Autore: Loredana De Vitis

per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (3/5)

L’operazione è andata bene: l’aneurisma è stato efficacemente embolizzato con due spirali di Guglielmi. La miglior procedura, la più opportuna in un caso come il mio, quello di un “soggetto giovane, in salute, con un’emorragia contenuta [e sottocorticale]”. Una serie di fortune, forse, o forse – almeno per mia madre – il segno di uno sguardo ultraterreno benevolo e protettivo. So che diverse mie amiche e persone a me care, credenti, hanno pregato per me. Le ringrazio infinitamente. Da parte mia, invece, nessuna forma di… misticismo, né in quei giorni né in quelli successivi, ho capito solo che avevo bisogno di sentire per bene lavorare il mio corpo. La presenza della mia famiglia, delle mie amiche e dei miei amici era fondamentale, il sapere medico era indispensabile, ma sentivo chiaramente di poter contare solo su di me. Avevo bisogno di concentrarmi su me stessa, percepire in modo nitido cosa mi facesse stare bene e cosa no: chi sentire o vedere e quando [cioè per molti giorni praticamente nessuno], come e quando muovere la testa [il collo cominciava a sciogliersi], come e quando girarmi su quel letto antidecubito, se insistere perché si sospendesse un certo tipo di antidolorifico che mi faceva sentir peggio.

Rientrata in terapia sub-intensiva con una stretta medicazione nella zona dell’inguine, avevo infatti continuato ad avere un forte fortissimo mal di testa.

  • Tieni la gamba ben stesa.
  • Posso avere del ghiaccio?
  • Del ghiaccio?

Potevo avere del ghiaccio. L’ho messo sulla testa finché ho praticamente smesso di sentirla. L’infermiere era perplesso:

  • Loredana, se tieni così quel ghiaccio finirai col rimbambirti.
  • Se continuo ad avere questo mal di testa rimbambisco lo stesso.

Ho retto così. E con fiumi, appunto, di antidolorifici. Quando l’effetto dell’anestesia è passata ho ricominciato ad aver fame. Ho voluto sedermi, mi hanno pazientemente imboccata. Non percepivo alcun sapore, mi bastava avere qualcosa nello stomaco. Pastina, verdura lessa, frutta cotta. I liquidi con la cannuccia.

No, niente carne, grazie. Non mangio carne. No, non è che sono vegetariana. Il pesce lo mangio, non mangio carne. Non importa, lasciamo perdere.

Erano tutti ottimi segni. Il 20 luglio, alle prime luci del mattino, ho aperto gli occhi e mi sono sentita più osservata del solito. Una donna con occhiali d’osso e capelli neri – ho scoperto poi che era l’unica donna nello staff medico – era lì a sfogliare la cartella clinica e a osservarmi:

  • Non vorresti uscire da qui? Andare in reparto?
  • Sì, vorrei tanto. Mi piacerebbe.
  • Facciamola uscire.

Mi hanno sistemata in una stanza con un solo letto [e un altro per un “assistente”], raccomandandomi di non stare alla luce, di non veder più di due/tre persone per volta e per poco tempo, ma comunque di non restare mai sola. Il 20 luglio, il giorno del mio compleanno. A mia madre è parsa una vera rinascita: 36 anni prima era stata ricoverata nello stesso giorno del mio aneurisma, e nello stesso giorno della mia nascita rinascevo uscendo dall’acquario e tornando nel mondo.

Non sono riuscita a essere lucida con tutte e tutti, ma c’erano, erano lì e io me li ricordo bene. Per il mio compleanno erano lì e sorridevano. Fiori e regali, come il gatto che vedete in questa foto scattata tre o quattro giorni dopo. Ho ricordi particolarmente nitidi delle mie più care amiche, onnipresenti e bellissime. Di mio padre super-positivo, di mia madre sorridente, di mia sorella con suo figlio in braccio e un altro nel pancione urlarmi ma che cacchio fai???

E poi di Davide che mi prende la mano e dice con la sua solita lucida sintesi:

Sono contento che sei viva. E che sei sana.

Sì, ero viva. La parte sinistra del corpo era debole ma si muoveva. Mi davano fastidio luce, rumori, odori, ma parlavo piuttosto chiaramente e… avevo fame. Molti tubi, quasi come dentro matrix (cit. Milena A. C.), ma solo temporanei. E per l’occhio destro, che era vitreo e non voleva saperne di muoversi per bene, beh…

Beh, Loredana, è… strabismo di Venere.

per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (2/5)

Ed eccomi su un’altra ambulanza, velocissima verso Lecce alle quattro di notte. Allertata immediatamente Neurochirurgia dal medico giovane-alto-sicuro-di-sé, al mio arrivo era tutto pronto: mi ci hanno ricoverato letteralmente di corsa. In terapia sub-intensiva flebo a fiumi e monitoraggio costante dei parametri vitali. Mi sentivo malissimo. Un dolore così forte alla testa che avevo voglia di svitarmela e poggiarla da qualche parte. Dove avrei potuto non saprei dire, anche perché continuavo a veder solo ombre. Forte miopia [si sa], a cui si era aggiunto [me l’hanno spiegato in seguito] un problema di diplopia: l’occhio destro aveva smesso di muoversi. Per il resto, non ero in grado di far nulla da sola. E soprattutto avevo sonno. Come però hanno più volte ripetuto medici e infermieri, sono stata sempre “cosciente, vigile, collaborativa”. Col senno di poi, questo era un ottimo segno.

Dopo poco più di 24 ore, il 18 luglio, sarei stata operata con “approccio endovascolare”, ma in quel momento non capivo cosa stesse accadendo. Il 17 luglio, al rientro in reparto da una angiotac che aveva il compito di identificare con esattezza il problema, dalla barella sulla quale mi trasportavano ero riuscita a leggere “Neurochirurgia. Terapia sub-intensiva” e avevo detto all’infermiera:

Terapia intensiva? Sono in terapia intensiva! Ehi, non c’ero mai stata!

