Autore: Loredana De Vitis

me ne bastano tre

Julia

non cammino
ma salto
posso essere
più veloce
più scaltra di te
la mattina
masticare i tuoi fiori
tanto non son tuoi
così impari a
reciderli
a pranzo
mangiucchiare
la frittata
tanto non è tua
così impari
che il cibo nel piatto
è di tutti
la sera posso
salire sul tavolo
e da lì sulla credenza
se rompo i tuoi
vasi
peggio per te
toglili di mezzo
io voglio poter
vivere
come te
assieme a te
e di zampe
me ne bastano tre

[dedicata a Julia, ‪with love & cats‬]

questione di immaturità?

Motivi per essere femminista, Italia 2016:

  • un maschio “immaturo” può assumere incarichi di responsabilità in uffici pubblici, molestare e uscirsene non solo impunito ma anche con l’avallo della benevola ironia di quanti ritengono che si sia comportato “scherzosamente” (tribunale compreso);
  • una donna matura può anche riuscire, sempre con enormi difficoltà, ad assumere incarichi di responsabilità in uffici pubblici, può anche lavorare bene, ma quasi sempre le si chiederà di giustificare continuamente chi è, cosa fa, come si veste, come si comporta, se è sposata, se ha figli e come gestisce i cavoli suoi.

[Mai arrendersi, ‪#‎nevergiveup‬]

Fulvio Tornese L'ingegno collezione privata Loredana De Vitis

Fulvio Tornese o de “L’ingegno”: dialogo a proposito di una testa spaccata

Con una casa più grande e soprattutto più soldi avrei di certo comprato più quadri, ma probabilmente sarebbero stati meno importanti. Meno importanti per me. Non si dovrebbe collezionare quadri, solo cercare ciò in cui ci si può rispecchiare. A me è successo anche con “L’ingegno”, un olio su tavola infinitamente attraente: il colore ha delle crepe, il protagonista sembra venuto da un altro pianeta ma indossa una giacca che sceglierei se la vedessi in un negozio della Terra, nell’occhio aperto sembrano muoversi microscopici esseri, il paesaggio sullo sfondo è familiare e immaginifico, ferma un momento in un tempo sospeso tra passato presente e futuro. Ma è quella testa spaccata la cosa più significativa: sono certa d’aver voluto questo quadro perché ho capito che ciò che stavo vivendo in quel momento m’aveva… aperto la testa.

L’autore si chiama Fulvio Tornese, è un architetto, un pittore, un illustratore, un allestitore, un artista capace di fare grandi cose con piccoli mezzi e piccole cose con grandi mezzi. Lo vedo quasi ogni giorno per lavoro, abbiamo parlato praticamente di tutto, abbiamo molti punti di vista in comune e altrettanti diametralmente opposti. Ho scritto di lui, una volta, per presentare i suoi “libri d’artista”, volevo scriverne ancora ma come altro avrei potuto se non come potrei fare in un giorno qualunque, incontrandolo per lavoro?

  • Ciao, Fulvio.
  • Ciao Loredana.
  • Giura di dire la verità tutta la verità nient’altro che la verità.
  • Tuttatutta? […] Vabbè, lo giuro.
  • Scrivi “lo giuro”.
  • Di nuovo? […] Lo giuro. “È già il test?” (cit. Blade Runner, l’interrogatorio a Leon).
  • Sì, è già il test.

Fulvio Tornese ha quasi sessant’anni ma gliene dareste molti molti meno, indossa cravatte nere sui jeans e scarpe comode che gli rendono più agevole camminare, per le riunioni di lavoro s’infila spesso una giacca scura, si distrae se gli viene in mente qualcosa che vorrebbe dipingere. E allora apre un quadernino, prende una matita o un pennarello a punta fine, da un paio d’anni a questa parte capita che accenda l’iPad. Poi torna all’architettura.

  • Hai studiato architettura.
  • Sì.
  • Com’era a Firenze?
  • Perfetto.
  • Hai iniziato a dipingere prima ancora.
  • Ho studiato al Liceo Artistico e dipingo da quando avevo 15 anni.
  • Perché? Come è accaduto?
  • In realtà devo aver cominciato prima, credo di avere ancora a casa dei miei qualcosina fatta intorno ai 13 anni. Credo dipendesse dalla voglia di raccontare storie, storie epiche, fantastiche. Credo.

