Autore: Loredana De Vitis

Sabrina, ovvero della neve e altre ovvietà

Sabrina Barbante si è sempre giocata (assai male) la storiella d’essere banale, noiosa, prevedibile. Potreste sentirla raccontare questa storiella e riferirla – con grande probabilità – ai suoi capelli, per esempio. «Mai tagliati, sempre uguali da sempre». Potreste sentirla raccontare questa storiella a proposito del suo uomo: «Ero la più noiosa, la più prevedibile. Ma tant’è». Potreste sentirla raccontare questa storiella per un’altra infinità di motivi ma non credo vi convincerà. Perché in genere mentre racconta questa storiella fa tintinnare un nuovo paio di orecchini improbabili (tipo i miei), o agita una gonna a quadri in stile very Scottish, e poi – veniamo al punto – soprattutto Sabrina scrive. Racconti, romanzi, articoli, testi su blog vari (non solo il suo). Scrive continuamente, scrive ogni giorno.

Insomma, Sabrina, falla finita con questa storia. Parliamo del tuo secondo romanzo, Faintly falling, e vediamo di non girarci intorno. La neve fa rumore, dici nel sottotitolo. La faccenda non è banale.

«La neve dice dell’immobilità, racconta la paura della paura di cambiare. Le persone si chiudono nei propri riti, nei propri doveri, si addormentano. Ho riti anch’io, per esempio prendo un caffè doppio macchiato da portare via ogni mattina nello stesso bar. La china che prendono queste cose, l’immobilità… mi ha sempre fatto paura. Ecco».

La neve descrive, circonda, amplifica l’immobilità delle sorelle protagoniste del romanzo. Un’immobilità apparente o reale? A me sembra che, alla fine, almeno una delle due salvi se stessa e così facendo salvi entrambe dal… nulla. E James, poi, quest’uomo molto affascinante che entra nella loro vita: James viaggia.

«Sì ma anche il viaggiare è un rito per non tornare al nocciolo della questione. Una cosa che accade se non hai il coraggio di riportare tutto a casa. Per quanto riguarda Laura e Cristina, ecco… nel loro caso è il troppo amore che blocca. Il troppo amore blocca sia che tu lo nutra sia che tu ne sia oggetto. Rimaniamo così, chiusi nella fissità della nostra esperienza».

Non descrivi nei dettagli James, ma sappiamo bene che stai parlando di Joyce. Lo dichiari in quarta di copertina addirittura: dici che questo romanzo è un saldo di conto in sospeso.

«Avevo 14 anni quando ho letto The Dead, e mi ha sconvolto l’esistenza. Ho due debiti con Joyce. Il primo è per questo racconto, perché quando sono arrivata all’ultima riga mi sono detta: non voglio mai, nella vita, arrivare a guardarmi indietro e rendermi conto che certe cose non le ho volute vedere. E il secondo debito, che non ho saldato e non salderò mai, è un debito con il suo stile. Come si fa? La sua grandezza… non si raggiunge, e questo ti lascia senza fiato. La coscienza che mai potrai. È dura».

Mentre parliamo, io e Sabrina beviamo. Birra. Siamo in un pub di Lecce dove la Guinness è ben spillata. Io ne ho presa una pinta. Sabrina ha preferito una bionda. Dal bancone si avvicina una delle ragazze a portarci due cicchetti di rhum. Dice: «Da parte di un ragazzo, non vuole che vi dica chi è». Sabrina è sconvolta. Mi dice: «Solo quando esco con te mi capitano queste cose». Chissà se è vero, comunque è divertente.

Sabrina, perché i tuoi personaggi sono sempre così… composti? (Sabrina ride). Dai, sono composti. Io leggo te, leggo me e mi metto le mani nei capelli. I miei sono sempre in delirio. I tuoi sono… composti. Ti piace questa definizione?

«Adesso cosa posso dire per non compromettermi?».

Risate.

«Oddio, sono in un cul de sac».

Risate.

«Forse perché non ho ancora maturato distacco. Distacco da quello che ci si aspetta da me. Ma la verità è che una vita non mi basta, vorrei vivere mille vite parallele. Scrivere è catartico, distogli l’attenzione da te stessa».

È così che la neve cade. Lentamente cade. Sul passato e sul presente, sui vivi e i morti: the flakes, silver and dark, falling obliquely against the lamplight. E ora torniamo a casa.

Monica al di là di Monica

Questa è la presentazione scritta per “Além do além”, mostra personale di Monica Lisi in esposizione a Torchiarolo (Brindisi) dal 22 dicembre 2010 al 9 gennaio 2011 nelle sale del Centro Frizzoli (piazza Municipio).

