del carattere che si deve coltivare per consolidare la propria identità, ciò che ti permette di esprimere con determinazione e senza filtri le costruzioni visive.

Donne e uomini: cosa accade nell’atto del fotografare?
Percepisco differenze in alcune relazioni, vedo sguardi diffidenti. Quando fotografo questa sensazione è più forte. In alcuni contesti la figura di una donna è “fuori luogo”, e lo sguardo degli altri diviene arma inibitoria da cui difendersi. Quando scegli di continuare a fotografare, magari in una situazione pericolosa, oppure drammatica, quell’essere “spudorata” è una trasgressione alle regole di comportamento.

Quali sono le tue fotografe di riferimento?
Difficile tracciare una genealogia esclusivamente al femminile. La fotografia italiana è stata il mio punto di partenza: Gardin, Migliori, Scianna, autori e artisti dallo stile semplice e puro. Poi la fotografia internazionale, quella delle donne: Diane Arbus, Margaret Bourke White, Sarah Moon, Nan Goldin. Poi ci sono le autrici di riferimento: Francesca Woodman, di cui amo la fotografia, lo stile, la scelta dei dettagli e la sensibilità fragile; Ellen Kooi, fotografa olandese che ho scoperto un po’ per caso, in una mostra a Parigi. Nelle sue fotografie ho scoperto un legame forte con il mio linguaggio.

Se dovessi dare un consiglio a te Francesca di qualche anno fa, quella degli “inizi”, quale sarebbe?
Con il tempo ho scoperto che un buon equilibrio e tanta determinazione ti porta a ottenere quello che desideri. Le direi di affermare se stessa senza timore, di essere testarda e di dare il giusto peso alle critiche degli altri. È fondamentale credere nelle proprie capacità e lavorare per ottenere i migliori risultati, ciò che ti circonda spesso ti mette in crisi, ma l’essere in crisi è l’inizio della rinascita.

Che mi dici del confronto con altri “ambienti” artistici, fuori della Puglia?
Non è cosa semplice, è un po’ ricominciare tutto dall’inizio. Ti espone alle critiche, può mettere in discussione il tuo modo di fare e di essere, ma è indispensabile per rafforzarsi e per far maturare il tuo lavoro.

A cosa stai lavorando adesso?
Negli ultimi due anni alcuni eventi hanno cambiato la mia vita. Vivo in Lombardia e mi trovo spesso in giro tra varie città dell’Italia settentrionale e dell’Europa. Il mio essere curiosa e viaggiatrice mi permette di trovarmi in luoghi e in situazioni nuove, a volte border-line. Cerco adesso, al Nord, elementi del territorio con caratteristiche geografiche e antropologiche che soddisfano il mio linguaggio. La serie “Landscapes” si è arricchita di nuovi elementi e di nuove forme espressive. Poi, oltre a continuare a fotografare e cercare nuovi spunti per la mia fotografia, mi concentro sulla post-produzione dell’archivio degli ultimi due anni, per tracciare un percorso omogeneo e coerente della mia ricerca. Continuo a utilizzare il digitale ma, negli ultimi tempi, sono ritornata alla fotografia analogica. Amo lavorare in camera oscura, mi piace la sperimentazione con la luce, l’interazione con i materiali, la sovrapposizione delle discipline, senza regole o cliché. Questo mi permette di portare avanti un percorso puramente estetico, legato al fascino dell’immagine e alla potenzialità del segno.

Claudia bellissima è stata da me

Claudia Bruno bellissima è stata da me, per iosonobellissima.

Ha riempito la mia casa e la mia vita di sorrisi, s’è accorta di certa elettricità, dice che mi ha vista “da vicino”. Vorrei tanto sapere che vuol dire esattamente, ma ho paura a chiederglielo così esplicitamente.

Abbiamo parlato di danze, di uomini, di donne, di politica, di cibo.

L’ho chiusa in casa, tanta l’abitudine a vivere da sola. Non si è arrabbiata per niente: le ho riportato le chiavi correndo sulla bicicletta e ha soltanto sorriso masticando un biscotto.