L’infermiera aveva riso. E aveva riso pure qualche ora dopo, chiedendomi che diavolo di eye-liner indossassi, capace di reggere tanto scompiglio. Questo lo ricordo bene: mi sono sforzata di ricordare il negozio, l’esatta circostanza in cui l’avevo acquistato. Forse avevo bisogno di capire se il cervello fosse ancora al solito posto. Anche se era debole, la parte sinistra del corpo la sentivo, si muoveva. Le parole venivano fuori un po’ meglio, meno a scatti. Qualche “contatto” aveva ricominciato a funzionare.

  • Ehm, un attimo. Ehm… sephora! Ecco!
  • Fantastico. Ancora lì, fantastico!

L’infermiera aveva riso di nuovo. E anche io. Ridevo e dicevo d’aver fame. Fame e sonno.

In terapia sub-intensiva le visite hanno limitazioni precise. Solo un familiare per volta, dotato di càmice verde e cuffia, mezz’ora in tarda mattinata e mezz’ora nel tardo pomeriggio. Gli altri rimangono fuori. Sollevata una tendina, possono guardarti da una finestra. La sensazione è di essere un pesce in un acquario. Mia madre e il mio uomo, Davide, sono entrati a turno per tre giorni in quell’acquario, anche per raccontarmi chi c’era dall’altra parte del vetro. Io annuivo, sorridevo e… salutavo come il papa (cit. Francesco P.).

  • Ci sono tutti, Loredana. Abbiamo riempito l’ospedale.
  • Bello.

C’erano davvero tutte e tutti, mi sono sentita amata. Meraviglia e sorrisi. Anche perché non avevo capito che la faccenda fosse così grave.

  • Come ti senti?
  • Mal di testa. E sonno. Scusami, io ho bisogno di dormire.

Sono stata operata – dicevo – il 18 luglio. La notte era passata tentando di tener testa al mal di testa. Ero imbottita di antidolorifici, eppure la testa sembrava esplodere. Quella mattina il chirurgo [un neuroradiologo] non è stato esattamente tranquillizzante con la mia famiglia:

Non è un’operazione semplice. E se succede qualcosa di imprevisto, non la salviamo. Se siete credenti, pregate. Se non lo siete, vi consiglio di rimanere in silenzio.

Con me, tutta un’altra pasta. Già parzialmente anestetizzata, ho avuto il tempo e la forza di scambiarci due battute:

  • Ha capito che cosa le stiamo facendo?
  • Entrerete con una piccola sonda dall’arteria femorale e arriverete alla testa.
  • Esatto.
  • Scusi, ma con questo cosa pensate di fare?
  • Beh, ecco…
  • Volete vedere esattamente cos’è successo?
  • Sì.
  • Ok.

Ahahah, come le chiamano? Bugie bianche?

per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (1/5)

Il 16 luglio scorso, intorno alle 19.30, un aneurisma congenito mi si è rotto nel cervello all’altezza della nuca. Non sapevo che si trattasse di questo, naturalmente. Mi bastava sapere che mi sentivo malissimo. I sintomi si leggono online con una ricerca di pochi secondi. Per me è andata così: mi pareva d’aver ricevuto un colpo di mazza, e che per questo la testa si fosse girata dall’altra parte e al contrario. Poi i classici perdita di coscienza [qualche secondo, il cardiologo l’ha definita “sincope”], nausea e vomito, rigidità del collo. In più, io ho avuto subito problemi di vista, di parola, di movimento del lato sinistro del corpo e di controllo degli sfinteri.

Al mio uomo che aveva appena chiamato il 118 ho detto [in piena emorragia cerebrale]: Vo-gli-o cam-bi-a-re vi-ta.

La storia è cominciata così, dopo una doccia. La giornata era stata molto impegnativa, ma io ero rilassata. Nessun sintomo. Nessuno. Si è rotto così, senza preavviso. Il personale del 118 l’ha catalogato come “dolore cervicale con vomito” e mi ha chiesto:

Che vuole fare? Vuole approfondire?

Il mio uomo era incredulo: Dev’essere certamente qualcosa al cervello. Vede, parla e si muove male. Com’è possibile che sia solo dolore cervicale?

Niente, mi hanno chiesto se volevo approfondire. Mi sentivo malissimo. Completa perdita del mio granitico senso di me.

Ho alzato la testa e annuito: Sì, an-di-a-mo in os-p-e-dale.

Sono finita al pronto soccorso di Galatina. A tutti i medici sembrava qualcosa di molto banale, “dolore cervicale con vomito”. Da qui ricovero precauzionale nel reparto di Medicina, codice verde. Verde. Nel frattempo i miei genitori mi avevano raggiunta, e mia madre aveva voluto rimanere con me. Mi ha raccontato che quella notte, verso le tre, un giovanissimo medico ha finalmente capito. Un medico molto giovane, molto alto, molto sicuro di sé.

Signora, non mi piace questa rigidità del collo, facciamo una Tac urgente.

Teresa, così si chiama mia madre, l’ha sentito insistere al telefono, mobilitare i colleghi con veemenza. Serviva una Tac urgente.

No, non domani mattina, adesso.

E finalmente la diagnosi: rottura di un aneurisma cerebrale. Mia madre non capiva.

  • Che cosa significa? Che cosa succede a mia figlia?
  • Signora, sua figlia ha un’emorragia cerebrale.
  • Cosa? Ma mia figlia ha 36 anni!
  • L’età non conta signora. Senta, il rianimatore ci assicura che la possiamo spostare senza pericolo. Dobbiamo correre a Lecce, qui non siamo attrezzati.