Ne ha raccontate parecchie dipingendo, ha costruito personaggi d’ogni foggia, negli anni sono cambiati e da qualche tempo gli vedo dipingere anche alcune donne. Molti uomini popolano i suoi paesaggi, parecchi in passato sono stati giganti, poi sono arrivati poeti equilibristi danzatori sognatori. I miei preferiti sono i guerrieri.

  • Com’è stato tornare a Lecce?
  • Avventuroso, avevamo un vecchio camion da cantiere, che un mio amico mi aveva prestato, lo abbiamo riempito all’inverosimile, coperto con un telone, quando siamo arrivati eravamo contenti di avercela fatta.
  • Com’è vivere a Lecce?
  • Si vive bene.
  • Com’è lavorare a Lecce?
  • Si lavora bene: piccola città, distanze umane. Riesci a fare un sacco di cose, in una giornata di lavoro.
  • Com’è dipingere a Lecce?
  • Perfetto.
  • Cos’è la perfezione?
  • Una cosa ben fatta.

Fulvio ne ha fatte diverse, alcune delle quali in giro per l’Europa, l’Asia e il Medio Oriente. Non è diplomatico, non è politicamente corretto, ma nemmeno dice le cose come farei io tirandoti un pugno in faccia.

  • Il bello di viaggiare (per l’arte).
  • Ti riferisci alle mostre in giro per il mondo? È bello e interessante certo, ma non mi fa impazzire.
  • E cosa ti fa impazzire, invece?
  • Nel senso che mi piace da morire? Nella mia personale classifica una le batte tutte: un piatto di spaghetti a ottobre in un localino sul mare, con qualcuno che amo.
  • Il bello di restare (per quello che ti pare).
  • È che puoi avere tempo per finire quello che stai facendo.
  • E che cosa stai facendo adesso?
  • Dipingo carte.

Fulvio Tornese dipinge continuamente. Tutto è pittura: quello che legge che ascolta che dice che progetta che descrive persino che mangia che cucina assume inesorabilmente l’aspetto d’un dipinto. Basta osservare e quelle origini le puoi rintracciare.

  • Il rapporto tra architettura e arte nella tua vita.
  • Se ti riferisci al fare, ti potrei rispondere che sono entrambe cose che faccio e con le quali ho la dimestichezza del mestierante.
  • Ok, potresti rispondermi così. E in che altro modo potresti?
  • Potrei parlarti di due fasi, due momenti della mia vita… hai una quarantina d’anni a disposizione?
  • Non ne sono sicura, quindi passiamo ad altro. Descrivi che rapporto pensi ci sia tra architettura e arte, in generale.
  • Nel fare architettura hai delle regole, quasi dei protocolli, che scandiscono tutto il processo creativo. Dall’idea iniziale fino alla realizzazione finale, ogni passaggio è codificato e la corretta esecuzione di ognuno di questi è garanzia di giusta riuscita del passo successivo. Per l’arte è diverso, almeno per la pittura. Puoi intervenire e correggere e adattare fino a che non ti liberi del quadro. Talvolta ci sono opere con date di esecuzione di due, tre anni. Però questo non significa che fare architettura sia limitante per la creatività. Anzi, essendo una forma complessa del fare, pone sfide talvolta più affascinanti, specie di trappole davanti alle quali un bravo architetto non si tira mai indietro. I risultati magari sono altra cosa.
  • Ti liberi di un quadro come di un demone? O di chi o cos’altro? Un parassita? Un ospite sgradito?
  • Una cosa è realizzare un lavoro, altra è il suo possesso materiale, può tranquillamente goderne qualcun altro.

Anche se è un po’ diverso per la scrittura, capisco il sentimento.