Siamo state in piazzaduomo e in piazzasantoronzo, ho fatto proprio la… leccese, le ho cantato canzoni sceme, le ho detto di santirene, le ho spiegato quanto siamo assurdi.

Claudia ha molto osservato, ha notato un bel po’ delle mie ossessioni, tipo quella d’avere un contenitore o un posto specifico per quasi ogni cosa.

Le ho raccontato la leggenda del demone piovra e lei, giustamente, ha sintetizzato come tutte: è un polpo.

Vorrei che tornasse presto, anche se ne sono stata pure terribilmente gelosa. Julia l’ha subito amata. Julia ama tutti, direte voi. Non è vero! Ha voluto dormire con lei. Con lei! Ero gelosa, gelosissima! Comunque abbiamo recuperato: Julia ha fatto cento volte le fusa a me e mi sono messa l’anima in pace.

E poi, tornata lì dove vive, Claudia l’ha raccontata così.

cose imparate in tre giorni

la poesia è un’arma spietata, non ti risparmierà
il gallo non canta solo all’alba, soprattutto di domenica
la pietra delle case pugliesi d’inverno ha un odore inconfondibile
i pozzi sono gli antenati dei condizionatori
la neve al nord è come la livella al sud
esiste un porta-cosa, per ogni cosa
una santa ne vale almeno tre
non tutti i binari sono impermeabili
per pregare, puoi suonare i passi in una chiesa vuota
se avete la pressione alta, forse volete uccidere qualcuno
“via delle anime” esiste
zoppicare è tutto tranne che un impedimento nel procedere
la coda è fondamentale
le parole si camminano
il migliore amico della donna è il polpo
la massima espressione della presenza è il silenzio
l’amore per una terra è un indicibile segreto
perdere la carta d’identità in aereo può essere un avvertimento
il rustico leccese dà dipendenza e assuefazione

La amo.

con una risata Gianna di ucciderà

Gianna Greco è stata una delle prime musiciste con cui ho tessuto una relazione significativa. L’ho conosciuta nelle Shotgun Babies, la cui fondatrice – Cristina Cagnazzo – ha lavorato con me alle presentazioni dei miei racconti per due anni.

Gianna ride con tutta la faccia, apre quella bocca dai denti perfetti, ingrossa il petto e, se non hai forza sufficiente, t’uccide con la sua energia piana e strafottente. Se ne frega, Gianna, ha imparato a fregarsene di tutto e di tutti. Ha pianto, l’hanno fatta piangere, se ne frega. Lacca le unghie di rosso o di nero, prende il basso e se ne frega.

Salentina dell’85, formazione classica, laurea in scienze politiche, ha studiato musica da autodidatta e poi canto e basso a livello professionale. Compone, arrangia e suona il basso nelle Shotgun Babies, nei MUFFX e, dal 2012, nel Putan Club nelle sue varie formazioni. Tra queste, con quel mito vivente che è Lydia Lunch. Co-fondatrice dell’etichetta Ill Sun Records, ha suonato anche per Opa Cupa, Mentally Doof e Baye Fall.

«Diciotto anni fa ho cominciato a suonare la chitarra. Credevo di non essere portata per la musica. Il basso è arrivato sette anni dopo. Mi piaceva da tempo, e quando l’ho sfiorato per la prima volta ho sentito qualcosa nello stomaco: lì ho capito che era il mio strumento! Ho sempre avuto un rapporto di odio/amore con la musica in generale e con il basso in particolare. A un certo punto l’ho anche lasciato completamente. Due anni e mezzo senza suonare: mi sentivo incapace e poco portata».

Non ci credo.
«Davvero. Poi, dopo un concerto nato per caso con un musicista che adoravo e tutt’ora adoro – un vero mito per me!, ho ripreso e non mi sono più fermata. Adesso il basso è il mio modo preferito di mettermi in gioco. Con il basso tiro fuori il mio vero carattere».

Parli di François R. Cambuzat, si può dire?
«Ovvio, sì! Certo che si può dire… si DEVE dire!!!».