La foto che vedete è stata scattata qualche ora prima del fattaccio. Coincidenze? Ci credete?

la chiamo Francesca, si chiama Speranza

Neri i capelli neri gli occhi olivastra la pelle lento il parlare pesate le parole, la chiami Francesca ma si firma Speranza. Come a scuola, prima il cognome? No, le piace proprio “speranza”. Speranza Francesca è la sua firma, continua a firmarsi così oltre ogni obiezione. Ferme le mani acuto l’osservare quasi violento lo scattare. Necessario indulgere nella prima sensazione di lievità, così da poter provare con tutto lo spaesamento del caso quanto Francesca sia d’una bellezza abissale: le sue foto ritraggono l’aldilà della realtà. Nata nel ‘78 a Cisternino (Brindisi), ha studiato Architettura d’interni all’Istituto Europeo di Design a Roma e decorazione dell’Accademia di Belle Arti a Lecce, vive e insegna tra il Salento e Mantova. «Utilizza il digitale senza mai abbandonare la pellicola», racconta di sé in terza persona, «continuando a lavorare in camera oscura. Predilige i forti contrasti, sia nella scelta dei soggetti che nella tonalità cromatica della sue fotografia. Ama la sperimentazione, sia nell’acquisizione che nella stampa delle immagini, in alcuni suoi lavori recenti ha proposto installazioni realizzate con stampa d’affissione in grande formato, in cui la fotografia si relaziona con lo spazio e dialoga con l’ambiente». In “Domestic landscapes”, questo dialogo con l’ambiente racconta le donne, l’interiore conflitto dei ruoli, l’ironia che spesso suscita il tentativo di adeguarsi agli stereotipi della femminilità.

La fotografia è il “tuo” mezzo, anzi tu e la fotografia forse siete la stessa cosa. Ma quando hai detto a te stessa: “sono una fotografa”?
Sono curiosa e un po’ nomade, la fotografia si sposa bene con questo mio modo di essere. È sempre stata presente nella mia vita, a livello intimo, domestico. La memoria fotografica mi affascinava, le immagini aprivano nella mia mente sconfinate fantasie. Poi il momento del distacco, quando sono diventata unica responsabile di quello che accadeva sotto ai miei occhi. Ho iniziato a fotografare in viaggio, tra la gente, le cose della mia vita e le cose della vita degli altri. La fotografia è diventata una parte del mio essere, il mio linguaggio e parte del mio modo di comunicare. È fedele compagna e testimone delle storie della mio presente. È trovarmi in situazioni a volte drammatiche a volte inaspettate, e sentire la necessità di usare la macchina fotografica per congelare quel momento. È una passione forte che invade i miei sensi e che mi porta a tradurre in immagini il reale.

“Forza” e “fotografia”. Racconta che legame ci vedi.
Quando si decide di aprire il proprio archivio a qualcuno si sceglie di svelare una parte della propria identità. Questo è rischioso, può non essere inteso oppure criticato. La forza è quella parte del carattere che si deve coltivare per consolidare la propria identità, ciò che ti permette di esprimere con determinazione e senza filtri le costruzioni visive.

Donne e uomini: cosa accade nell’atto del fotografare?
Percepisco differenze in alcune relazioni, vedo sguardi diffidenti. Quando fotografo questa sensazione è più forte. In alcuni contesti la figura di una donna è “fuori luogo”, e lo sguardo degli altri diviene arma inibitoria da cui difendersi. Quando scegli di continuare a fotografare, magari in una situazione pericolosa, oppure drammatica, quell’essere “spudorata” è una trasgressione alle regole di comportamento.

Quali sono le tue fotografe di riferimento?
Difficile tracciare una genealogia esclusivamente al femminile. La fotografia italiana è stata il mio punto di partenza: Gardin, Migliori, Scianna, autori e artisti dallo stile semplice e puro. Poi la fotografia internazionale, quella delle donne: Diane Arbus, Margaret Bourke White, Sarah Moon, Nan Goldin. Poi ci sono le autrici di riferimento: Francesca Woodman, di cui amo la fotografia, lo stile, la scelta dei dettagli e la sensibilità fragile; Ellen Kooi, fotografa olandese che ho scoperto un po’ per caso, in una mostra a Parigi. Nelle sue fotografie ho scoperto un legame forte con il mio linguaggio.

Se dovessi dare un consiglio a te Francesca di qualche anno fa, quella degli “inizi”, quale sarebbe?
Con il tempo ho scoperto che un buon equilibrio e tanta determinazione ti porta a ottenere quello che desideri. Le direi di affermare se stessa senza timore, di essere testarda e di dare il giusto peso alle critiche degli altri. È fondamentale credere nelle proprie capacità e lavorare per ottenere i migliori risultati, ciò che ti circonda spesso ti mette in crisi, ma l’essere in crisi è l’inizio della rinascita.

Che mi dici del confronto con altri “ambienti” artistici, fuori della Puglia?
Non è cosa semplice, è un po’ ricominciare tutto dall’inizio. Ti espone alle critiche, può mettere in discussione il tuo modo di fare e di essere, ma è indispensabile per rafforzarsi e per far maturare il tuo lavoro.