Monica Lisi ha spesso le mani sporche di colore. Cosicché non puoi fare a meno di domandarti cosa abbia dipinto questa volta in tua assenza. Non dico che un’artista (vi prego di notare l’apostrofo) debba dipingere in presenza del suo pubblico, no. Dico solo che, se ami un’artista, vorresti saperne di più. E invece, poiché Monica è una di quelle persone che ha con le tecnologie della comunicazione un rapporto difficile, è difficile che risponda al telefono. È difficile che risponda alle mail, è difficile che si faccia trovare, è difficile che aggiorni il suo blog, è difficile che comunichi cosa accade. Cosicché non può meravigliarti che, finalmente in contatto con lei (quindi di persona), Monica ti sorprenda perché nel frattempo ha rimescolato le carte della sua arte e molto probabilmente anche quelle della sua vita. Ecco perché, quando Monica ha le mani sporche di colore, sei curiosa di sapere cosa ha combinato questa volta.

Perché Monica ha questo di meraviglioso: che è nella vita, terribilmente, violentemente, amorevolmente, tragicomicamente nella vita. E allora l’al di là che in questa mostra Monica evoca non è un altrove fuori da questa vita, ma qualcosa di profondamente dentro. In un punto così profondo che molti di noi non possono, non vogliono, non sanno, non riescono a vederlo. Cosicché sembra essere divenuto – appunto – un altrove. A ben pensarci viviamo fuori di noi, non vi pare?, espropriati della nostra autenticità, del contatto con la parte più intima di noi. Quest’intimità, invece, Monica la coltiva. Ogni giorno. Non solo con l’arte. L’intimità è qualcosa che Monica non ha paura di condividere, dando prova da sempre di un coraggio molto molto raro. Perché Monica non ha paura, non ha paura di vivere, perché Monica vive. E anche per questo comunica poco con i mezzi elettronici.

Ecco, allora, che quando Monica lavora sull’identità apre l’armadio, guarda i suoi abiti e pensa al suo portafoglio. Quando Monica lavora sull’identità pensa a cosa indossa e al luogo in cui è stato prodotto, pensa a quanto le ha fatto risparmiare oggi e a quanto le farà spendere domani. Domani, quando avremo completamente smesso di produrre nel luogo in cui abitiamo, quando la sapienza delle mani non avrà più alcun valore, in che scenario ci muoveremo? Cosa avremo davanti a noi? Quanto ci costerà allora quello che indossiamo? Da dove diremo di venire? Dove penseremo d’esser nati a quel punto?

Quando Monica lavora sulla spiritualità pensa a cosa ha provato entrando in luoghi sacri non nella forma, ma sacri per la sacralità dello spirito di chi ci entra con un perché, con una speranza, con il bisogno di credere in un legame più profondo tra le persone, e tra le persone e qualcosa di ‘altro’ dalla materia che vive nella materia stessa. Così Monica lavora immergendo le mani in questa materia, porta con sé la sua vita e quella delle persone che ha intorno, porta con sé il suo lavoro, la sua fatica, la sua inarrestabile riflessione, il suo incontenibile viaggiare. Poi torna e… si sporca le mani.

Quando Monica si guarda intorno Monica si guarda dentro, così racconta artisticamente l’inquinamento, la salute e i diritti attingendo a ciò che le è accaduto dentro. Monica guarda il lungo segno alla base del suo collo e pensa a cosa ha provato, Monica legge “il fumo uccide” e pensa a suo padre, Monica partecipa al dolore del mondo e reagisce camminando come fosse Mary Poppins con un ombrello, però, carico di bruttura e d’ansia. «Come possono non vedere?», mi ha chiesto una volta, «come possono le persone non riflettere, non chiedersi da dove viene tutto questo dolore?». Monica se l’è chiesto, ha guardato suo figlio e sua figlia, ha pensato alle sue amiche e ai suoi amici, ha pensato alla sua arte e ne ha voluto fare un gesto politico.

Un gesto che vuole scuotere, metterci di fronte uno specchio (o davanti alla sua macchina fotografica, magari) e farci domandare da dove veniamo, qual è la nostra identità e come pensiamo di coltivarla, quale futuro immaginiamo per noi e per le generazioni che verranno. Senza retorica, senza moralismi, senza ovvietà. Le domande delle domande di tutti i tempi, cui restituire senso. Qui non si tratta di dare valore a un luogo specifico in quanto luogo geograficamente definito e chiuso in se stesso nelle sue caratteristiche fisiche, sociali, culturali, nelle sue problematiche apparentemente, appunto, locali. Qui si tratta del riappropriarsi di sé in una prospettiva più ampia, che parte da un luogo e ha il mondo come orizzonte. Monica ha una foto davanti a una porta azzurra, alle sue spalle la scritta Além do além. Siamo a Lisbona, lì ha colto questo spunto quasi magico dell’idea dell’“al di là di là”, di un viaggio che definisce «iniziatico» verso – credo – una rinnovata consapevolezza di sé.