Ti sento parlare spesso di rabbia. Tu sei incazzata. Con chi? E perché?
«È una rabbia atavica, incrostata da anni di brutte esperienze e di altre bellissime che poi hanno lasciato l’amaro in bocca. Credo che sia più che evidente che attualmente viviamo in un’era… “invivibile”, e che per sopravvivere ci si deve inventare giorno per giorno. Bene. Io invento la mia vita, passo dopo passo, mettendoci tutto quello che posso metterci, a testa alta e senza troppi giri di parole e con tanta rabbia. In particolare con la musica riesco a tirare fuori quello che ho dentro».

Hai un rapporto molto fisico col basso. A me piace da morire. Una volta a un tuo concerto ho riso un sacco perché un amico era sconvolto dalle tue cosce. Diceva: “Le mostra troppo. Perché fa così? Che provocazione è?”. Ho tentato di spiegargli che “provocare” era l’ultima delle tue intenzioni e l’ho invitato a godersi lo spettacolo.
«Ahahah, ti prego presentami il tuo amico! Beh, prima cosa: sul palco sono esattamente come sono nella vita. Non uso pantaloni da nove anni. Gonne, vestiti… solo ed esclusivamente questo. Seconda cosa: no, non è una provocazione. Quando suono so solo di essere me nella versione più felice e soddisfatta, il “guscio” in cui mi trovo è nulla di più che un contenitore. Ogni volta che suono noto con profondo piacere che se durante i primi minuti del concerto molti uomini sono più attenti alle mie cosce che al suono del mio basso, alla fine del concerto hanno dimenticato di avere di fronte una donna».

T’ho coinvolto in iosonobellissima perché penso che tu sia femminista, come me. È vero?
«Dire d’essere femminista per me significa ammettere che c’è un problema, e non mi piace. Invece il problema esiste. Capita di doversi confrontare con gente che senza averti mai sentita suonare crede che tu non sia capace per il solo fatto che sei una donna. Questa è una doppia sfida che, non lo nascondo, mi dà il doppio del gusto. Vivo questo aspetto come un motivo per fare di più ogni volta».

Dovessi dare un consiglio alla Gianna di qualche anno fa, quella degli inizi, quale sarebbe?
«Spacca tutto!!! (ride, ndr)».

Parliamo dell’esperienza internazionale con il Putan Club: cosa ti sta insegnando?
«Forse è ancora presto per dirlo, ma posso provarci. Innanzitutto mi sta insegnando ad avere un rapporto più professionale con la musica, che da due anni è diventato il mio unico lavoro. E poi tanta sicurezza in più. Suonare ogni giorno davanti a migliaia di persone mi ha dato grande soddisfazione e tantissima grinta in più. Quello che mi ha fatto ridere è stato rendermi conto che all’estero sono abbastanza conosciuta. La gente sa chi sono, da dove vengo, quanti anni ho, quali sono i gruppi in cui suono. Che dire… nemo propheta in patria? (ride, ndr)».

Lydia? È un’artista incredibile, una storia dolorosissima. Come si lavora con lei?
«Divinamente bene. Una donna magnifica, con cui è solo un piacere e un onore poter condividere il palco… e poi è maledettamente r’n’r! Quindi l’ADORO!».

Non dai nessun segno di “sudditanza” rispetto a questi grandi nomi.
«Preferisco non dipendere da nessuno. Il mio percorso da bassista deve proseguire e spero migliorare grazie al mio sudore e basta».

Hai un sacco di progetti.
«Sì. Quest’inverno uscirà il disco delle Shotgun Babies sul quale abbiamo lavorato intensamente per mesi. Da qui, tour in Italia e in Europa per tutto il 2013 e 2014. Tra settembre e ottobre 2013 sarò in tour con il Putan Club in Spagna e Portogallo. Faremo un nuovo giro in Italia fino al Libano a partire da gennaio 2014, ad aprile 2014 saremo per un mese tra Cina, Giappone e Vietnam, a maggio ripartiremo per l’Europa dell’Est. Nel frattempo sto componendo pezzi per un mio progetto da sola. Avvertivo l’esigenza di farlo ormai da molto tempo e finalmente ci sono riuscita. Entro aprile 2014 conto di concludere la composizione, in modo da poter organizzare un bel tour per l’autunno 2014… on the road again!».