A cosa stai lavorando adesso?
Negli ultimi due anni alcuni eventi hanno cambiato la mia vita. Vivo in Lombardia e mi trovo spesso in giro tra varie città dell’Italia settentrionale e dell’Europa. Il mio essere curiosa e viaggiatrice mi permette di trovarmi in luoghi e in situazioni nuove, a volte border-line. Cerco adesso, al Nord, elementi del territorio con caratteristiche geografiche e antropologiche che soddisfano il mio linguaggio. La serie “Landscapes” si è arricchita di nuovi elementi e di nuove forme espressive. Poi, oltre a continuare a fotografare e cercare nuovi spunti per la mia fotografia, mi concentro sulla post-produzione dell’archivio degli ultimi due anni, per tracciare un percorso omogeneo e coerente della mia ricerca. Continuo a utilizzare il digitale ma, negli ultimi tempi, sono ritornata alla fotografia analogica. Amo lavorare in camera oscura, mi piace la sperimentazione con la luce, l’interazione con i materiali, la sovrapposizione delle discipline, senza regole o cliché. Questo mi permette di portare avanti un percorso puramente estetico, legato al fascino dell’immagine e alla potenzialità del segno.

Claudia bellissima è stata da me

Claudia Bruno bellissima è stata da me, per iosonobellissima.

Ha riempito la mia casa e la mia vita di sorrisi, s’è accorta di certa elettricità, dice che mi ha vista “da vicino”. Vorrei tanto sapere che vuol dire esattamente, ma ho paura a chiederglielo così esplicitamente.

Abbiamo parlato di danze, di uomini, di donne, di politica, di cibo.

L’ho chiusa in casa, tanta l’abitudine a vivere da sola. Non si è arrabbiata per niente: le ho riportato le chiavi correndo sulla bicicletta e ha soltanto sorriso masticando un biscotto.

Siamo state in piazzaduomo e in piazzasantoronzo, ho fatto proprio la… leccese, le ho cantato canzoni sceme, le ho detto di santirene, le ho spiegato quanto siamo assurdi.

Claudia ha molto osservato, ha notato un bel po’ delle mie ossessioni, tipo quella d’avere un contenitore o un posto specifico per quasi ogni cosa.

Le ho raccontato la leggenda del demone piovra e lei, giustamente, ha sintetizzato come tutte: è un polpo.

Vorrei che tornasse presto, anche se ne sono stata pure terribilmente gelosa. Julia l’ha subito amata. Julia ama tutti, direte voi. Non è vero! Ha voluto dormire con lei. Con lei! Ero gelosa, gelosissima! Comunque abbiamo recuperato: Julia ha fatto cento volte le fusa a me e mi sono messa l’anima in pace.

E poi, tornata lì dove vive, Claudia l’ha raccontata così.

cose imparate in tre giorni

la poesia è un’arma spietata, non ti risparmierà
il gallo non canta solo all’alba, soprattutto di domenica
la pietra delle case pugliesi d’inverno ha un odore inconfondibile
i pozzi sono gli antenati dei condizionatori
la neve al nord è come la livella al sud
esiste un porta-cosa, per ogni cosa
una santa ne vale almeno tre
non tutti i binari sono impermeabili
per pregare, puoi suonare i passi in una chiesa vuota
se avete la pressione alta, forse volete uccidere qualcuno
“via delle anime” esiste
zoppicare è tutto tranne che un impedimento nel procedere
la coda è fondamentale
le parole si camminano
il migliore amico della donna è il polpo
la massima espressione della presenza è il silenzio
l’amore per una terra è un indicibile segreto
perdere la carta d’identità in aereo può essere un avvertimento
il rustico leccese dà dipendenza e assuefazione

La amo.

Ilaria Seclì diafana e feroce

T’appare diafana, sorriso largo di piccoli denti, risata acuta e lieve, ricci capelli tenuti assieme da mille mollette, sigarette frequenti. La leggi, poi, di ferocia attraversata. Ilaria Seclì, salentina nata a Ginevra, poeta di energia stra-ordinaria dentro voce e passi lievissimi, da anni errante tra il nord e il sud di un’Italia che le piace sempre meno, l’ho scoperta e amata per “Destino al mercato”, una poesia divenuta naturalmente uno dei manifesti di “io sono bellissima”.

Ilaria, il “grande pubblico” – così pare che si dica – ti ha conosciuta per aver scritto “Lo zoo dei proletari”. Una poesia incredibile in sé, figurarsi scritta a 19 anni. Ma ti rendi conto?
Lo zoo dei proletari è un grido, un’alternativa a un atto violento. Nasceva dalla rabbia, dalla volontà di abbattere argini e costrizioni che ammanettano la libertà individuale. Mi riferivo a certi schemi educativi che tendono a “recintare sperando di salvare”, che negano, impediscono, per evitare di. Un processo alle intenzioni di vivere. Pensavo al potere che un individuo esercita nei confronti di un altro individuo limitandone potentemente la libertà. Prima forma astratta di proprietà privata da ostacolare, denunciare, la più subdola, pervicace, pericolosa, i cui effetti sono molteplici e duraturi. Insomma, la storia di una diciannovenne di un’estrema e arretrata provincia che a 11 anni leggeva Leopardi, le Confessioni di Rousseau e I fiori del male di Baudelaire. Ricordo bene che lo scrissi in meno di un’ora, un pomeriggio di primavera. Rileggendolo, penso alla forza, alla ferocia, al coraggio.

Quella è stata la tua prima poesia?
No, la prima poesia credo di averla scritta a 9, 10 anni. Ero sola in casa, fui “presa”. Uno stato di percezione alterata, caotica pienezza. Caos armonico. E l’urgenza di trasferire su carta quel vortice, quell’estasi, quell’ubriacatura, quelle visioni che mi attraversavano e che mi portavano, ricordo, nel “bosco”, una parola che evocava ciò che avrei amato e che avrei visto, per la prima volta, molti anni dopo. Sentivo che c’era altro, altrove, che nessuno aveva educato alla familiarità con un regno invisibile in cui i sensi si affinano, si espandono per esplorare modi, mondi, sentieri misteriosi, sconosciuti. Tutto ciò che nessuno si affrettava a farti sapere, a trasmetterti, a insegnarti. Ciò che è nel prodigio non passa dalla pedagogia, dall’educazione. E ciò che deve compiersi trova sempre il modo, ti trova se ti deve trovare.