Quella che Monica per prima, e in prima persona, ci dona in questa mostra, in queste opere aperte a tecniche differenti che sollecitano tutte (per forma, per materia, per colore, per movimento) il nostro profondo, in questo nero che non riesce in nessun modo a soffocare i colori che conosciamo essere propri di quest’artista. Perché Monica fa un gesto politico, politicamente/artisticamente ci chiede di agire, di guardarci intorno, di guardarci dentro e di compiere gesti politici. Di incidere sulle nostre vite e sul mondo attorno a noi. Monica al di là di Monica è insomma in queste opere come è al di qua dell’espropriazione del senso. Forte, veemente, ancorata a una vita densa densissima, Monica invita a squarciare questa vita, a leggerla di nuovo, a viverla davvero. Una vita ironica beffarda bastarda ma una vita una vita una vita.

l’uomo del ponte

Ho conosciuto Paolo per lavoro, e ho scoperto di avere un debole per i fisici. Quelli di mestiere, intendo. Non proprio per tutti, naturalmente. Ma per molti di quelli che stanno lì a fare ricerca, su cose infinitamente piccole o infinitamente grandi. E per alcuni di quelli che fanno altro, ma sono fisici lo stesso.

Minuto, con gli occhiali. Chiaro, semplice, preciso ma non pedante. Paolo è così. Ci lavori benissimo. Ma la cosa più bella che si può fare con lui è farsi raccontare del Tibet. Perché Paolo va in Tibet una o due volte l’anno per le sue ricerche. Il Tibet, questo luogo magico, questo posto che fa pensare all’equilibrio della mente e del corpo. Questo posto dove Paolo ci fa pure il ponte tibetano, all’occorrenza… Allora, Paolo, com’è il Tibet? Freddo.

Mi sono accorta di avere sulla rubrica una quantità di Marco diversi. Due di loro sono fisici: uno alto e magro, brizzolato, mani grandi, fidanzato con una donna splendida (e brillante, adorabile, di quelle che piacciono pure alle donne); l’altro alto e goloso, una passione per la birra e il canto, un anno di condivisione di caffè e sfizi dolci e salati, due gemelli di 7 anni e una donna bionda e diabolica. Il primo fa ricerca, il secondo smanetta sui pc nei modi più disparati. Vi sfido a trovare un argomento su cui non riescano ad esprimere un’opinione quantomeno spiazzante.

Il mio rapporto con le “faccende” domestiche non è proprio idilliaco. Le trovo necessarie. Tutto qui. Quindi non riesco a capire per quale motivo dovrei impegnarmici più di tanto. Ilaria, invece, che la pensa come me ma è un fisico, è “scientifica” anche in quello. Per esempio sa cucinare benissimo, così bene da far paura. Tutto perfetto, come nelle trasmissioni ossessionanti sulla buona cucina italiana. Un giorno ho scoperto che, visto che doveva fare il suo bravo compitino per la fine di un corso per web designer, aveva pensato di costruire un sito con le foto e le ricette testate e garantite di piatti suoi, cucinati apposta per l’occasione. Il sito era tutto in flash. Impressionante. Ilaria, flash era nel programma del corso? No, solo che… così, ho letto un libro… un mese fa…

Su http://1000fisici.unile.it/, di fisici ne trovate un migliaio. Assieme a cose più serie delle mie…

L’immagine è per gentile concessione di Paolo Bernardini.

Welcome to Albània

Lo scopo del viaggio doveva essere quello di scrivere un reportage sul “paesaggio culturale” dell’Albania. Sei giorni sei. Pochissimo preavviso. Ok, partiamo. Qualche telefonata e via. Giusto il tempo di leggere un paio di testi e dei flash su internet. A dire il vero non volevo leggere di più. Perché partire con un’idea già bell’e fatta? Perché arrivare lì credendo di aver capito tutto?

Il paesaggio culturale. Sì. Di cosa stavamo parlando? Che cos’è la cultura? Più che raccogliere dati e “monitorare” la situazione, volevo mettermi in ascolto. Vivere la situazione e scrivere qualcosa di significante, a modo mio. Ero libera. E ho scelto di parlare di quello che mi sembrava più importante. E cioè di un “clima”, di un sentimento, di qualcosa che fosse percepibile nell’aria.

Un sentimento, quindi. Beh, questo sentimento è la frustrazione. E la voglia di essere riconosciuti parte dell’Europa. E la voglia di non essere discriminati.

L’ho chiamato Welcome to Albània. Benvenuti, perché non potevo pensare di parlare dell’Albania a 360 gradi. Albània e non Albanìa, anche perché è con quell’accento che nel periodo degli sbarchi – qualche anno fa – si sentiva nominare il Paese dall’altra parte dell’Adriatico. E perché è così che molti di noi salentini parlavano agli albanesi, per prenderli in giro, per dire che erano profughi. E morti di fame.

E perché parlavano così anche molti di quelli che li aiutavano: poverini… beh, che vuoi?, “albanesi sono”… e altre cose così. Ecco perché Welcome to Albània è un reportage sull’Albania ma anche sull’Italia. Sugli albanesi ma anche su noi italiani. Italiani spaghetti, pizza, mandolino, mamma…

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