  • Progetti per dipingere?
  • Il mio fare pittura si è modificato nel corso del tempo e a causa del tempo a disposizione. Dalla fase di trance/smarrimento davanti alla tela (ero quasi un bambino) sono approdato al lavoro per fasi. Visualizzo, prendo appunti, schizzo su block notes o su Ipad, metto da parte, recupero, collaziono il tutto in testa e poi comincio il lavoro finale. Che poi come ho detto prima non finisce mai.
  • Dipingi per progettare?
  • Avendo cominciato con soggetti urbani, talvolta all’inizio mi è venuta la tentazione di fare architettura partendo dalle sghembe costruzioni che dipingevo. Fare piante prospetti e sezioni di cose che apparentemente non potevano stare in piedi, il tutto senza il supporto del computer… certi mal di testa. Ma erano virtuosismi, ho pensato. Poi qualche hanno fa a Pechino ho visto la sede della China Central Television di Rem Koolas, e mi sono divertito a immaginare come sarebbe una città fatta di linee verticali che se ne fregano della gravità e di linee orizzontali che si dissociano dalle regole prospettiche.
  • E l’hai dipinta.
  • Ci provo qualche volta.

Fulvio Tornese ci è anche riuscito, qualche volta. Puoi metterti davanti a certi quadri e lasciare che il disequilibrio ti faccia provare una qualche vertigine. Devi starci davanti, piuttosto vicino.

  • Cosa significa “allestimento”?
  • Sicuramente il momento in cui la progettazione diventa veramente “mettersi al servizio”. È una forma di progetto che però deve essere preceduta dalle scelte del curatore, alle quali tu dai sostanza fisica e spaziale.

Il più bell’allestimento che gli ho visto realizzare e che ho potuto vedere da vicino è stato per Randy Klein: ha dato il senso del movimento a decine di piccole sculture che quel senso ce l’avevano dentro.

  • Tre modi per scegliere il formato e tre per il supporto.
  • Formato e supporto sono scelte interconnesse strettamente: se voglio fare una cosa piccola scelgo quasi sempre il legno, se devo fare una cosa grande o grandissima scelgo la tela, se mi voglio rovinare la vita scelgo il legno e cerco di dargli una trama, se voglio perdere il sonno scelgo la tela e ne irrigidisco la superficie.
  • Tre modi per scegliere un titolo.
  • Ne esiste uno solo e lo scopri la mattina tra le 5.45 e le 6.15, prima stai ancora dormendo e dopo sei ormai già con un miliardo di cose sceme e inutili in testa.

I titoli dei quadri di Fulvio Tornese sono quasi storie a sé: Il signor Giovanni, Facilitazioni per campeggiatori, Legittima soddisfazione, L’opinione degli altri, Il lanciatore di nuvole, Vorrei che tu, Un amore inadatto. M’è venuta spesso la tentazione di scriverle, ma non è una cosa che farei con leggerezza.

  • Quanto conta la tecnica?
  • Come l’aria: te ne accorgi quando manca, eccome se te ne accorgi.
  • Esiste l’ispirazione?
  • Credo di sì.
  • Il senso delle [s]proporzioni.
  • Devi essere equilibrato per gestire la sproporzione e so che certe volte è meglio che non mi ci metto.
  • Il senso della serialità.
  • Per me è una scelta creativa, mi permette di lavorare sulle modifiche di uno stesso tema per essere più chiaro ed esplicito.

Delle ultime serie la mia preferita si chiama “catalogo di acconciature per giovani alberi”.

  • Tra “dentro” e “fuori”.
  • Scelgo il dentro.
  • Tra “pubblico” e “privato”.
  • Non esiste questa distinzione, esiste il diritto al privato per chiunque.

Sua moglie Carla Pinto è una direttrice artistica e una curatrice molto attiva e brillante, suo figlio Pietro è così importante per lui che ogni volta che lo nomina, fosse anche la centesima, lo chiama Pietro-mio-figlio.

  • Chi è Carla?
  • Mia moglie.
  • Ho letto che “continui a dipingere” “sostenuto” dalla sua “complicità”.
  • Infatti. Non credo ci sia una parola più adatta, che forse dovrebbe essere accompagnata alla parola “risata”.
  • Chi è Pietro?
  • Mio figlio.
  • Ho letto che è il tuo paziente selezionatore di musica.
  • Conosce i miei gusti e mi guida all’ascolto delle novità. Non solo di dischi, ma quando è possibile anche ai concerti. Chiarisco sempre che di pogare non se ne parla neanche.