La più classica delle domande, te l’avranno fatta mille volte. Rispondi anche questa volta, ma in tre parole: cos’è la poesia?
Una visitazione. La Poesia è l’Inizio, un eterno primo sguardo. Il miracoloso. Più di tre parole, ho sforato. In verità a questa domanda bisognerebbe rispondere col silenzio.

E che cosa ti dà?
Ogni risposta sarebbe riduttiva, come per la domanda cosa ti dà il respiro, aprire gli occhi, stare al mondo?

C’è forza nella poesia?
Sì, una forza di grazia. Ho posto la mia fiducia nel vivo che non muore.

C’è differenza secondo te, nel fare poesia (o nel creare, in generale), fra donne e uomini?
Non mi interessa il genere di chi scrive ma l’onestà con cui si fa guidare nella scrittura, la ricerca e lo sforzo di perfezionamento, l’assenza di smania di arrivare da qualche parte. Conta l’atteggiamento, che dovrebbe essere di umiltà, come di chi ha la facoltà di ricreare il mondo nello spazio bianco consapevole di essere uno strumento, un medium.

Quali sono i tuoi riferimenti di poetesse e/o scrittrici? Perché?
Amelia Rosselli per la scomposta viscerale grazia, eleganza, per la disperazione fatta bouquet di margherite e chiodi, e offerta. Ecco, Alejandra Pizarnik, figlia dell’insonnia: “Sono stata tutta un’offerta, un puro vagare di lupa nel bosco”. Sua voce di selva e silenzio perfetto. Silvia Molesini, sguardo che vortica spietato sull’ordine imperfetto delle cose. Sonda ruvida tra le fughe del com’è, del cos’è stato e del cosa avevamo pre-visto, canto barbaro di grazie perdute e assenze. E altre a cui penserò tra un secondo. Ah, ecco, Antonia Pozzi, denso dialogo con la natura e il mistero che indica, armonico conversare tra l’assente e il maestoso. Catherine Pozzi la cui conoscenza devo a un libro di Marco Dotti. Catherine, il buio d’oro.

Dovessi dare un consiglio a te Ilaria di qualche anno fa, quella degli “inizi”, quale sarebbe?
A me piccola direi di non prestare orecchio a ciò che sembra più facile, che crea apparenti agi, comodità, di resistere al processo di conformazione che pratica strade meno impervie, di continuare ad avere cura di quello sguardo e di ascoltare ciò che tace e che per altre vie si rivela. Mi direi di non cedere all’ambizione che fa spesso delle cose di poesia palchi da bagaglino. Consigli inutili perché non mi sono tradita, almeno nella poesia.

Il confronto con altri “ambienti” artistici, fuori della Puglia: cosa hai notato?
In qualche caso una maggiore attitudine a fare rete, collaborare. E poi una maggiore valorizzazione anche economica del lavoro artistico.

Hai tre raccolte poetiche nel cassetto. Pensi troverai un modo di tirarle fuori?
Ah, gli inediti… tra cui la creatura più amata e riuscita, “L’impero che si tace”, prose poetico-geografiche scritte viaggiando. Non ho fretta, evidentemente. Aspetto l’occasione/proposta migliore, magari quella che si sottrae al costume imperante di chiedere soldi per la pubblicazione. È un’impresa, lo so, ma non è impossibile. Bisognerebbe trovare modi per entrare nel “sistema”, dice qualcuno, crearsi varchi, anelli, ponti, farsi strada. Ecco, non ne ho né il tempo né la voglia né l’attitudine. Credo ancora nei rapporti umani guidati dalla schiettezza, dalla gratuità, accadono casualmente per rivelarsi poi necessari.

Ilaria Seclì ha pubblicato “D’indolenti dipendenze” (Besa 2005), “Chiuderanno gli occhi” (con Antonio Diavoli, Quaderni di Cantarena, Genova, 2007), “Del pesce e dell’acquario” (LietoColle 2009). Nel 2007, con l’attore e regista Adamo Toma, ha inscenato lo spettacolo teatrale tratto dalla raccolta inedita “La sposa nera”. Sillogi in antologie: “Poeti Circus, i nuovi poeti intorno ai trent’anni” (a cura di Giuseppe Goffredo, Poiesis edizioni 2006), “Il Segreto delle fragole” (a cura di Giampiero Neri e Fabiano Alborghetti, LietoColle 2006), “Sud del Sud dei Santi” (a cura di Michelangelo Zizzi, LietoColle 2013).

apocalissi digitale

Pubblicata su faccialibro, ripresa da un quotidiano telematico, condivisa più di cento volte sia dalla mia che da altre pagine non solo personali, “mi piace” totali arrivati a una cifra incalcolabile. Internet funziona così? Funzionano così i social? Non lo so ma la cosa è divertente. Soprattutto sono divertenti i commenti.

Fortuna o prontezza di riflessi? Culo o… ?
Non lo so, ero lì intorno, in giro a cercare un regalo per i due anni di mio nipote Davide, mi piaceva l’atmosfera e mi sono fermata a fare una foto.

L’hai fatta proprio tu con le tue mani?
Mica sono orecchiette! Diamine! Sì, le mani tenevano il cellulare ben fermo, l’indice destro era pronto a scattare.

Si presume che sia stata scattata con il cell, vista la qualità della foto.
Sì, certo, è sgranata! L’ho scattata con un cellulare con fotocamera a 5 mega. Teorici.

Io non avrei avuto il coraggio, ho paura dei fulmini.
Ah beh, allora sono la solita incosciente.

Non mi piace, sembra l’apocalissi.
Beh ma poi non è successo niente.