E poi?
«E poi voglio una casa tutta mia. È il momento».

Rossella e Andrea nelle mani di Margherita Morotti

Margherita Morotti è l’autrice della copertina del mio “rossella e andrea. e Rossella e Andrea”, il racconto che ha vinto Subway-Letteratura 2011 e che continua a spostarsi per l’Italia nelle metropolitane, alle fermate degli autobus, nelle biblioteche e nelle università. Lo trovate in “juke-box letterari” che lo distribuiscono gratuitamente, assieme ad altri racconti, in centinaia di migliaia di copie.

Ventiquattro anni, a 19 a Milano per frequentare l’Istituto Europeo di Design (indirizzo illustrazione/animazione multimediale), un master in corso nello stesso settore, freelance per riviste, fanzine, gruppi musicali ed enti pubblici, Margherita mi ha incuriosito e la ringrazio di aver accettato di svelarmi qualche “retroscena”.

l’illustrazione di Margherita Morotti per la copertina di “rossella e andrea. e Rossella e Andrea”

Raccontami com’è cominciata. Ti hanno chiamato, scritto? Ti hanno mandato il racconto? Premesse, raccomandazioni?
«No, anzi è stato tutto molto meccanico, via e mail. “Sei stata selezionata, questo è il racconto da illustrare”».

In quanto tempo hai letto il racconto? Qual è stato il tuo primo pensiero?
«Non mi era mai capitato di dover illustrare una copertina, quindi l’ho praticamente divorato. La prima parte è stata la mia preferita, e l’intero racconto mi è piaciuto molto!».

Disegnare i personaggi: come e perché?
«Ho ripreso la situazione di stasi centrale di entrambi i personaggi: Rossella nell’atto d’incontrare il suo amante, Andrea in un attimo d’indecisione che precede il suo incontro con la prostituta. Dato che entrambi gli incontri si svolgevano nello stesso palazzo, ma a loro insaputa e su due pianerottoli diversi, ho immaginato una scala a collegarli. Rossella, in quanto amante di un uomo sposato, l’ho immaginata indecisa e circospetta, mentre ancora sale le scale, curva su se stessa e sospettosamente rivolta all’indietro. I capelli rossi e ingombranti servivano a darle visibilità visto che – per questione di spazi – la sua figura è notevolmente ridotta. E poi volevo sottolinearne l’indole passionale. Andrea nervoso, celebrale e poco curato. Conscio della pochezza della sua situazione sentimentale, e colto a sua volta nell’attimo d’indecisione che precede il suo poco sentito incontro. Per l’abbigliamento di entrambi mi sono rifatta alle descrizioni presenti nel testo».

Margherita aveva ideato anche dei bellissimi titoli interni. Il racconto, infatti, è diviso in due parti: “rossella e andrea, cioè dell’acqua e delle rose” e “Rossella e Andrea, cioè dei gerani e delle cose”. Poetici, deliziosi, non hanno trovato spazio nella pubblicazione finale.

i titoli delle “parti” del racconto “rossella e andrea. e Rossella e Andrea”, illustrati da Margherita Morotti ma poi non inseriti nella pubblicazione

Come ti è venuta l’idea dei titoli interni? Perché? E questo stile?
«Mi sarebbe piaciuto sottolineare la suddivisione in due parti del racconto, e dato il piccolo formato dell’impaginazione ho pensato a due grafiche il più possibile semplici, che includessero gli elementi riportati nei due titoli».

Come sono fatti i disegni? Quanto tempo ci hai messo? Quante versioni/revisioni?
«Non avevo molto tempo e, di mio, sono ridicolmente lenta, quindi ho accorciato i tempi lavorando a mano libera su personaggi singoli e texture, e ho poi montato e completato tutto al computer. A metà lavoro c’è stato un problema con l’impaginazione, il che ha portato a una seconda revisione e ovviamente a un giorno di ritardo sulla consegna. In tutto cinque giorni».

Mi conosci solo attraverso il racconto. Che idea ti sei fatta?
«Ironica, acuta osservatrice, amante delle diversità e, dato il finale, indiscutibilmente romantica».

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