Si prende molto sul serio e pochissimo sul serio, non alterna questi atteggiamenti ce li ha in contemporanea. Porta con una certa eleganza le sue contraddizioni di vivente pensante. Si capisce osservando il suo “misuratore del mondo”.

  • Il misuratore del mondo funziona?
  • Solo se è spinto da una forte convinzione interiore.
  • Quanto c’entra la politica?
  • Per me c’entra sempre, mi piace pensare che la facciamo tutti anche quando siamo convinti di subirla.

Michela la Lupa

[Avvertenza. Questo non è uno scritto sull’autismo. Questo è uno scritto su Michela. Michela Del Tinto.]

Michela si firmava Mollaian quando l’ho conosciuta, scura e riccia, oppure rossa e liscia, oppure bionda e mossa, ma sempre densa e intensa [come adesso], pittrice autodidatta, nata lupa, cresciuta lupa e lupa ritrovata. Avevo diciannove anni, coi soldi messi da parte con le ripetizioni di fisica [fisica, ho scritto fisica, intendevo fisica, sì] ho comprato due suoi quadri. A rate. Non erano accanto quando li ho visti, ma accanto li ho sempre tenuti: uno rosso e uno azzurro, in cornici grezze dipinte degli stessi colori e tenute insieme usando una sparapunti, trattati da tutti con sospetto per anni finché, finalmente, li ho appesi trionfanti al centro della scena quando ho potuto decidere in casa mia.

“Quando ci siamo conosciute avevo un rapporto molto stretto col colore, un rapporto in cui mi sono concessa il lusso di essere primitiva, anarchica, senza disciplina orari e istruzioni. A pelle ti sentivo libera e diretta, non cambiavi con le persone a seconda di chi c’era. Questo di te mi piaceva molto”.

Michela Del Tinto è una lupa e corre coi lupi, Clarissa Pinkola Estés ne avrebbe potuto raccontare, dipingeva e a volte lo fa ancora, vende tappeti orientali col marito lupo pure lui, e dà un nome che non ho mai sentito dare a nessun altro all’universo di suo figlio Teo: lo chiamano “autismo”, lei lo chiama Altrove. Un posto dov’è stata pure lei, racconta, un posto dove forse siamo stati/e in molti/e, dico io.

“Se non la guardi dal punto di vista che è tuo figlio è molto interessante, però è tuo figlio e sei nella merda”.

Teo era piccolo, io me lo ricordo.

“Teo spegneva l’interruttore e io ero sola. Sola. Ero sola e me la dovevo cavare da sola. C’è stato un lunghissimo periodo in cui non avevo mezzi per comunicare con lui, perché il suo autismo di allora non consentiva usuali connessioni. Ne ho cercate altre, ma non sono state sufficienti. E allora, visto che non potevo andare avanti, sono tornata indietro, alla mia parte animale. La Lupa”.

A Michela non piace l’autismo per come lo raccontano, e per come lo trattano le fa schifo. Michela s’è fatta lupa e un altro lupo ha imparato ad allevare provando ad accompagnarlo nell’Altrove, volendo che Teo fosse libero autonomo indipendente, con una dignità sua una dignità normale normalissima, in cui l’autismo è solo “una delle sue caratteristiche, quella neurobiologica”.

“Quando sento dire ‘ragazzi speciali con genitori speciali’ mi sento impazzire, mi sento soffocare. Che significa? Siamo tutti speciali, ognuno a modo suo. E gli autistici non sono più speciali degli altri e non sono tutti speciali allo stesso modo. È un’etichetta più invalidante dell’autismo stesso. Li vedi i ragazzi disabili che vanno a passeggio tutti assieme con gli ‘educatori’? Che pena. Li trattano da deficienti e li fanno guidare da gente deficiente davvero. No, mio figlio mai. Mai l’ho messo in condizioni di essere umiliato, e mai lo farò. Non ha senso farli interagire solo tra di loro, bisogna integrarli nella realtà quotidiana, dalla quale possono apprendere qualcosa. Isolandoli in un contesto protetto rischiano la decrescita, l’involuzione. A scuola, per esempio, i momenti della vera integrazione sono la merenda, l’educazione fisica, l’ora di religione. Bisogna creare una vera, duratura, rete d’amicizie. Non servono mezzi, manca spesso la voglia di sedersi e lavorare”.