Bella foto, ma tu fotografi?
No, io scrivo.

con una risata Gianna di ucciderà

Gianna Greco è stata una delle prime musiciste con cui ho tessuto una relazione significativa. L’ho conosciuta nelle Shotgun Babies, la cui fondatrice – Cristina Cagnazzo – ha lavorato con me alle presentazioni dei miei racconti per due anni.

Gianna ride con tutta la faccia, apre quella bocca dai denti perfetti, ingrossa il petto e, se non hai forza sufficiente, t’uccide con la sua energia piana e strafottente. Se ne frega, Gianna, ha imparato a fregarsene di tutto e di tutti. Ha pianto, l’hanno fatta piangere, se ne frega. Lacca le unghie di rosso o di nero, prende il basso e se ne frega.

Salentina dell’85, formazione classica, laurea in scienze politiche, ha studiato musica da autodidatta e poi canto e basso a livello professionale. Compone, arrangia e suona il basso nelle Shotgun Babies, nei MUFFX e, dal 2012, nel Putan Club nelle sue varie formazioni. Tra queste, con quel mito vivente che è Lydia Lunch. Co-fondatrice dell’etichetta Ill Sun Records, ha suonato anche per Opa Cupa, Mentally Doof e Baye Fall.

«Diciotto anni fa ho cominciato a suonare la chitarra. Credevo di non essere portata per la musica. Il basso è arrivato sette anni dopo. Mi piaceva da tempo, e quando l’ho sfiorato per la prima volta ho sentito qualcosa nello stomaco: lì ho capito che era il mio strumento! Ho sempre avuto un rapporto di odio/amore con la musica in generale e con il basso in particolare. A un certo punto l’ho anche lasciato completamente. Due anni e mezzo senza suonare: mi sentivo incapace e poco portata».

Non ci credo.
«Davvero. Poi, dopo un concerto nato per caso con un musicista che adoravo e tutt’ora adoro – un vero mito per me!, ho ripreso e non mi sono più fermata. Adesso il basso è il mio modo preferito di mettermi in gioco. Con il basso tiro fuori il mio vero carattere».

Parli di François R. Cambuzat, si può dire?
«Ovvio, sì! Certo che si può dire… si DEVE dire!!!».

Ti sento parlare spesso di rabbia. Tu sei incazzata. Con chi? E perché?
«È una rabbia atavica, incrostata da anni di brutte esperienze e di altre bellissime che poi hanno lasciato l’amaro in bocca. Credo che sia più che evidente che attualmente viviamo in un’era… “invivibile”, e che per sopravvivere ci si deve inventare giorno per giorno. Bene. Io invento la mia vita, passo dopo passo, mettendoci tutto quello che posso metterci, a testa alta e senza troppi giri di parole e con tanta rabbia. In particolare con la musica riesco a tirare fuori quello che ho dentro».

Hai un rapporto molto fisico col basso. A me piace da morire. Una volta a un tuo concerto ho riso un sacco perché un amico era sconvolto dalle tue cosce. Diceva: “Le mostra troppo. Perché fa così? Che provocazione è?”. Ho tentato di spiegargli che “provocare” era l’ultima delle tue intenzioni e l’ho invitato a godersi lo spettacolo.
«Ahahah, ti prego presentami il tuo amico! Beh, prima cosa: sul palco sono esattamente come sono nella vita. Non uso pantaloni da nove anni. Gonne, vestiti… solo ed esclusivamente questo. Seconda cosa: no, non è una provocazione. Quando suono so solo di essere me nella versione più felice e soddisfatta, il “guscio” in cui mi trovo è nulla di più che un contenitore. Ogni volta che suono noto con profondo piacere che se durante i primi minuti del concerto molti uomini sono più attenti alle mie cosce che al suono del mio basso, alla fine del concerto hanno dimenticato di avere di fronte una donna».

T’ho coinvolto in iosonobellissima perché penso che tu sia femminista, come me. È vero?
«Dire d’essere femminista per me significa ammettere che c’è un problema, e non mi piace. Invece il problema esiste. Capita di doversi confrontare con gente che senza averti mai sentita suonare crede che tu non sia capace per il solo fatto che sei una donna. Questa è una doppia sfida che, non lo nascondo, mi dà il doppio del gusto. Vivo questo aspetto come un motivo per fare di più ogni volta».

Dovessi dare un consiglio alla Gianna di qualche anno fa, quella degli inizi, quale sarebbe?
«Spacca tutto!!! (ride, ndr)».

Parliamo dell’esperienza internazionale con il Putan Club: cosa ti sta insegnando?
«Forse è ancora presto per dirlo, ma posso provarci. Innanzitutto mi sta insegnando ad avere un rapporto più professionale con la musica, che da due anni è diventato il mio unico lavoro. E poi tanta sicurezza in più. Suonare ogni giorno davanti a migliaia di persone mi ha dato grande soddisfazione e tantissima grinta in più. Quello che mi ha fatto ridere è stato rendermi conto che all’estero sono abbastanza conosciuta. La gente sa chi sono, da dove vengo, quanti anni ho, quali sono i gruppi in cui suono. Che dire… nemo propheta in patria? (ride, ndr)».

Lydia? È un’artista incredibile, una storia dolorosissima. Come si lavora con lei?
«Divinamente bene. Una donna magnifica, con cui è solo un piacere e un onore poter condividere il palco… e poi è maledettamente r’n’r! Quindi l’ADORO!».

Non dai nessun segno di “sudditanza” rispetto a questi grandi nomi.
«Preferisco non dipendere da nessuno. Il mio percorso da bassista deve proseguire e spero migliorare grazie al mio sudore e basta».

Hai un sacco di progetti.
«Sì. Quest’inverno uscirà il disco delle Shotgun Babies sul quale abbiamo lavorato intensamente per mesi. Da qui, tour in Italia e in Europa per tutto il 2013 e 2014. Tra settembre e ottobre 2013 sarò in tour con il Putan Club in Spagna e Portogallo. Faremo un nuovo giro in Italia fino al Libano a partire da gennaio 2014, ad aprile 2014 saremo per un mese tra Cina, Giappone e Vietnam, a maggio ripartiremo per l’Europa dell’Est. Nel frattempo sto componendo pezzi per un mio progetto da sola. Avvertivo l’esigenza di farlo ormai da molto tempo e finalmente ci sono riuscita. Entro aprile 2014 conto di concludere la composizione, in modo da poter organizzare un bel tour per l’autunno 2014… on the road again!».

E poi?
«E poi voglio una casa tutta mia. È il momento».

Ilaria Guidantoni tunisina italiana [e anche il contrario]

Un’amica di un’amica cercava una giornalista che presentasse “un libro sulla Tunisia in cui c’è attenzione per le donne”. È così che ho conosciuto Ilaria Guidantoni. L’ho vista due volte e ci siamo scritte alcune decine di e-mail, ho letto tre dei suoi libri e lei uno dei miei. Ho chiesto di lei, sbircio le sue foto. Il fatto che la trovi sempre ben vestita e pettinata, che porti borse e occhiali firmati, che indossi pellicce e che abbia un piglio sempre piuttosto formale normalmente mi farebbe passare ogni desiderio di approfondimento. Invece Ilaria mi incuriosisce terribilmente: trovo irresistibile il suo innamoramento per la Tunisia. La rende trasparente.

Insomma chi è Ilaria? Dimentica il contesto, qualunque contesto. Definisci chi sei.
«Una donna del Mediterraneo, una specie di apolide. Non lo dico per vezzo: raccontando del Mediterraneo trovo, adesso, il mio riconoscimento maggiore. Culturale ma anche di orizzonte, visione dell’esistenza, complesso di valori morali e religiosi. Vi è una confluenza di anime diverse che è anche nella mia formazione. Amo la sponda a sud del Mediterraneo».

Non riesco a definire “reportage” quello che scrivi.
«No, è una scrittura un po’ di confine. So che è un rischio: assieme alla ricchezza delle differenze che si mescolano, c’è la possibilità del limbo. C’è però una traccia chiara, e cioè il tema dell’“incontro con l’Altro”, presente fin dal primo saggio sulla sicurezza stradale. Certo nell’ultimo – “Chiacchiere, datteri e the. Tunisi, viaggio in una società che cambia” – la scrittura si fa più chiara. È un reportage “caldo”, tutto in prima persona e legato anche a pensieri ed emozioni personali».

Racconti della Tunisia e sei – come si dice in gergo – sempre sulla notizia. Eppure io continuo a trovare più rilevante, più evidente, il dato “personale”. È questo che mi pare definisca il tuo attaccamento a questo Paese.
«Me ne sono innamorata attraverso un incontro personale. Ecco, la vita privata a volte ci porta ad aprire delle porte, poi non è detto che si rimanga nella stessa casa o si esca dalla stessa porta. Io nel frattempo mi sono legata a questo mondo: una vicenda personale mi ha aperto le porte su una vicenda collettiva. Frequentavo la casa di una persona che si occupava (e si occupa) di diritti umani sotto la dittatura: questo ha spalancato un mondo insospettabile. È stato viverlo da dentro, con le preoccupazioni di chi vive una vicenda personale, che probabilmente mi ha portato a scriverne col cuore».

È una storia che continua, insomma, anche se in modo diverso.
«Sai cosa mi succede, adesso? Che frequento molti italiani di Tunisi, italiani nati a Tunisi o che vi vivono in parte o che hanno sposato tunisini. E poi studio arabo e tunisino. Da due anni, anche se con scarsi risultati (sorride, ndr). Il problema è che è molto difficile imparare a parlarlo, vorrei intanto imparare a capirlo. È il passo che voglio arrivare a fare entro un anno. Adesso, scherzando, dico che potrei giocare a nomicosecittà. Conosco, insomma, molte parole. Però l’ultima volta a Tunisi sono andata in un quartiere popolare, ho visto un’insegna, ho riconosciuto che era un ristorante e sono riuscita a leggere il menu in arabo. Mi sono sentita dentro il Paese. Adesso in Italia mi fanno i complimenti per il mio italiano, è buffissimo, mentre a Tunisi la gente mi parla in arabo in qualunque modo io sia vestita. Mi emoziona».

Sei innamorata. Raccontamene i sintomi.
«La malinconia che ho provato le volte che ho lasciato quell’aeroporto. E poi, adesso, se penso al “ritorno” non so di cosa parlo: dell’Italia? della Tunisia? Non so più dov’è questo “ritorno”. Mi era già successo in Italia. Evidentemente un luogo solo non mi basta. Sono in egual misura fiorentina, milanese e romana, ma a parte il legame con la famiglia e la lingua… non riesco nemmeno più a dire d’essere italiana. Altra cosa: a Tunisi riesco a prendere tempo per me. Ecco, forse mi sono innamorata di quel posto perché quando sono lì riesco a non finalizzare il tempo in modo così stringente come faccio altrove. Vivo con un senso di pienezza, quando invece normalmente ho tre telefoni sempre accesi e l’orologio sempre sott’occhio. In Tunisia ho scomposto i miei schemi, proprio come accade quando ci si innamora».

A volte è come se tu dicessi “guardatemi, sono io, sono qui!”.
«Ho molta paura che se… non sto sulla notizia… si dimentichino di me. Ho paura che lontana dai loro occhi possa diventare lontana dal loro cuore. È una forma di corteggiamento, anche. Lo so».