Michela-la-Lupa aiuta Teo a far comunicare questo mondo e il suo Altrove, impiega energie straordinarie perché questa comunicazione sia il più possibile paritaria. Perché anche l’Altrove ha una sua dignità.

“Quindici anni di trincea. Sono un canale da cui quotidianamente mio figlio attinge informazioni vitali. Faccio tutto quello che è necessario perché sia autonomo e questo, mentre mi dà la possibilità di offrigli degli strumenti, me ne fa conoscere direttamente l’essenza. Provo spesso stupore, meraviglia, perché in questo viaggio ho modo di conoscere, osservare, studiare, sperimentare e creare continuamente”.

Michela ti guarda ti squadra ti penetra, non ti lascia modo di chiudere le imposte di dissimulare di rimanere sospesa di prendere tempo. O ci sei fino in fondo o ci sei fino in fondo, l’alternativa è scappare. Ma come fai a scappare davanti a quegli occhi quelle labbra quei seni, quel modo di muoversi di ridere di parlare, quella forza potenza energia che vengono fuori anche nel silenzio e nell’immobilità? Quei quadri a diciannove anni m’avevano smosso le viscere e ancora quando li guardo mi guardo dentro, mi ci fotografo davanti e scrivo “periodo rosso” o “periodo blu”.

“Mi frequento per conoscermi bene, vivo molto intensamente la mia vita sia in discesa che in salita. Credo nella legge dell’attrazione, bisogna prendere quello che fa bene. Adesso è molto facile, tutti vogliono bene a Teo, ma io ho il cuore in riserva e l’anima che non parte. Ci sono dei limiti che vengono superati troppo facilmente, e che invece devono essere rispettati, come quelli di tutti”.

Michela s’è fatta Lupa e ha recuperato l’istinto. Sull’istinto s’è basata e ha fatto quello che ha creduto capito voluto. Lo fa ancora, e nel seguire quell’istinto che le ha “salvato la vita” si incazza risponde spiega insiste. Lo fa anche quando sembra inutile assurdo improduttivo.

“Mi hanno detto che era autistico, io l’ho guardato e gli ho detto: noi ce la caveremo, ma ti farò il culo. Ho fatto così. Ho letto tutto, so cosa dice la scienza, ma devo la mia vita agli scrittori, non ai medici. Niente psicofarmaci per Teo, niente schifezze. Non parlo in generale, parlo della mia esperienza personale: non sono tutti uguali. Non esiste un’‘autistica persona’, ci sono ‘persone autistiche’. Devi conoscere bene tuo figlio, e per conoscere tuo figlio devi conoscere te stesso. A quattro anni volevano sedarlo, ma noi volevamo prima conoscerlo. Non devi delegare, devi essere in prima linea come genitore, usare la scienza nel modo più adatto al caso specifico. Ecco perché dico che devo la mia vita agli scrittori, non ai medici. Gli stimoli emotivi che m’hanno ispirato salvato guidato sono venuti dalla letteratura”.

L’autonomia di Teo.

“La sua autonomia è la mia priorità assoluta. E la vedo all’orizzonte, albeggia, cresce in proporzione alle risorse che pian piano scopre di avere, che acquisisce di giorno in giorno”.

No, non si preoccupa del dopo-di-noi.

“Come fai a occuparti del dopo-di-noi se non conosci cosa accade mentre-noi? Io non sono concentrata sul mondo, io sono concentrata su Teo”.

Non ho voluto leggere un granché sull’autismo, non prima d’aver scritto di Michela. Michela che una volta al telefono con Teo s’è fatta una risata: “I calzini sono nel tuo cassetto. Senti, ma che vuoi da me?”. Molta tenerezza ma nessuna indulgenza, molta comprensione ma nessuno sconto. Tutte le madri di uomini dovrebbero puntare all’autonomia.