Se ho capito qualcosa di te, ti sei portata in casa un po’ della Tunisia. E parlo di sensazioni.
«Una teiera, un tappeto berbero, gioielli, una sciarpa, una zuppiera, delle coppette dipinte a mano che uso spesso. Ci penso per la prima volta: sono tutti regali. Io non ho mai comprato oggetti per me, per me compro cose che consumo. Il profumo che si utilizza là per i cuscini, il the, vino e aceto balsamico di datteri. Sì, compro cose che consumo, non mummifico la Tunisia».

Ho idea che tu stia provando a spostare parte del tuo lavoro in Tunisia.
«Vorrei cercare di rappresentare, in qualche modo, un anello tra i due Paesi. Turismo, agroalimentare, piccola e media impresa, lavoro femminile. Secondo me ci sono tutti i presupposti per costruire assieme».

[Ilaria Guidantoni ha scritto: “Vite sicure” (Edizioni della Sera, 2010); “Prima che sia buio” (Colosseo Grafica Editoriale, 2010); “I giorni del gelsomino” (P&I Edizioni, 2011); “Tunisi, taxi di sola andata” (NoReply editore, 2012), “Chiacchiere, datteri e thé. Tunisi, viaggio in una società che cambia” (Albeggi Edizioni, 2013)].

professione papirologo

Il professor Mario Capasso, ordinario di Papirologia all’Università del Salento, ha fondato e dirige il Centro di studi papirologici e il Museo papirologico dell’Ateneo. Delegato ai Musei dal 2008 e Presidente nazionale dell’Associazione di Cultura classica, è direttore – con Paola Davoli – della missione archeologica UniSalento a Dime (Fayyum, Egitto).

Professor Capasso, il suo è un mestiere che coincide così chiaramente con una grande passione che viene naturale partire dalla più ovvia delle domande. Com’è cominciata?
«Ho cominciato seriamente a pensare di dedicarmi al mestiere di papirologo frequentando i corsi di Papirologia all’Università di Napoli, negli anni Settanta del secolo scorso: mi affascinava il contatto diretto con il testo antico, la sfida, se posso usare questo termine abusato, che la sua decifrazione in qualche modo lancia a colui che ha il compito di decifrarlo. Decifrare per la prima volta un testo è stabilire un contatto diretto con colui che lo ha scritto o fatto scrivere, una persona vissuta molti secoli fa».

In vent’anni di scavi, abbiamo visto scoprire al suo gruppo di lavoro numerosi reperti importanti in modo costante. Quali sono i segreti di una così prolifica attività di ricerca?
«Non ci sono segreti in questo mestiere: occorrono passione, entusiasmo, abnegazione, fiducia. Quando sono impegnato in Egitto per l’annuale Campagna di Scavo, mi sveglio al mattino pensando che quel giorno sarà un gran giorno, un giorno di una grande scoperta. Poi magari la grande scoperta non si verifica, ma quale altro lavoro può definirsi altrettanto esaltante?».

Come descriverebbe l’emozione della più recente scoperta? Si prova sempre lo stesso sentimento?
«L’emozione che si prova nello scoprire un oggetto importante, che sia un papiro o una statua, è qualcosa di elettrizzante, una sorta di euforia, che ripaga dei tanti sacrifici che questo nostro mestiere ci impone. La scoperta dei due leoni è stato un momento esaltante, per noi dello staff, ma anche per gli operai, umili contadini che per poche lire egiziane al giorno svolgono un lavoro certamente faticoso, ma che sono orgogliosamente consapevoli del loro ruolo».

Parliamo della recente conferma alla presidenza nazionale dell’Associazione di Cultura Classica. Di cosa si occupa, in dettaglio, l’associazione?
«L’AICC, nata nel 1897, si prefigge di tutelare e divulgare le nostre gloriose tradizioni classiche. Organizza congressi, gare di greco e di latino, seminari, conferenze, viaggi di studio. Soprattutto vigila affinché le nostre discipline classiche siano adeguatamente rappresentate nell’ordinamento scolastico e in quello universitario».

Cosa della classicità crede che manchi di più?
«Delle tante definizioni che si possono dare della classicità mi piace quella che vuole che la classicità è il rispetto per l’uomo, la fiducia nella centralità dell’individuo, del suo pensiero, dei suoi sentimenti, della sua libertà. Al giorno d’oggi si tende a perdere di vista tutto questo, che rappresenta il grande insegnamento lasciatoci dagli antichi».

In un panorama di sempre più scarsi finanziamenti per la ricerca scientifica, quanto soffre la ricerca “umanistica” rispetto a quella – per esempio – con applicazioni per l’industria?
«La ricerca umanistica soffre moltissimo rispetto a quella scientifica, che, va detto, pure non gode di ottima salute, ma certo dispone di più risorse. Si tratta di una situazione non solo italiana ma certo in Italia, che è la culla della cultura umanistica e che riserva una percentuale irrisoria, appena lo 0,19% del PIL per la tutela del suo patrimonio culturale, noi umanisti viviamo una situazione che non esito a definire drammatica».

Lei lavora con giovani ricercatori e ricercatrici e tanti appassionati. Qual è l’augurio che si sentirebbe di rivolgere?
«Che con la fine di questa devastante crisi internazionale i fondi messi a disposizione delle Università possano tornare almeno a livelli decorosi, in modo che questi giovani possano concretamente sperare di dedicarsi serenamente alle loro ricerche: abbiamo già perso più di una generazione di giovani eccellenti; considero questo una sorta di peccato mortale verso di essi ma anche verso il futuro dell’Italia».

quest’intervista è stata originariamente realizzata per il periodico dell’Università del Salento “Il Bollettino”

nell’immagine i professori Capasso e Davoli con lo staff di ricerca in Egitto

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