“I prossimi saranno anni cruciali. Seguiremo lezioni di teatro. Basta vocine acide poco attraenti. Dizione, postura. E poi danza. Dev’essere un uomo attraente”.

Un programma che consiglierei a tutti gli uomini. Ciao, Michela. Al prossimo caffè, alla prossima cena. “Saluti a tutti. Autistici e non”.

breve diario cagliaritano

Quando ho sentito “mi sento prima sarda, poi italiana” ho capito perché, volando verso l’isola, ho avuto la stessa sensazione di quando cambio nazione.

Provo una sincera e amorevole invidia per tutto quel verde, e per come crescono rigogliosi rampicanti e ficus vari.

Le insalate possono essere felici, ne ho mangiate almeno due indimenticabili.

I fenicotteri sono magnifici. In Sardegna persino il rosa m’è parso un bel colore.

the very kind York [with a lot of lovely gooses]

York is very kind, York è veramente deliziosa. Un posto molto molto inglese, ma senza il caos di Londra [che è praticamente l’unico posto inglese che avevo visto fino all’altra settimana, ammesso che Londra possa definirsi inglese], pieno di inglesi e cibo e pub inglesi, case vittoriane e un mucchio di amabili volatili. Yes, York has a lot of lovely gooses, è stato meraviglioso passeggiarci accanto e osservare la loro eleganza e i loro teneri piccoli.

Il centro cittadino, circondato da antiche mura sulle quali si può amabilmente passeggiare, è pieno di scorci affascinanti e chiese gotiche [con tanto di cimiteri], ed è attraversato dal fiume Ouse sul quale galleggiano volatili [naturalmente] e barche e canoe, e sul quale s’affacciano case, uffici e molti locali [tipici e non].

Il duomo è una delle cattedrali più interessanti ch’io abbia mai visitato, con quella sua mistura [molto inglese] di sacro e profano, religioso e laico, pacifista e guerrafondaio. Very kind anche lo Yorkshire Museum, with a giant fossilised ichthyosaur skeleton [molto impressionante], che si trova nel mezzo di un bel parco, e il Castle Museum, dove ho vissuto persino attimi di paura nell’attraversare la ricostruzione di York ai tempi della regina Vittoria [e dove ho orgogliosamente comprato una spilletta “Vote for Women”].

Sulla Clifford’s Tower mi sono goduta, oltre al panorama, anche delle magnifiche raffiche di vento gelido [cosa che trovo un’esperienza molto interessante dalla volta sulla sommità della Siegessäule a Berlino], le stesse che vi invito a godervi salendo in cima alla torre centrale del duomo: 275 scalini che val la pena di percorrere.

Se vi vien voglia di farci un giro, consultate l’ottimo www.visityork.org.

per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (5/5)

Ho scattato questa foto pochi minuti dopo essermi sbucciata le ginocchia uscendo dall’ospedale. Un dolore… conosciuto, bello, “normale”. Altri 15 minuti ed ero seduta su un divano caro e familiare. Da quel momento e per molte settimane, per non essere lasciata mai sola, m’hanno fatto fare la spola tra casa mia e casa dei miei genitori. Sola mai per davvero, che fosse per mangiare, dormire e persino per andare in bagno. Era tangibile il terrore diffuso all’idea di un mio capogiro [o peggio], all’idea insomma che accadesse qualcos’altro di misterioso al mio cervello. Quelle settimane sono trascorse dormendo non meno di nove ore per notte e non meno di altre sei ore durante il giorno. Un sonno che pareva… storico.

La diplopia è andata avanti a lungo, ma meno di quel che m’avevano prospettato. Benda sull’occhio sinistro, camminando sottobraccio a qualcuno, costantemente sorvegliata, sono riuscita non so come a superare anche questa. L’occhio destro ha progressivamente ripreso a muoversi: ogni mattina Davide mi osservava tentare di ruotare sincronicamente gli occhi.

  • Si muove un po’ di più adesso.
  • E se faccio così?
  • Manca ancora qualche millimetro a destra.
  • Va bene.
  • Mi vedi ancora doppio?
  • Sì.

A un certo punto sono riuscita a far percorrere un giro completo di 360 gradi a entrambi gli occhi. Era fatta. Ho potuto ricominciare a guardarmi allo specchio [cosa difficilissima soprattutto i primi giorni], e il mondo ha ripreso l’aspetto che conoscevo. Niente più strade che finiscono su portoni o lampioni, niente doppie porte, doppi Davide e doppio tutto.

  • Oggi ti vedo uno. Sei uno!
  • Sono uno? Dai!
  • Sì!!

Mi hanno coccolato tantissimo le mie gatte Julia, Eleanor e Yoko, alle quali il mio pensiero correva spesso anche quand’ero in terapia intensiva.

  • Le piccole?
  • Stanno bene.
  • Hanno mangiato? La cacca?
  • Tutto bene, Loredana, le ho portate anche dal veterinario per i vaccini. Non ti preoccupare.

Mia madre Teresa, mio padre Vittorio, mia sorella Alessandra, mio fratello Francesco e Davide sono stati magnifici anche nell’affrontare il mio sempre più deciso rifiuto a essere trattata come un’incapace. Diciamo che posso diventare veramente molto… fastidiosa in certi casi! 😉

Ho ripreso a leggere, a scrivere al computer, a camminare da sola, a fare sforzi fisici [gradualmente sempre maggiori]. Sono queste le ultime [spero] settimane di riposo, impegnate nelle ultime [spero] analisi e verifiche varie di quali potrebbero essere le cause di una pressione arteriosa così poco gestibile. Il giorno in cui cavalcherò di nuovo la mia bicicletta sarà il giorno più bello di tutti.

Oltre al mio medico di base, che sorridendo ha concordato con mia madre sul fatto che siamo davanti a un miracolo [che tenerezza], mi hanno seguita la mia paziente e incredula oculista, il mio ginecologo, brevemente un dermatologo e da alcune settimane una bellissima nutrizionista con la quale lavoriamo per far venir giù la pressione in modo più naturale, con dosaggi più bassi di farmaci. E già con ottimi risultati.

Con quello che è diventato il mio cardiologo, e che seguiva già mio padre, gli aggiornamenti si scambiano adesso anche via sms. Il chirurgo che m’ha operata verificherà tra poche settimane com’è andata a finire nel mio cervello: sono necessari almeno tre mesi dopo un’operazione di embolizzazione come la mia.

Da dieci giorni a questa parte mi sento molto meglio. Anche per questo ho voluto e potuto raccontare questa storia. Per poterlo fare, ho riannodato i fili dei ricordi, ho chiesto di tutto a tutte e tutti, ho riletto messaggi e rivisto immagini. Ripenso ora con divertimento a molte delle cose accadute in questi mesi attorno a me e a questa faccenda.

Ripenso per esempio alla reazione di un amico ipocondriaco:

  • Hai saputo? Loredana sta male, aneurisma cerebrale!
  • Cosa? Ma se l’altra sera stava bene!
  • Che c’entra? Sono cose che accadono da un momento all’altro.
  • Come sarebbe da un momento all’altro? E quali sono i sintomi?
  • Nessun sintomo.
  • Cosaaaaaa?

Per esempio ad alcuni messaggi inconsapevolmente ironici:

  • Cara Loredana, mi è giunta voce di un problema di salute molto grave a cui saresti sopravvissuta. Sono sicura che si tratta di una notizia ingigantita dal passaparola, perciò rassicurami. Ti prego.
  • Cara M., aneurisma cerebrale. Sono viva, passa da casa quando vuoi.
  • Adesso.

Per esempio ad alcune telefonate drammaticamente surreali:

Ah Loredana, non sai che paura. Per un cosa così, un’amica di un’amica è morta all’istante.

Per esempio alle “crisi” scatenate in chi, colpito da ciò che m’era accaduto, ha voluto condividere con me profonde riflessioni sulla vita, la morte e l’amore. E alle quali ho risposto puntualmente: Oh, l’aneurisma s’è rotto a me. E sono viva! Tranquilli, dai!

Siamo alla fine, è arrivato il momento di spiegare perché dico “per fortuna”. Perché? Questa è una storia che probabilmente avete ascoltato mille volte e che magari in molte e molti avete vissuto: un evento traumatico che cambia radicalmente, in meglio, la prospettiva. Ecco io, semplicemente, ho cambiato priorità. Perché mi pare ora di riconoscere in modo più veloce, semplice e chiaro quali sono le cose importanti. E poi desidero esercitare la forza del mio corpo, curare e coltivare la sua capacità di resistere, reagire e andare oltre.

A chi mi ha chiesto “Hai mai avuto un momento di sconforto? Di paura?”, ho sempre risposto “No, mai”. Lo ripeto ogni volta, ci penso e ci ripenso e la mia risposta non è mai cambiata e non cambierà. No, io non ho avuto paura. No. Never give up. Never.

per fortuna mi si è rotto l’aneurisma (4/5)

Ci ho messo altri nove giorni per uscire dall’ospedale, principalmente a causa di un febbrone così resistente da richiedere un consulto in Virologia. Un possibile, temporaneo “rigetto” delle spirali di Guglielmi è stato pure ipotizzato. Di qualunque cosa si trattasse, al quarto cambio d’antibiotico ho immaginato i medici fare la ola: finalmente funzionava.

  • Il problema è la febbre, ci preoccupa la febbre. Se non scende quella… ma quanto ha oggi?
  • Stamattina 36.4!
  • Ah bene! Due/tre giorni così e può uscire.

La mia pressione arteriosa, poi, era imprevedibile. Faccenda non nuova, ma che alla luce dell’accaduto aveva preso una piega preoccupante. Necessario un consulto in Cardiologia:

  • Bisogna cambiare farmaco, lo scrivo sulla tua cartella.
  • Lo dovrò prendere per sempre?
  • Penso proprio di sì. È un problema?
  • Non credo di poter rispondere che lo è.

Nel frattempo, il recupero progressivo dell’autonomia. Mangiar da sola, sedermi più spesso, alzarmi e fare qualche passo fino al bagno [iuppi!].

  • Ha detto la dottoressa che devi fare con calma. Perché non aspetti domani per alzarti?
  • No, oggi.
  • Beh allora dobbiamo aspettare tuo padre e Davide, io da sola ho paura di non reggerti se ti gira la testa.
  • Va bene, ma io oggi mi alzo.

Quando le vene hanno proclamato lo sciopero permanente, dai medici per fortuna è arrivato l’ok a continuare la terapia farmacologica con gocce, pastiglie e punture. Il mio braccio sinistro era combinato come vedete nella foto, il destro in modo simile. Non ho voluto che vi venisse applicato alcun tipo di pomata: desideravo guardare quegli ematomi intensamente e godermeli scomparire.

L’occhio destro rimaneva fermo: paralisi del quarto nervo cranico. Mi hanno consigliato di bendare il sinistro per “costringere” il destro a sforzarsi, con grande paura di mio nipote.

Durante quelle nove notti, vegliata a turno da mia madre e da Davide, ho finalmente smesso di fare incubi. Persone e cose e oggetti di dieci o più anni prima mi avevano fino a quel momento perseguitata. Il sonno tuttavia non era tranquillo, anche se progressivamente il mal di testa diminuiva. Ero inquieta e mi sentivo tramortita dagli antidolorifici. La prima giornata senza ketorolac è stata una bellissima giornata. Avevo dolori solo vaghi e momentanei, e mi sentivo anche piuttosto lucida! Potevo finalmente chiedere a Davide, che aveva pazientemente aggiornato amiche e amici sull’andamento del ricovero, di leggermi le decine di messaggi nel frattempo arrivati. In qualche caso ho dettato una risposta. E appena il senso di nausea all’idea dell’uso di un qualunque apparecchio elettronico mi è passato, ho scritto su faccialibro “non solo vivo ma ho anche smesso di vegetare. never give up!”. Una grande mossa: le acque si sono acquietate, sono diminuiti telefonate e messaggi, mi sembrava di poter godere di più tranquillità. Avevo un assoluto bisogno di riposare.

Il 29 luglio le dimissioni, con ulteriori raccomandazioni di riposo, una lista di farmaci da assumere e, nel salire un gradino, due ginocchia sbucciate.

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